California for President

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di Emiliano Sbaraglia, da San Francisco

Parte dalla California, e in particolare da Lake Forest, il primo confronto (seppur indiretto) tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, i senatori John Mc Cain e Barack Obama. Lo scenario è quello della “Saddleback Church”, la chiesa evangelica gestita dal potente reverendo Rick Warren (che conta oltre 20.000 fedeli al suo seguito), organizzatore e moderatore dell’incontro, su una base di domande eguali per entrambi i contendenti che si sono avvicendati sul palco. Il primo a rispondere al reverendo è stato Mc Cain, mostratosi sicuro di sè e particolarmente brillante e spiritoso in alcuni passaggi, forse confortato anche da un pubblico che si è presto rivelato più dalla sua parte che da quella di Obama, nel corso di un atteso appuntamento mediaticamente coperto e ampiamente commentato da “Cnn” e “Fox news”.

I temi affrontati sono stati molti e vari, dalle tasse all’aborto, dalla sicurezza alla guerra in Iraq e la più che preoccupante situazione in Georgia, toccando anche argomenti di interesse sociale quale ad esempio gli incentivi economici agli insegnanti delle “high school”; oltre, naturalmente, la questione religiosa, passaggio particolarmente delicato per Obama, che più volte negli ultimi mesi è stato attaccato su questo fronte da avversari e componenti del suo stesso partito, non ultima la stessa Hillary Clinton nel corso delle primarie. Hillary Clinton che, a sorpresa, sembra voler tornare alla ribalta, avendo ufficialmente chiesto di essere inserita tra i relatori dell’imminente Convention democratica di Denver (25-28 agosto), precisamente nella serata di martedì 26 agosto, giorno in cui si celebrerà l’ottantottesimo anniversario della ratifica del diritto di voto per le donne negli Stati Uniti.

Sollecitato dal reverendo Warren in merito alle sue posizioni religiose, Obama ha ancora una volta dovuto ricordare l’orientamento profondamente cattolico della sua fede, lasciandosi poi andare a un tono molto confidenziale con il suo interlocutore, per ricordare qualche “peccato di gioventù”. “Il mio peggiore peccato è stato l’egoismo”, ha infatti confessato a un certo punto Obama, proseguendo subito dopo: “In gioventù ho bevuto, assunto droghe. Ero ossessionato da me stesso, del tutto incapace di concentrarmi sugli altri. Ma tutto questo -ha aggiunto il candidato democratico senza dimenticare il fondamentale “aiuto di Gesù”-, è stata una sequenza di esperienze utili per diventare una persona migliore”.

Non è un caso che Obama sia tornato sul proprio passato alla prima occasione utile, dopo la breve vacanza con la famiglia nelle Hawaii, la terra della nonna che lo ha cresciuto. “Dreams of my father”, uno dei libri da lui pubblicati in questi ultimi due anni (l’altro, “The Audacity of Hope”, è del 2006), conteneva già l’analisi del suo passato a contatto con qualche vizio di troppo: ma Obama è stato quasi costretto a riesumare precedenti debolezze, in seguito alla pubblicazione di altri due testi usciti recentemente negli Usa, che lo chiamano in causa trattando tali argomenti.

Il primo si intitola “The Case against Barack Obama” (Regenering Publishing), scritto da David Freddoso, reporter politico per la versione online della “National Review”, che si concentra sul rapporto tra il leader democratico e la costruzione del suo personaggio come “star” da parte dei media; titolo al quale, in realtà, neanche la stampa conservatrice sembra riuscire a garantire troppo credito.

Il libro che invece maggiormente sta animando la discussione politica in questi giorni è “The Obama Nation”, di Jerome R. Corsi, dal sottotitolo eloquente: “Leftist Politics and the Cult of Personality” (Threshold Editions). Il giornalista e scrittore americano, già molto noto nel suo paese per il successo ottenuto quattro anni fa insieme a John E. O’ Neill con “Unfit for Command”, teso a screditare l’immagine dell’allora candidato democratico John Kerry, stavolta propone un’analisi molto critica della biografia umana e politica di Obama, focalizzando l’attenzione sul rapporto di quest’ultimo con droghe e “amicizie pericolose”, tra le quali faccendieri dal dubbio curriculum (Tony Rezko su tutti) e la figura di un altro reverendo, ben diverso dall’evangelico Rick Warren, quel Jeremiah Wright divenuto famoso per i suoi sermoni “black power” e antiamericani. Jerome Corsi presenta il suo lavoro ai lettori con frasi come questa: “Ci sono cose che qualcuno conosce, ma la maggioranza dei votanti ignora, dettagli che colpiscono a fondo il candidato, autodichiaratosi “l’Uomo che il mondo aspetta con ansia”, come egli stesso afferma nella sua autobiografia”.
Un attacco di carattere editoriale ben mirato al senatore democratico dell’Illinois, al quale il suo staff ha risposto con una replica ufficiale di ben quaranta cartelle, che ribattono punto per punto le maggiori accuse rivolte a Obama. Inoltre, si erge in difesa del “presunto” candidato alla Casa Bianca (sarà infatti la Convention di Denver a certifcarne la candidatura) lo stesso John Kerry, che si è uscito allo scoperto scrivendo tramite web ai suoi e a tutti i sostenitori democratici, partendo dall’incipit “I leoni sono tornati”. Kerry annuncia la nascita di un sito (“TruthFightsBackHome”) realizzato proprio con l’obiettivo di smentire le bugie montate e che monteranno intorno ai Democratici in questi mesi di campagna elettorale; poi attacca duramente l’autore del libro “The Obama Nation”: “Abbiamo già visto questo film -scrive Kerry riferendosi al libro scritto da Corsi durante la sua corsa alla presidenza nel 2004-: i Repubblicani, senza idee, iniziano a proporre una campagna elettorale fatta di attacchi personali e mistificazioni. Questi attacchi vanno denunciati e condannati, senza pero’ che questo conceda loro spazio e visibilità nei media. Dobbiamo combattere questi metodi in qulasiasi modo possiamo”.

A proposito di libri, il vento della California ci conduce verso San Francisco, dove nella storica quanto ormai turistica zona di North Beach, da oltre mezzo secolo la libreria City Lights, fondata da Lawrence Ferlinghetti, continua a rappresentare un punto di riferimento essenziale della cultura e controcultura americana. Con gli uffici dell’omonima casa editrice situati al piano sovrastante, con un po’ di fortuna (e di pazienza…) puo’ capitare di incontrare lo stesso Ferlinghetti, che malgrado gli ottanta anni già superati non rinuncia a vivere quotidianamente quella che è stata l’attività e la creazione di un’intera esistenza; il suo recente viaggio in Italia, dove è stato tra l’altro protagonista di un affollatissimo reading poetico in coppia con Giorgio Albertazzi nel cuore della periferia romana, lo ribadisce inequivocabilmente.
Raggiungiamo Ferlinghetti mentre esce dalla sua libreria per la pausa pranzo, diretto verso un piccolo ristorante italiano di vecchia data, appena fuori dal chiasso di Columbus Avenue, accompagnato da una bellissima ed elegante signora, la cui sola presenza lascia intuire molti anni di vita passati assieme.
A colui che continua a identificare un simbolo di impegno politico nell’azione cuturale, chiediamo quali siano le proprie sensazioni in vista dell’ “election day” del prossimo quattro novembre. “Non so -risponde-, non riesco ancora a pensare a un presidente nero in questa America. Certo, il voto qui in California sarà molto importante, visto anche il nostro governatore repubblicano…”. E le nuov
e generazioni? “Quello che più mi ha impressionato finora di questa campagna elettorale sono proprio i giovani che qui a San Francisco, e nel resto della California, si stanno impegnando tantissimo per Obama, come non vedevo fare da tempo da un punto di vista politico. Si vede che nutrono quella speranza di cui Obama spesso parla. Una speranza che dovrebbe alimentare e contagiare parecchi americani per fare in modo che succeda quello che anch’io mi auguro che accada”. Ottimista? “Mah, piuttosto sono abituato a vedere quel che accade domani”.
E a vederlo con i suoi occhi incredibilmente azzurri, che sorridono e vanno via.

(21 agosto 2008)



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