Capitalismo e democrazia, catastrofe o rivoluzione

Paolo Ortelli



– Wolfgang Streeck, Jürgen Habermas, Oltre l’austerità. Disputa sull’Europa, a cura di Giorgio Fazio, Castelvecchi, Roma 2020.
– Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, a cura di Giacomo Russo Spena, Meltemi, Milano 2020.

«Se, in nome della giustizia e della libertà di restituire significato e unità alla vita, fossimo mai chiamati a sacrificare una quota di efficienza nella produzione, di economia nel consumo, o di razionalità nell’amministrazione, ebbene una civiltà industriale potrebbe permetterselo.»
Karl Polanyi[1]

È da almeno dieci anni che una minoranza di studiosi sociali invoca la necessità di un cambio di paradigma economico, una minoranza che si è rinfoltita con qualche ritardo rispetto allo sgretolamento del sistema sociale che ha governato i destini del mondo negli ultimi quarant’anni. Ci è voluto un decennio di stagnazione perché tornassimo «tutti (nuovamente) keynesiani», realizzando però che ormai abbiamo perso il controllo sulle leve necessarie per applicare politiche keynesiane.

Oggi che la pandemia di Covid-19 sta facendo sentire le sue incommensurabili conseguenze economiche, anche nell’establishment istituzionale e accademico si parla finalmente di cambiare paradigma. Ma forse è a quei pochi capaci di uscire dal coro già in tempi non sospetti che dovremmo rivolgerci per trovare la bussola in questa crisi, la quale rischia di rivelarsi tanto più disastrosa quanto più, dopo lo shock pandemico, ci si illuderà di poter “tornare alla normalità”. Attenzione però, potremmo scoprire che capitalismo e democrazia sono ormai irreversibilmente incompatibili.

Wolfgang Streeck ed Emiliano Brancaccio sono tra gli studiosi sociali che hanno offerto gli strumenti analitici più preziosi in quest’epoca incerta e minacciosa. Entrambi sono autori di due libri di recente pubblicazione, accomunati da un’ottica di lunga durata nell’analisi del capitalismo contemporaneo, ma anche da un formato accessibile che trae forza dal confronto dialettico con interlocutori più mainstream. Se in Non sarà un pranzo di gala (a cura di Giacomo Russo Spena) Brancaccio raccoglie una serie di dibattiti con Mario Monti, Romano Prodi e Olivier Blanchard insieme a saggi e interviste, in Oltre l’austerità (a cura di Giorgio Fazio) Streeck si misura invece con il connazionale Jürgen Habermas, in particolare sul tema dell’Europa.

Il dibattito Streeck-Habermas – entrambi esponenti della Scuola di Francoforte – risale al 2013, ma è una lettura tuttora illuminante per capire intorno a quali snodi si riconfigurerà il capitalismo dopo il virus, e in particolare il suo rapporto con stato e democrazia nell’Unione Europea. Nel primo saggio «La crisi nel suo contesto» Streeck, direttore emerito dell’Istituto Max Planck di Colonia, riassume alcune delle tesi fondamentali del suo capolavoro Tempo guadagnato.[2] Vale la pena di ripercorrerle a grandi linee.

Lo studioso tedesco assume la prospettiva della sociologia economica, rilevando anche attraverso dati empirici come la crisi del capitalismo abbia seguito, negli ultimi quarant’anni, un ciclo uniforme tra i paesi occidentali. In questo quadro, la Grande recessione post-2008 e il quasi collasso delle finanze pubbliche che ne è seguito sono da interpretare come un esito del «conflitto essenzialmente inconciliabile tra mercati capitalistici e politiche democratiche» (p. 20). Nella visione di Streeck la democrazia non è un mero concetto formale: si tratta di distribuire le risorse secondo un principio di equità, e quindi in maniera diversa, anzi correttiva e spesso antitetica rispetto alla razionalità formale propria del mercato. Siamo di fronte a un conflitto endemico nella storia, con l’eccezione delle trente glorieuses di capitalismo democratico successive alla Seconda guerra mondiale, su cui tuttavia siamo erroneamente abituati a parametrare le nostre analisi, come se l’equilibrio tra giustizia sociale e interesse dei mercati fosse invece la regola. Potremmo dire al contrario che la storia del neoliberismo è la storia di come il capitale è di nuovo fuoriuscito dalla regolazione sociale a cui era stato sottoposto dopo il 1945.

Alla fine degli anni Sessanta, infatti, il compromesso sociale tra profitti e lavoro inizia a vacillare su pressione della «classe di coloro che vivono di capitale» che, timorosa di veder ridimensionati i propri guadagni, si prodiga per una liberalizzazione e un’espansione dei mercati, cessando gradualmente di assumersi le proprie responsabilità ai fini della crescita, della piena occupazione e della coesione sociale. Insomma, non sono state le masse dei lavoratori a rigettare il capitalismo, com’era convinzione nei primi anni della Scuola di Francoforte: sono i capitalisti, invece, ad aver rigettato la democrazia.

Inizialmente, però, gli Stati occidentali si vedono costretti a mantenere in vita il compromesso sociale precedente, a ritardare i gravi effetti materiali del mutamento in atto per preservare la propria legittimità e guadagnare tempo prima che il fermento sociale esploda. Per farlo ricorrono in sequenza a tre strategie di politica monetaria: l’inflazione, il debito pubblico e il debito privato, che rappresentano altrettanti tentativi di disinnescare il conflitto distributivo tra profitti e salari iniettando nel sistema «risorse aggiuntive», cioè denaro ancora senza copertura nell’economia reale.

Negli anni Settanta, esaurito lo slancio del boom economico, politiche monetarie espansive consentono aumenti salariali superiori alla crescita della produttività, il che – unendosi alla crisi petrolifera del 1973 – causa indici di inflazione sempre più alti in tutto il mondo. Non appena la crescita economica comincia a stagnare, sul finire del decennio, l’inflazione diviene intollerabile e i governi intervengono con drastiche misure di stabilizzazione. È l’inizio della svolta neoliberista: politiche monetarie restrittive, alti tassi d’interesse, scontro aperto con i sindacati e alta disoccupazione come strumenti di riduzione dei salari. Ma nemmeno Thatcher e Reagan, gli esponenti politici più determinati in questa svolta, possono rompere in modo definitivo il patto fra capitalismo e democrazia, che riemerge allora nell’arena elettorale: per legittimarsi e rispondere alle aspettative degli elettori – insomma per guadagnare nuovamente tempo – gli stati cominciano a finanziarsi in deficit rivolgendosi al credito privato. Così, per tutti gli anni Ottanta cresce la disparità fra entrate e spesa pubblica, e dunque esplode il debito pubblico (anche se, ammonisce Streeck, non furono le masse ansiose di ottenere “troppi diritti” a forzare la mano, come vuole una tesi ancora sorprendentemente in voga: l’impennata dei deficit è da imputare soprattutto ai tagli alle imposte decisi per ottenere il consenso dell’upper-middle class). Contemporaneamente, si espande in maniera smisurata anche il settore finanziario, che subisce un rapido processo di liberalizzazione.

All’inizio degli anni Novanta gli Stati cominciano a preoccuparsi di questo cospicuo aumento del debito pubblico, e della sempre più onerosa spesa per gli interessi. Lo «stato debitore», come lo chiama Streeck, concentra quindi i propri sforzi sul consolidamento fiscale e sul pareggio di bilancio, ridimensionando bruscamente l’intervento pubblico nell’economia con tagli alle spese sociali e privatizzazioni. Ma come legittimare questa nuova svolta, e soprattutto come compensare il crollo della domanda derivante da scelte politiche che dilatano le disparità di reddito? La risposta è l’espansione del debito privato, facilitata da una seconda ondata di deregolamentazione finanziaria. Si tratta di ciò che Colin Crouch ha ribattezzato «keynesismo privatizzato»: per sostenere i consumi non si ricorre più all’indebitamento pubblico, ma a prestiti facili. Si tratta però di una bolla, che scoppia violentemente nel 2008 con la crisi dei mutui subprime.

Ciascuna delle tre tappe storiche individuate da Streeck segna una vittoria dei capitalisti sui salariati, e una crisi di legittimazione del sistema nel suo complesso. E oggi gli strumenti sono esauriti: ormai non è più possibile affidarsi a una crescita “drogata”, e dopo il crollo della piramide debitoria nel 2008 gli Stati sono praticamente incapaci di raccoglierne le macerie e edificare un ordine stabile. Il fatto è che mentre guadagnavano tempo, le élite neoliberiste hanno pian piano “risolto” il conflitto tra capitalismo e democrazia «immunizzando» il primo dalla seconda, in una sorta di distopia di stampo hayekiano[3]: i governi si trovano a dover rispondere più ai mercati finanziari cui sono debitori che ai parlamenti; più alle esigenze del capitale, libero di muoversi globalmente in cerca delle condizioni più favorevoli, che alle preferenze dei governati. Eppure – sottolinea Streeck – il neoliberismo necessita di uno Stato forte: l’economia capitalistica non cerca di sottrarsi al giogo degli Stati, da cui dipendono la sua sicurezza e la capacità di affermare i suoi principi, ma dal giogo della democrazia.

Gli Stati (post)democratici, trasformatisi in «agenzie di recupero crediti per conto di un’oligarchia globale degli investitori» mentre i cittadini sono ormai privati della capacità di incidere sulle scelte economiche, non sanno come affrontare le nefaste conseguenze di questo riassetto. Il dominio del capitale si sta rivelando insostenibile anche per il suo stesso funzionamento e la sua stessa legittimazione, il che si riflette non solo nella crisi fiscale e in una stagnazione che diversi autori hanno buon gioco a definire «secolare»,[4] ma anche in una crisi istituzionale e di sfiducia che rischia di far implodere l’Occidente.

L’unica possibile via d’uscita indicata da Streeck (in cui riecheggiano chiaramente le idee di Karl Polanyi) è una ridefinizione del rapporto fra politica ed economia: rifondare istituzioni statali e sovranazionali che riportino il mercato sotto il controllo della società. Soprattutto in Europa, dove la de-democratizzazione dell’economia politica è una realtà particolarmente grave e avanzata a causa della moneta unica, definita «uno spietato programma di convergenza che mira a costringere le parti del nostro continente che ancora non sono state razionalizzate secondo il mercato […] a incamminarsi, pena un progressivo impoverimento, sulla strada delle cosiddette riforme strutturali» (p. 70). Nel frattempo, per chi abbia a cuore la giustizia sociale non resta che un’opera di resistenza per… guadagnare tempo, nell’attesa (probabilmente vana) di un nuovo processo di democratizzazione: convertire «le rovine della socialdemocrazia nazionale del dopoguerra […] in barricate» contro la politica di ristrutturazione sociale neoliberista (p. 91) dall’interno dello Stato-nazione, perché soltanto quest’ultimo mette ancora a disposizione qualche residuo di istituzioni democratiche a cui aggrapparsi. Una posizione pessimistica che offre appigli a molti di coloro che auspicano l’abbandono dell’euro e il ritorno alle monete nazionali, anche se Streeck, al contrario dei cosiddetti “sovranisti”, parte da presupposti dichiaratamente europeisti. Il sistema euro è di fatto antieuropeista perché esacerba i conflitti tra paesi, e un’Europa politica dovrebbe basarsi invece sulla cooperazione orizzontale tra i paesi anziché su una direzione verticale.

È su questa visione – peraltro molto affine agli ultimi scritti di Luciano Gallino[5] – che insiste la critica di Jürgen Habermas. Nel guardare alle vicende dell’Unione monetaria (e alle scelte della Germania) egli è solo poco meno severo del connazionale, di cui apprezza ampiamente la ricostruzione genealogica del conflitto capitalismo-democrazia. Tuttavia, Streeck viene accusato di feticizzare le identità nazionali e locali e di insistere troppo sulle differenze inconciliabili tra paesi europei: la strada per il ritorno alla democrazia e per contrastare la crisi economica e politica in atto non può passare da un ripiegamento nello Stato-nazione, che ha dimostrato la propria inconsistenza nei confronti del capitale globalizzato. L’unica via è la democratizzazione dell’Unione Europea, una via tortuosa – riconosce Habermas –, disseminata di ostacoli che però non devono essere considerati inamovibili. Lo stesso Stato-nazione democratico, dopotutto, è stato il risultato di una costruzione sociale e culturale estremamente laboriosa. Solo un deciso impulso politico verso la solidarietà collettiva consentirà di uscire dallo stallo, così come, più in generale, una «costituzionalizzazione del diritto internazionale» di matrice kantiana resta l’unica possibile risposta democratica alla globalizzazione finanziaria.

Nel rimproverare a Streeck un pessimismo inconcludente e troppo “nostalgico”, Habermas argomenta che la «creatività giuridica» capace di dare slancio all’unificazione continentale fino almeno agli anni Novanta potrà ancora creare strumenti tali da democratizzare le istituzioni europee già esistenti, emancipandole dalla tendenza a un «federalismo esecutivo rispondente ai mercati». In concreto, sono due i principi su cui imperniare una riforma in tal senso: «un quadro politico strategico comune, con relativi finanziamenti e reciproche garanzie degli Stati membri»; e, in contrasto con il metodo intergovernativo, la legittimazione democratica degli organismi europei tramite «una partecipazione paritaria di Parlamento e Consiglio europeo nell’ufficio legislativo e un’eguale responsabilità della Commissione a fronte di queste due istituzioni» (p. 61). L’obiettivo è che la volontà politica dell’Unione non derivi più (solo) da pesanti compromessi tra i rappresentanti di singole nazioni in competizione l’una con l’altra, ma da un processo parlamentare che esprima una voce collettiva di tutti i cittadini europei seguendo la formazione di maggioranze di deputati eletti.

Di fronte alle critiche di Habermas, Streeck ribadisce che il motivo del suo scetticismo non è l’opposizione all’astratta possibilità e auspicabilità di una democrazia europea, quanto invece all’illusione di poter erigere un simile p
rogetto universalistico sulle attuali fondamenta dell’Unione Europea, così univocamente e saldamente orientate alla «giustizia del mercato» anziché alla «giustizia sociale»:

«Anche il più democratico Stato sovranazionale sarebbe inutile se i rapporti tra le sue istituzioni e i mercati, quelli finanziari e del lavoro in particolare, tra politica ed economia, tra democrazia e capitalismo, rimanessero quelli che sono diventati negli ultimi decenni. […] Una “democrazia europea” con tanto di parlamento, governo, opinione pubblica e quant’altro, non sarebbe che un ulteriore momento di paralisi post-democratica» (p. 86).

All’idealismo europeista di Habermas, insomma, Streeck risponde ribadendo che il principio guida del sistema euro è la neutralizzazione della democrazia come risoluzione del suo atavico conflitto con il capitalismo. E anche noi potremmo sposare la conclusione secondo cui l’Unione monetaria è di fatto un progetto antieuropeista: come si può pensare di promuovere la pace e la cooperazione con un’architettura giuridica e istituzionale che riduce gli spazi democratici al fine garantire alla logica del mercato un più ampio margine di manovra?

D’altra parte, però, Habermas coglie nel segno quando nota che al momento della pars construens il connazionale resta impigliato in un’insanabile contraddizione con le sue stesse premesse: non è proprio Streeck ad affermare che «con la continua crescita dell’interdipendenza mondiale, sono finiti i tempi in cui era ancora possibile far finta che le tensioni fra economia e società, e in effetti tra capitalismo e democrazia, potessero essere gestiti all’interno delle comunità politiche nazionali» (p. 45)?

Se volessimo approfondire la radice delle divergenze fra Streeck e Habermas, potremmo notare come entrambi riconoscano nella democrazia il valore più alto, ma se il primo ne ha una concezione di natura più sostanziale, incentrata sulla responsabilità politica e sulla redistribuzione delle risorse, Habermas ne ha una visione soprattutto procedurale, come variabile indipendente dall’economia politica. E potremmo anche individuare una linea di frattura fra la visione realista e materialista di Streeck e quella più idealista e liberale di Habermas. Ma si tratta di un esercizio sterile: già da tempo, in Italia soprattutto, la discussione su come restituire alla politica democratica un maggior controllo si è ridotta a un dualismo più/meno Europa che toglie voce alle istanze del lavoro e a ogni riflessione più generale sulle contraddizioni del capitalismo, che pure sono esplose in tutta la loro drammaticità.

Troviamo una via d’uscita da quest’impasse nel nuovo libro di Emiliano Brancaccio Non sarà un pranzo di gala (): un inno al pensiero critico, al rigore scientifico e alla passione civile di colui che possiamo definire il più noto e autorevole economista eterodosso italiano. Brancaccio si sofferma spesso sul rapporto fra democrazia e capitalismo (con accenti in gran parte sovrapponibili a Streeck), individuando il punto di rottura nella libertà di circolazione internazionale dei capitali, che oggi «possono indiscriminatamente scorrazzare nel mondo alla continua ricerca di bassi salari, infime tasse sui profitti e risibili tutele del lavoro». Si tratta forse del più potente moltiplicatore di disuguaglianza, instabilità macroeconomica e caos nelle relazioni internazionali di questo mondo globalizzato. Ebbene, per Brancaccio limitarla dovrebbe essere al primo posto nell’agenda di ogni movimento che abbia a cuore lavoro e democrazia: «La lotta per il ripristino dei controlli sui movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, è una proposta illuminata, più rilevante della mera scelta tra una moneta unica e più monete nazionali» (p. 66). Non solo:

«Potremmo dire che la libertà finanziaria dei proprietari del capitale soffoca tutte le altre libertà, tutti gli altri diritti. Ma allora, se questo è vero, si pone inevitabilmente l’esigenza politica di reprimere le libertà del capitale sul mercato finanziario. La repressione delle libertà del capitale può essere cioè intesa come il primo tassello di una moderna politica di piano finalizzata allo sviluppo di tutti gli altri diritti: civili, politici e sociali» (pp. 68-69).

La questione è nota da tempo. Già negli anni Novanta Noam Chomsky denunciava «il senato virtuale» della finanza globale, che tiene sotto scacco i governi minacciandoli più o meno implicitamente di spostare ingentissime quantità di denaro fuori dai rispettivi paesi in caso di scelte politiche sgradite. E più di ogni altra spiegazione vale una celebre “vignetta dell’ombrello” di Altan: «“Tolga quell’affare da lì!” “Impossibile: provocherei la sfiducia degli investitori internazionali”». Ma la sinistra, in Italia ancor più di altrove, sembra allergica all’argomento (che pure è il convitato di pietra di ogni discussione su riforme fiscali, patrimoniali e affini). Forse “chi tocca certi fili muore”? Sembra pensarla così Brancaccio, quando nel dibattito con Romano Prodi riportato nel libro accoglie soddisfatto la dichiarazione del suo interlocutore in favore della limitazione della libertà di movimento dei capitali, facendogli notare al contempo, con sottile ironia, che mai da presidente del Consiglio o della Commissione Europea si era concesso simili prese di posizione.

Oggi però è venuto il momento del coraggio, di porre il problema con determinazione. Perché siamo sull’orlo di una catastrofe.

Al quadro che abbiamo tracciato con Streeck, Brancaccio aggiunge infatti un elemento decisivo, una «legge di tendenza e riproduzione del capitale» che apre spazi di riflessione (e ricerca) davvero sconfinati. La tendenza è duplice: il capitale tende a crescere a un tasso maggiore rispetto al reddito,[6] «ma tende anche, e soprattutto, a centralizzarsi in meno mani» (p. 192). Tesi marxiana tra le meno frequentate persino dai marxisti, la centralizzazione dei capitali trova oggi un evidente riscontro empirico in moltissimi studi quantitativi, dai quali si evince che negli ultimi anni il potere economico risulta persino più concentrato rispetto all’età feudale (anche se, va detto, ci sono numerose varianti nazionali o regionali).

L’eterna lotta tra i capitali per la conquista dei mercati tende a provocare il fallimento dei più deboli, alle prese con mercati nazionali asfittici, debiti e problemi di liquidità, oppure la loro acquisizione da parte dei più forti. Inevitabili ripercussioni: la polarizzazione sociale, l’erosione del ceto medio, le tensioni geopolitiche. Il processo, già accelerato dalla competizione globale che premia le corporation maggiormente strutturate e ramificate e in Europa dalla divergenza tra centro e periferia favorita dal sistema euro (ma anche dal mercato unico), si dispiega in maniera vertiginosamente più rapida nei momenti di crisi. E mai nella stori
a del capitalismo, osserva Brancaccio, si è verificato un tracollo economico più repentino e generalizzato di quello causato dalla pandemia di Covid-19. Siamo di fronte a una crisi capace di abbattere contemporaneamente sia la spesa per consumi e investimenti, sia la produzione, che rende impensabile un ritorno allo status quo ante; una crisi che sta dando alla centralizzazione del capitale una spinta vigorosa, visibile a occhio nudo (persino dai quotidiani italiani).

È chiaro che una concentrazione di tipo “feudale” del potere economico rischia di tradursi in una straordinaria concentrazione di potere politico, in una minaccia di portata epocale alla democrazia e ai diritti:

«La tendenza alla crescita del capitale rispetto al reddito e alla centralizzazione del suo controllo in sempre meno mani non sembra compatibile con il mantenimento futuro della democrazia, della libertà, al limite della pace, almeno così come oggi le intendiamo. […] La libera razionalità individuale dei singoli agenti del capitale guida ciecamente verso una catastrofica e illiberale irrazionalità di sistema» (pp. 201-202).

Ecco dunque il bivio storico: catastrofe o rivoluzione (che è anche il titolo del corposo saggio conclusivo). Proseguendo di questo passo, andiamo incontro a un disastroso futuro segnato da disuguaglianze ancor più marcate, autoritarismo e potenzialmente anche di conflitti bellici.

Queste conclusioni di Brancaccio potrebbero anche suonare azzardate, sennonché l’intero libro sembra teso a dimostrare che alle sue previsioni dovremmo fare grande attenzione. Gli scritti raccolti in Non sarà un pranzo di gala si snodano tra il 2007 e il 2020, e proprio questa diversa collocazione nel tempo restituisce il senso di un lavoro intellettuale rimasto straordinariamente lucido e coerente, se non profetico, per tutti questi anni tempestosi. Nel luglio 2007 Brancaccio prevedeva una crisi capitalistica che avrebbe avuto conseguenze anche e soprattutto in Europa – dove l’Unione monetaria stava già mettendo sotto pressione occupazione e salari – e addirittura l’avvento di un governo deflazionista guidato da Mario Monti. Di previsione azzeccata in previsione azzeccata (al lettore il piacere di scoprirle tutte), l’autore ci accompagna fino al ciglio del burrone, davanti alla catastrofe in corso. Non senza indicare l’alternativa: la rivoluzione, perché «più vicina è la catastrofe, più vicina è l’occasione di una svolta» (p. 208).

Qui Brancaccio riprende nientemeno che Olivier Blanchard, ex capo economista del FMI con cui si è confrontato in molti dibattiti, il più noto dei quali, riportato nel libro e prima ancora nel n. 2/2019 di MicroMega, si è svolto alla Fondazione Feltrinelli nell’ottobre 2018. Ma se in quell’occasione – dunque ben prima del coronavirus – Blanchard auspicava una rivoluzione keynesiana della politica economica per scongiurare una catastrofe sociale, per Brancaccio oggi Keynes non è più sufficiente. Il keynesismo non può arginare la tendenza alla centralizzazione del capitale, tanto meno dopo una pandemia globale così devastante per l’economia. Anzi, attualmente riemerge come strumento politico per l’autodifesa dei piccoli proprietari dall’avanzata dei grandi capitali, e assume tinte xenofobe e nazionaliste. La (falsa) alternativa alla concentrazione del capitale può prendere e sta già prendendo le forme della reazione e del nazionalismo, contribuendo a zittire il punto di vista del lavoro e a inasprire il rischio della catastrofe: «Il conflitto principale sarà interno alla classe capitalista: i capitali più forti punteranno a liquidare o ad assorbire quelli più deboli […] e i capitali deboli reagiranno, ancor più esasperatamente, con tentativi di “de-globalizzazione” e “sovranismo”» (p. 79).

L’alternativa rivoluzionaria per scongiurare la catastrofe si basa secondo Brancaccio su un concetto tanto vituperato quanto moderno, ossia la pianificazione. Forse è davvero giunto il momento di rigettare l’equazione tra piano e autoritarismo, e così anche l’equazione tra capitalismo e libertà. Gli orrori dell’esperienza sovietica non possono impedirci di immaginare e realizzare un altro tipo di pianificazione. Per Brancaccio, si tratta di reprimere la libertà finanziaria al fine di tutelare e coltivare tutte le altre libertà; significa ri-organizzare secondo criteri di giustizia ed efficienza la «disorganizzazione dei mercati». Con i suoi cicli di euforia e depressione e i suoi intrinseci impulsi speculativi il capitale, specie se concentrato in poche mani, tende infatti a moltiplicare gli sprechi, al sottoutilizzo dei mezzi di produzione, a indirizzare lo sviluppo tecnico-scientifico in direzioni indifferenti alle esigenze collettive (come dimostra la crisi climatica, altro tassello della catastrofe). Di qui la «modernità della pianificazione collettiva», intorno a cui dovrebbero riunirsi «tutta la creatività del collettivo e tutta la forza fisica e intellettuale della militanza»:

«la libera espressione dell’individualità si manifesta […] solo nella repressione della libertà finanziaria del capitale e nel comunismo pianificatore della tecnica. […]. Piano è libertà, lo si chiami libercomunismo, in senso non liberale ma addirittura libertino, o gli si trovi un nome meno capace di “épater le bourgeois”. Quel che conta è indicare la via per l’unica rivoluzione capace, in prospettiva, di scongiurare la catastrofe» (p. 211).

Un po’ sorprendentemente, nel corposo saggio conclusivo Brancaccio non fa alcun cenno alla questione europea, che invece permea le sue ricerche e attività divulgative ormai da molti anni a questa parte. Una scelta che pare dettata dall’esigenza di rimarcare le linee di tendenza più generali del capitalismo contemporaneo contro ogni riduzionismo. E per distanziarsi almeno un po’ da un dibattito ormai avvitato su se stesso, come abbiamo detto a proposito della disputa Habermas-Streeck.

L’incertezza economica e l’angoscia della catastrofe sollevano però un interrogativo: in quale spazio democratico e ambito politico-istituzionale possiamo immaginare di applicare – specialmente in Europa – la pianificazione collettiva invocata da Brancaccio? Possiamo sperare che il tanto atteso Recovery Fund offra un’occasione in tal senso?


SOSTIENI MICROMEGA

L’informazione e gli approfondimenti di MicroMega sono possibili solo grazie all’aiuto dei nostri lettori. Se vuoi sostenere il nostro lavoro, puoi:
abbonarti alla rivista cartacea

– acquistarla in versione digitale:
| iPad
Nell’introduzione a Oltre l’austerità, il curatore Giorgio Fazio sostiene che proprio le azioni intraprese a livello europeo per reagire alla crisi pandemica potrebbero dar ragione alla critica di Habermas nei confronti di uno Streeck troppo convinto della natura inesorabilmente neoliberista del progetto europeo. Ma a ben vedere potremmo persino sostenere il contrario: in un’epoca in cui si rendono necessari strumenti eccezionali e di rapida applicazione, nonostante gli sforzi della BCE molti paesi europei sono ancora privi persino di alcuni strumenti convenzionali, mentre si aggravano le divergenze tra i paesi. Come Brancaccio ha osservato in un intervento radiofonico, il Next Generation EU o Recovery Fund è ancora parzialmente avvolto nel mistero e comunque insufficiente a contrastare il tracollo. Il frutto di un ennesimo, caotico e ambiguo negoziato europeo (che a tutt’oggi non sembra essersi chiuso), con i suoi vincoli di cui troppo poco si parla – forse perché distratti dalla polemica sul MES – renderà ancora più difficile una revisione dell’impianto deflazionistico e di neutralizzazione della democrazia sancito dai trattati e dalle prassi intergovernative degli ultimi anni. Quando invece – ci insegnano Streeck e Brancaccio – è la libertà del capitale che dovremmo urgentemente neutralizzare.
NOTE

[1] «La scienza economica e la libertà di forgiare il nostro destino sociale», in Per un nuovo Occidente, a cura di Giorgio Resta e Mariavittoria Catanzariti, il Saggiatore, Milano 2013, p. 63.

[2] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.

[3] Streeck osserva a più riprese come Friedrich von Hayek, nei suoi ultimi anni, si sia schierato di fatto a favore dell’abolizione della democrazia in difesa della libertà economica e civile.

[4] Si vedano i saggi di Larry Summers, Robert J. Gordon, Paul Krugman e Giulio Sapelli in F. Meneghini (a cura di), La stagnazione secolare. Ipotesi a confronto. Crisi economica, sviluppo tecnologico, classi medie, goWare, Firenze 2018.

[5] Si veda Luciano Gallino, Come (e perché) uscire dall’euro ma non dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2016.

[6] Qui Brancaccio fa riferimento alla tesi della «disuguaglianza fondamentale» nel XXI secolo di Thomas Piketty, che pure critica aspramente per altri versi.
(7 dicembre 2020)




MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.