Cavalli Sforza: La selezione naturale e il caso (la democrazia della natura)

Luca

Ricordiamo Luca Cavalli Sforza, il grande genetista scomparso ieri all’età di 96 anni, riproponendo un suo saggio in cui spiega come nella teoria dell’evoluzione il caso la faccia da padrone, garantendo a ciascun essere vivente le stesse probabilità di progredire: una democrazia universale della natura che non ha bisogno di Dio.

e Francesco Cavalli Sforza, da MicroMega Almanacco di Scienze (2009)
A 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle specie per selezione naturale, la teoria dell’evoluzione continua ad essere fra i temi più controversi della modernità. Non per gli scienziati, per la verità, che continuano ad arricchirla di nuove osservazioni, è la nostra stessa comprensione dei processi evolutivi. Al di fuori del mondo scientifico non si è mai sopita invece la discussione sul merito della teoria, a testimonianza dell’impatto che la rivoluzione intellettuale promossa dal grande naturalista continua ad avere sulla nostra visione del mondo. Copernico e Galileo avevano assestato un colpo mortale all’antica convinzione che faceva del nostro pianeta (e quindi di noi stessi) il centro del mondo. In termini collettivi, c’erano voluti due o trecento anni per assorbire il colpo. Darwin e Wallace hanno scalzato quanto restava dell’antico antropocentrismo: la convinzione che la specie umana occupi la posizione centrale nel mondo della vita e che la natura sia organizzata a priori, con un preciso ordine e finalità (al cui vertice troneggerebbe, beninteso, l’Uomo).
La selezione naturale è il cuore della teoria di Darwin: non è un concetto di evidenza immediata, ed è stato frainteso, manipolato e contraffatto, in più modi di quanti valga la pena di citare, da chi ha voluto vedervi un meccanicismo deterministico che nega la libertà umana a chi se ne è fatto una bandiera per imporre e giustificare la superiorità del più forte. Il tempo ha fatto giustizia di queste mistificazioni, eppure non si può dire che la conoscenza dei meccanismi evolutivi sia diventata parte del bagaglio culturale di un adulto mediamente informato. L’evoluzione fa ancora paura: lo dimostra il tentativo di pochi anni fa di espellerla dall’insegnamento nella scuola dell’obbligo.

Motivo di più per capire in che cosa consiste, visto che è la chiave migliore di cui disponiamo per comprendere lo sviluppo della vita. A partire, per l’appunto, da quel concetto di selezione naturale che ha agito come un grimaldello per aprire le porte a questa comprensione.

Darwin aveva letto Malthus, ed era rimasto colpito dall’osservazione che il numero di figli generati dagli esseri viventi è praticamente sempre superiore alle risorse necessarie per permettere a tutti di vivere. È un fenomeno universale: in animali come le rane, su milioni di uova fecondate solo una minima parte di individui riescono a raggiungere l’età adulta e a riprodursi, ma anche nell’uomo, ai tempi in cui Darwin nacque come in tutta la storia precedente della nostra specie, su 5 o 6 bambini nati non più di due riuscivano a diventare adulti. Li uccidevano malattie, incidenti o la fame, e le stragi compiute dalle periodiche carestie erano nella memoria di ciascuno.
In generale e in ogni specie, non vi è posto per tutti quelli che nascono. Fra quanti diventano adulti, poi, non tutti riescono a riprodursi, e alcuni hanno più figli, altri meno. È evidente che vi sono caratteri che si trasmettono dai genitori ai figli, e va da sé che chi ha più figli trasmetterà i suoi caratteri ereditari a un maggior numero di persone. Se anche i figli tendono ad avere a loro volta parecchi figli, e se lo stesso vale per i nipoti, nel corso del tempo i caratteri trasmessi dall’antenato si diffonderanno nella popolazione.
Di fatto, in ogni popolazione i singoli individui hanno fecondità e mortalità diverse, per cui la composizione della popolazione cambia ad ogni generazione. Se vi sono caratteristiche ereditabili che favoriscono la capacità di sopravvivere e/o quella di generare figli, queste tenderanno a diffondersi nel corso delle generazioni. Se l’organismo di un individuo è più attrezzato, poniamo, per resistere a una malattia che imperversa nel suo ambiente di vita, è chiaro che avrà migliori possibilità di vivere e riprodursi rispetto a chi soccombe a questa malattia, e se questa sua caratteristica è trasmissibile ai figli il numero degli individui attrezzati per resistere alla malattia aumenterà nel corso del tempo, e viceversa il tipo che si ammala diminuirà. Alla fine, la popolazione potrà risultare composta solo di individui resistenti.
È come se la natura automaticamente filtrasse, ad ogni generazione, tutti gli individui che nascono, e alcuni passassero più facilmente di altri attraverso il setaccio. Ma il vantaggio che permette loro di vivere e riprodursi meglio di altri vale per l’ambiente in cui nascono e crescono, non necessariamente altrove. La capacità del mio organismo di resistere a una certa malattia infettiva non mi porterà alcun beneficio in un ambiente dove l’agente infettivo è assente, anzi potrebbe essere uno svantaggio. È l’ambiente a decidere quali individui vivranno e quali no, e poiché i tipi che incontrano maggiori difficoltà tendono a sparire, di generazione in generazione in ogni specie rimangono i tipi «più adatti» all’ambiente di vita (sono i «più adatti» per definizione, appunto perché sono riusciti a crescere e riprodursi). Ma l’ambiente cambia di continuo, per cui cambiano di continuo i criteri, per così dire, con cui questa selezione viene esercitata, e di conseguenza cambiano le specie, nel corso del tempo.

Questa è l’evoluzione per selezione naturale: la trasformazione automatica e inevitabile di qualunque specie nel corso del tempo, che le porta tutte a differenziarsi progressivamente in ambienti diversi, per via della maggiore sopravvivenza e fecondità dei tipi adatti a quello specifico ambiente. I milioni di specie che si sono insediate negli innumerevoli ambienti abitati dalla vita sono divenute via via diverse le une dalle altre e tendenzialmente più complesse, o almeno più efficienti, perché nel corso dell’evoluzione tendono sempre ad affermarsi gli individui meglio attrezzati per interagire con tutto ciò che hanno intorno.

Al tempo di Darwin non si aveva la minima idea di come i caratteri dei genitori passassero ai figli, ma gli allevatori avevano praticato da sempre – e in modo sistematico nei secoli immediatamente precedenti – incroci mirati fra i loro animali, per ottenerne discendenze con caratteristiche utili e desiderabili: cavalli da tiro, da corsa, da caccia, da guerra, per esempio. Era una selezione artificiale che aveva portato alla creazione di razze diverse di bovi, cavalli, maiali, cani, gatti e che ispirò a Darwin l’idea di una selezione effettuata direttamente dall’ambiente naturale.

Solo negli anni successivi alla pubblicazione dell’Origine delle specie un monaco boemo, Gregor Mendel, in sette anni di esperimenti semplici e geniali, quanto pazienti, avrebbe scoperto le leggi che governano l’eredità negli organismi viventi. Come accade a chi è troppo in anticipo sui suoi tempi, la sua opera fu ignorata a lungo. Una volta riscoperta, nel 1900, ne sarebbe nata la scienza dell’ereditarietà, la genetica, che nel corso del XX secolo sarebbe divenuta l’asse della biologia.

Nel frattempo, la teoria di Darwin aveva scosso dalle fondamenta non solo il mondo scientifico, ma anche convinzioni assai diffuse e radicate fin dall’antichità. Se gli esseri viventi erano prosperati differenziandosi in miriadi di specie diverse, voleva dire che tutte queste specie avevano antenati comuni: l’Ottocento, in effetti, era stato punteggiato di ritrovamenti di fossili di animali e piante estremamente antichi, ma chiaramente imparentati con i loro discendenti moderni. I primi zoo cominciavano ad offrire agli abitanti delle metropoli europee la visione di animali come scimpanzè, gorilla, oranghi, così affini agli esseri umani da rendere quasi evidente agli occhi un legame di parentela. Questo era in aperta contraddizione con quanto affermava la Bibbia: che tutte le specie viventi erano state create insieme, vicino al principio del tempo, e che all’uomo era stata assegnata una dignità speciale. L’idea di essere cugini, benché lontani, di scimpanzè e macachi suscitava il disgusto dei benpensanti. Altri si fecero un’ideologia della lotta per la sopravvivenza, sostenendo il diritto «intrinseco» del più forte di vivere alle spalle del più debole.
Ma la teoria di Darwin non ha mai avuto nulla a che vedere con tutto questo. La selezione naturale è un semplice fenomeno demografico: si descrive in termini di nascite, unioni riproduttive, morti. Si misura sulla fecondità e mortalità differenziale degli individui di una qualsiasi popolazione, che si tratti di patate o di batteri, di faggi o di mosche. Può bastare un minuscolo vantaggio per fare una grande differenza, magari un piccolo cambiamento, come la produzione di un certo enzima che permette di accedere a una nuova fonte di cibo. Se il tipo cambiato si riproduce dell’1 per cento in più rispetto alla media della popolazione, dopo 100 generazioni potrebbe avere rimpiazzato tutti gli altri tipi. Cosa sono 100 generazioni? Per certi batteri, un paio di giorni; per i fringuelli, basta un secolo; per gli uomini, 30 mila anni.

Piccoli cambiamenti si accumulano nel corso delle generazioni. Due popolazioni di una stessa specie che vivono in completo isolamento reciproco (ad esempio perché sono stanziate su isole o continenti diversi) diverranno specie diverse su un lungo arco di tempo. Ogni specie ha un’evoluzione diversa e particolare e si differenzia progressivamente dalle altre, in funzione delle caratteristiche dell’ambiente che abita.

La ricerca del XX secolo ha portato alla comprensione del materiale ereditario: si è visto che i tratti caratteristici che passano da una generazione all’altra, quelli che Mendel chiamava «elementi» e oggi chiamiamo «geni», sono prodotti a partire da un’unica lunghissima molecola di acido desossiribonucleico (dna) presente nel nucleo di ogni cellula di ogni organismo vivente. L’analisi del genoma (cioè del patrimonio ereditario, del dna) di una grande varietà di esseri viventi ha fornito la prova più inconfutabile della teoria di Darwin: tutti derivano da antenati comuni, attraverso un lungo processo di differenziazione, di cui stiamo diventando in grado non solo di ripercorrere, ma di datare le tappe.
Vi sono geni comuni agli uomini come ai batteri, cui la selezione naturale ha dato una forma così perfetta da non essere più cambiati, o pochissimo, anche da un miliardo di anni a questa parte. Tutta la vita è un fenomeno solo, che ha assunto decine e centinaia di milioni di forme diverse, di cui ben oltre il 99 per cento è scomparsa col tempo. Non incontreremo mai Luca (Last Universal Common Ancestor, o ultimo antenato comune a tutti: in pratica, il primo essere vivente), sia perché è scomparso senza lasciare altra traccia che il dna dei suoi discendenti, sia perché era certamente ultramicroscopico. Ma questo non ci impedisce di avanzare nella ricostruzione del passato e del presente della vita.

Darwin non poteva aver modo di capire quale fosse la causa delle innovazioni biologiche, quei tratti originali che a volte compaiono nella nuova generazione di una specie, creando differenze fra gli individui e rendendo possibile l’evoluzione, quando presentano un qualche vantaggio. Oggi sappiamo che la fonte di ogni novità nel mondo vivente è la mutazione, un cambiamento di solito minuscolo, che modifica l’ordine in cui sono disposti i componenti che formano la doppia spirale della molecola di dna (i nucleotidi). La mutazione è in pratica un errore di copia: dal momento in cui compare la prima cellula di un nuovo individuo, il dna viene copiato un numero enorme di volte (ogni volta che una cellula si divide). Benché esistano precisi meccanismi di controllo (è necessario: un genoma umano consta di oltre 3 miliardi di nucleotidi), qualche errore rimane a ogni generazione: la maggior parte di questi è irrilevante; alcuni portano problemi o malattie, o addirittura impediscono la vita; altri rarissimi portano un vantaggio e possono diffondersi con le generazioni. Per quanto ne sappiamo, sono del tutto casuali. La frequenza con cui si verificano può variare in condizioni particolari, ed è diversa in diversi punti del genoma, ma non vi è modo alcuno di prevederle.

La scoperta che il dna è la sostanza responsabile dell’eredità biologica è del 1944. La sua struttura chimica viene descritta nel 1953. Negli stessi anni nasce la biologia molecolare, poi la genetica molecolare. Nel dopoguerra diventa possibile descrivere la struttura delle proteine, negli anni Ottanta leggere l’ordine dei nucleotidi nel dna, fino al sequenziamento dell’intero genoma umano al principio del nostro secolo. Già dagli anni Cinquanta, l’analisi chimica delle proteine e più avanti del dna, accoppiata alla statistica e all’informatica, permette di cominciare a misurare le differenze genetiche fra gli individui di una stessa popolazione e di diverse popolazioni. Per gli esseri umani la ricerca gode del vantaggio di potersi in qualche misura estendere al passato, grazie alle testimonianze di varia natura lasciate dalla nostra specie, dai fossili agli archivi storici.
Le nuove scoperte confermano ed estendono quanto Darwin aveva intuito dalla semplice osservazione della natura e Mendel aveva scoperto con l’esperimento, ma rivelano anche ciò che loro non potevano vedere. Si scopre che buona parte del patrimonio ereditario è all’apparenza del tutto inutile, forse materiale biologico abbandonato nel corso dell’evoluzione, un avanzo di cui gli organismi non sono riusciti a liberarsi, o parassiti innocui che si fanno trasmettere senza nulla dare in cambio. Si scopre che solo una piccola parte delle mutazioni hanno un valore adattativo, per cui sono promosse dalla selezione naturale (o bocciate nel caso contrario): la maggior parte è neutra, non ha alcun effetto quantificabile su sopravvivenza ed evoluzione, per cui il loro destino è soggetto alla semplice azione del caso. Per fare un semplice esempio: il colore dei capelli o degli occhi non ha un effetto fondamentale su sopravvivenza ed evoluzione, come ne hanno invece mutazioni genetiche che permettano di sviluppare una vista acuta, poniamo, o che al contrario la indeboliscano. Il colore dei capelli o degli occhi non è del tutto privo di valore selettivo, perché può essere soggetto a selezione sessuale: sappiamo che in diverse condizioni e presso popoli diversi certe colorazioni – occhi azzurri o verdi, magari, capelli biondi o rossi – sono particolarmente apprezzate, il che può essere di vantaggio ai loro portatori, ma questo non significa che occhi e capelli castani o neri rappresentino un vero vantaggio o svantaggio a livello selettivo nella vita reale.
È facile rendersi conto delle implicazioni di questo fenomeno se riflettiamo sul modo in cui l’uomo moderno – l’unica specie umana rimasta sul pianeta – si dev’essere diffuso al mondo intero, a partire da una piccola tribù di poche centinaia o migliaia di persone che intorno a centomila anni fa viveva in Africa orientale. Il nucleo originario è aumentato di numero e alcuni gruppi se ne sono staccati per colonizzare nuove zone. Anche i nuovi insediamenti hanno avuto un buon successo riproduttivo e sono cresciuti, fino a che non se ne sono staccati altri gruppi per esplorare zone nuove. Il processo è proseguito per circa 50 mila anni, fino a quando, verso i 10 mila anni fa, l’espansione ha raggiunto tutti i continenti (tranne l’Antartide). Il numero dei colonizzatori nel frattempo era salito, da qualche migliaio a qualche milione di individui. Nei 10 mila anni successivi, grazie all’invenzione di agricoltura e allevamento, sarebbe passato a qualche miliardo.
Ciascuna delle 5-6 mila popolazioni che abitano oggi il mondo ha però avuto origine da un numero ristretto di fondatori, la cui varietà genetica era per forza di cose limitata rispetto alla varietà genetica del gruppo più ampio che si erano lasciati alle spalle. Fra i loro discendenti – e le dimensioni di una tribù possono passare da qualche migliaio a qualche milione nel corso dei secoli – sono rimasti solo i geni trasmessi dai progenitori, a parte le novità occasionali introdotte dalla mutazione e a parte quelle portate dagli immigranti. Fino a pochi secoli fa la maggior parte delle popolazioni del mondo è vissuta in isolamento dalle altre, con scarsi scambi migratori. Per un fenomeno che è facile verificare statisticamente, in una comunità sostanzialmente chiusa le caratteristiche genetiche tendono a divenire uniformi nel corso del tempo, per ragioni del tutto casuali, per cui questa comunità si differenzia progressivamente da quelle vicine, se non vi è flusso di individui e di scambi matrimoniali fra loro. Tecnicamente, questo fenomeno è conosciuto come drift, o deriva genetica casuale, e si è rivelato essere un altro importante fattore evolutivo, come del resto lo è la migrazione, accanto a mutazione e selezione naturale.

Curiosamente, ci si rende conto che la grande diversità di adattamenti che colpì Darwin nella sua visita alle isole Galapagos, e che contribuì a dare forma alla teoria della selezione naturale, si spiega meglio tenendo conto anche dell’incidenza del drift.

Le misure più recenti dell’incidenza reciproca di drift e selezione naturale assegnano, per le popolazioni umane, l’80 per cento al drift e al massimo 20 per cento alla selezione, secondo misure pubblicate di recente in collaborazione da due laboratori di genetica umana di Stanford. All’interno di ogni singola popolazione umana, e in diretto rapporto con il maggiore o minore grado di isolamento in cui ciascuna è vissuta rispetto alle altre, la variazione è stata largamente determinata dal drift: si è quindi sviluppata su base casuale.
Questo non è sorprendente, perché siamo una specie molto giovane, che è appena comparsa sul palcoscenico della vita. L’umanità odierna è in sostanza un’unica popolazione, su cui la selezione naturale non ha avuto il tempo di agire a sufficienza da differenziare razze o sottospecie diverse. Le differenze fra noi sono assai modeste, e sono dovute in preponderanza alla semplice azione del caso.
Queste recenti scoperte hanno grandemente arricchito la teoria dell’evoluzione. Nel 1968, un teorema di Motoo Kimura dimostra che, con qualche precisazione supplementare, il tasso di evoluzione molecolare non è molto diverso dal tasso di mutazione. La selezione naturale rimane il filtro fondamentale che ogni novità deve superare, ma il caso ha fatto irruzione sulla scena. La mutazione è casuale, la deriva genetica è casuale, ed è casuale anche un altro fondamentale fattore evolutivo, la ricombinazione, un fenomeno per cui il genoma paterno e materno si scambiano dei pezzi, prima di dare origine alle cellule riproduttive, da cui potrà nascere un nuovo individuo.

Il caso genera effetti del tutto improbabili. È nella sua natura – viene da dire – tirare scherzi. Così si arriva in effetti a noi stessi, alla nostra specie come ad ogni altra specie vivente e vissuta.

L’improvvisa irruzione del caso sulla scena della vita ha creato un disagio anche superiore all’idea di essere parenti stretti delle scimmie. Ma bisogna capire due cose importanti. Prima di tutto, cosa si intende per «caso»: la somma di una quantità di eventi troppo numerosi o troppo poco visibili per potere essere descritti singolarmente, come quando lanciamo in aria una moneta senza sapere se uscirà testa o croce. Poi, bisogna rendersi conto dell’estremo rigore del caso sui grandi numeri: se tiro una moneta dieci volte, potrò anche avere 10 teste o 10 croci; ma se la tiro 100 mila volte, il risultato sarà comunque molto vicino al 50 per cento di teste e 50 per cento di croci, senza che mai si possa predire il risultato del singolo lancio.
A ben vedere, la preponderanza del caso porta possibilità innumerevoli a ciascun essere vivente. È come se ogni individuo godesse delle stesse probabilità di progredire: una democrazia universale della natura, che forse tende anche a estendere la durata della vita di tutte le specie e di tutti gli individui. Ad ogni generazione, l’ambiente vaglia chi è in grado di vivere e chi no, poi con la nuova generazione si rimescolano di nuovo le carte.
Chi ha convinzioni religiose ha spesso difficoltà con i fenomeni evolutivi, e non ama l’idea che nella vita si dispieghi la potenza del caso. Questo modello non richiede la presenza di un Dio, ma bisogna riconoscere che se fosse opera di un’intelligenza suprema non si potrebbe che restarne ammirati.

Questa universale democrazia della natura aiuta l’ospite a difendersi dal parassita in modi nuovi, ma aiuta anche il parassita ad attaccare con nuove strategie. Favorisce quindi sia l’uno sia l’altro, e in questo modo dà migliori garanzie che tutti e due, alla lunga, sopravvivano. Migliorano così non solo le probabilità di sopravvivenza di tutti gli esseri viventi, ma anche quelle che almeno una parte importante della vita continui pure in caso di grandi catastrofi, come l’arrivo di un grande meteorite che trasforma il clima della Terra, già accaduto più volte in passato, o l’uso, che speriamo non avvenga mai, di armi nucleari molto potenti prodotte da uno di questi organismi viventi.

(3 settembre 2018)



 



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