Cronache di due anni di ordinario razzismo

Annamaria Rivera

Pubblichiamo ampi stralci del saggio di Annamaria Rivera che apre "Cronache di ordinario razzismo", il secondo libro bianco sul razzismo in Italia (a cura di Lunaria, Edizioni dell’Asino, 2011) che verrà presentato sabato 29 ottobre al Salone dell’editoria sociale di Roma. Il libro bianco è il frutto del lavoro collettivo, coordinato da Lunaria, di Paola Andrisani, Sergio Bontempelli, Andrea Callaioli, Serena Chiodo, Giuseppe Faso, Filippo Miraglia, Grazia Naletto, Maria Silvia Olivieri, Alan Pona, Enrico Pugliese, Annamaria Rivera, Ilaria Traina.
Realizzato grazie alla collaborazione con la Fondazione Charlemagne e la Tavola Valdese, il volume documenta e analizza l’ultimo biennio di razzismo quotidiano in Italia, nelle svariate sfere della vita pubblica, attraverso la selezione di 861 casi di discriminazione e razzismo, ricavati dalla stampa e dal web. La cronaca del razzismo, istituzionale e popolare, è inserita nel contesto politico e culturale grazie ai contributi di autori e autrici che hanno ricostruito le tendenze caratterizzanti il dibattito pubblico, le scelte istituzionali e la normativa in questo biennio.

DUE ANNI DI SCENA RAZZISTA IN ITALIA

In memoria di Mohammad Muzaffar Alì
detto Sher Khan
leone indomito ucciso
da alcol e sconforto
discriminazione e abbandono
prigioni e lager di Stato:
dal razzismo in una parola

Il 20 dicembre 2010 Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Giovanni Sartori, “L’integrazione degli islamici”, che ripropone, nello stile e nel lessico consueti, la vecchia tesi –un’autentica ossessione – della “radicale inintegrabilità” degli immigrati musulmani. L’articolo del politologo inaugura una querelle che si trascinerà fino al 10 gennaio 2011 con botte e risposte (fra le quali, una lettera di Tito Boeri). Come spesso accade nei momenti cruciali del dibattito pubblico sull’immigrazione, il quotidiano milanese scende in campo con alcuni editorialisti di punta, per orientare l’opinione pubblica contro il solito capro espiatorio. In realtà, i veri bersagli sembrano coloro che criticano la legge che definisce reato l’immigrazione irregolare e chi propone misure legislative per favorire l’accesso degli stranieri alla nazionalità italiana.

Quel che colpisce dell’editoriale di Sartori è la coazione a ripetere, come se niente fosse cambiato dal lontano 2000. In quell’anno fu giusto un volumetto del politologo – a quel tempo consigliere della coalizione dell’Ulivo –, Multiculturalismo, pluralismo culturale ed estranei (pubblicato in agosto, si noti bene), a inaugurare una campagna anti-musulmana che vide schierarsi fra i primi Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, per non parlare dei soliti leghisti. Il clima creato da quella campagna fu propizio alla ben nota iniziativa squadristica di Lodi: il 14 ottobre del 2000, la Lega Nord, nel corso di un raduno con altre componenti della Casa delle Libertà ed esponenti della galassia neonazista, “profanò” con orina di maiale il terreno dove sarebbe dovuta sorgere una moschea, rinverdendo così lo stile proprio dell’antisemitismo più aggressivo.

Come se un decennio non fosse stato sufficiente a leggere più attentamente la Costituzione italiana e a informarsi sullo stato reale dell’immigrazione in Italia, nell’articolo citato e in altri due successivi Sartori ripropone i soliti cliché e luoghi comuni stantii, espressi con lessico improprio e superficiale, da uomo della strada, si potrebbe dire. Per esempio, per dimostrare che gli “islamici” sono per essenza (per natura?) inintegrabili – tant’è che “non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna (sic) società non-islamica” –, li contrappone ai “cinesi, giapponesi, indiani”, che “si ac¬casano senza problemi nell’Occidente”. Oltre a perpetuare l’abituale confusione grossolana fra nazionalità e orientamento religioso, non degna di un politologo, oltre a far finta d’ignorare che si può essere indiani e musulmani, cinesi e musulmani, marocchini e cristiani, tunisini ed ebrei, maghrebini e agnostici, iracheni e atei, e così via, egli mostra di non conoscere dati empirici basilari. Fra questi, un dato che in base ai suoi criteri dovrebbe essere indice di scarsa integrazione proprio degli “asiatici”: secondo stime della Fondazione Ismu (relative al 2008 ma ancor oggi tendenzialmente valide), in Italia la maggior parte degli immigrati irregolari proviene infatti da paesi asiatici, in testa la Cina.
 
Che dire poi della polemica contro “l’italianizzazione rapida”? Possibile che il politologo sia all’oscuro del gap clamoroso che contrappone l’Italia agli altri paesi europei d’immigrazione riguardo alla concessione della nazionalità del paese-ospite e al riconoscimento del diritto d’asilo? Basta dire che, quanto al numero di cittadinanze assegnate nel 2009 in rapporto al numero dei residenti stranieri in ciascuno dei paesi, la media europea è del 2,4, quella italiana dell’1,5.

Per cogliere appieno la peculiarità italiana – la banalizzazione e l’alto grado di accettazione sociale di discorsi intolleranti – conviene compiere un esercizio di decentramento: si può immaginare che in altri paesi europei, che pur conoscono un razzismo istituzionale e popolare crescente, dei quotidiani indipendenti, comparabili al Corriere della Sera – per esempio, Le Monde, The Indipendent o perfino The Times –, pubblichino articoli di tal genere o addirittura un pamphlet violentemente islamofobico come La Rabbia e l’Orgoglio di Oriana Fallaci?

Ora, confutare l’illustre politologo è facile come sparare sulla proverbiale Croce Rossa, visto che egli non è profondo conoscitore di questioni che concernono la vita, lo status, le discriminazioni e i diritti dei migranti. Se diamo conto di questa querelle non è per cedere anche noi a un’ossessione (non è la prima volta che ci accade di criticare Giovanni Sartori), bensì perché essa è utile a mostrare la perdurante arretratezza del dibattito pubblico italiano intorno a tutto quel che riguarda la condizione e i diritti dei migranti e delle minoranze, soprattutto i rom e i sinti.
 
E non solo: che il maggior quotidiano italiano affidi il compito di rappresentare la propria linea ad articoli dal contenuto grezzamente islamofobico, che questi siano opera non di qualche stagista sprovveduto ma di un politologo influente, reputato firma insigne, tutto ciò dà l’idea di quanto le pratiche discorsive razziste si siano normalizzate e banalizzate.
In realtà, c’è da dubitare che le retoriche stigmatizzanti e razziste in Italia siano mai state sottoposte davvero a critica e a decostruzione, se non da parte di una minoranza costituita da pochi studiosi, da alcuni ottimi giornalisti (anche di quotidiani fra i più importanti), da un certo numero di attivisti antirazzisti, da alcuni mezzi d’informazione di nicchia. […]

Infatti, come se fossimo ai primordi dell’immigrazione in Italia, la carta stampata, con alcune eccezioni, sembra incapace di nominare correttamente e distinguere, quando si tratta di “alieni”. Ai qual
i di solito viene negata perfino la qualifica neutra della nazionalità, spesso sostituita dall’asimmetrico e inferiorizzante “etnia”. Talché, sfogliando quotidiani anche autorevoli, può capitare d’imbattersi in espressioni grottesche quali “individui di etnia latino-americana” o “clandestini di etnia cinese”. La cronaca dei grandi quotidiani ci riserva anche preziosità quali “tre nordafricani, cioè due egiziani e un ivoriano” e “nordafricani, cioè nigeriani”: indizio del fatto che delle volte i lapsus calami sono dovuti non solo a malizia, ma anche a ignoranza. Perdurano, inoltre, l’eufemistizzazione dei centri di detenzione sotto la locuzione “centri di accoglienza” e l’abuso del termine stigmatizzante di clandestini, anche nel caso di rifugiati o richiedenti asilo. Perfino il derisorio “vu’ cumprà” è tornato in voga – ammesso che abbia conosciuto fasi di declino –, rilanciato da agenzie di stampa e finanche da quotidiani e uomini politici “progressisti”. E ha assunto un significato ancora più denigratorio, poiché, non essendo più riferito ai soli venditori ambulanti stranieri, è divenuto sinonimo di “extracomunitari”: di tutti, anche degli operai che lavorano in fonderia.

Come abbiamo scritto altrove*, la permanenza del vizio di etichettare, cioè di nominare gli “altri” secondo il registro dell’irrisione, del disprezzo o della degnazione, rivelano che una frazione considerevole dei media e dei cittadini italiani – che pure discendono da ours, ritals, macaronis, dagos, katzelmacher, babis, cristos – ancor oggi percepisce i migranti e gli appartenenti a minoranze (in particolare i rom e i sinti) come massa informe e omogenea di pezzenti, marginali o delinquenti, comunque come specie altra dai cittadini. Il che è, fra le tante cose, indizio della mancata accettazione -o almeno presa d’atto- che il nostro è divenuto da ben più di un trentennio un paese stabilmente d’immigrazione, normalmente complesso e caratterizzato da varietà e pluralità di culture, religioni, costumi, modi e stili di vita.

Questa denegazione, che caratterizza anche altri paesi europei, è legata, fra l’altro, a una percezione deformata della realtà. Facciamo un esempio. Secondo l’indagine, relativa al 2010, del Transatlantic Trends: Immigration, quasi ovunque in Europa l’opinione pubblica ritiene che l’immigrazione sia più un problema che un’opportunità e che la percentuale di immigrati presenti nel proprio paese sia ben superiore rispetto ai dati ufficiali. Tuttavia, in Italia questa deformazione percettiva sembra più accentuata: mentre nel 2010 gli immigrati regolari costituivano circa il 7% della popolazione totale, gli italiani intervistati ritenevano che fossero ben il 25%. Addirittura, secondo il 65% di questo campione, i “clandestini” sarebbero preponderanti rispetto ai regolari. L’indagine, inoltre, “ha evidenziato che gli italiani restano i più scettici nei confronti dell’immigrazione”: per esempio, ben il 57% degli intervistati è convinto che i “clandestini” contribuiscano ad aumentare la criminalità e il 55% pensa che dovrebbero essere rimpatriati. Per contro, il 55% degli intervistati è favorevole al conferimento agli immigrati regolari del diritto di voto amministrativo e il 72% all’apertura di canali per l’ingresso regolare in Italia. Inoltre, “l’opinione secondo la quale gli immigrati musulmani rappresentano una minaccia è meno diffusa in Italia che altrove”.

L’opera infaticabile di Sartori e di altri attivisti dell’islamofobia sembrerebbe aver conseguito risultati insoddisfacenti. Più in generale, parrebbe che la stessa opera allarmistica condotta da media e politici non abbia avuto un successo strepitoso. Secondo l’Osservatorio sulla Sicurezza in Europa, per esempio, “rispetto a qualche anno fa, le paure legate alla presenza straniera appaiono più contenute. Appena il 6% degli intervistati cita l’immigrazione quale priorità”, mentre le preoccupazioni prevalenti sarebbero la disoccupazione, l’aumento dei prezzi, la qualità dei servizi sociali e sanitari.

Quest’ultimo dato non ci sembra di per sé molto significativo, soprattutto perché le voci “disoccupazione”, “aumento dei prezzi”, “qualità dei servizi” non sono omogenee a “immigrazione”: le prime tre appartengono alla sfera concreta dell’esperienza e della vita quotidiana; l’ultima a quella dell’ideologia. E comunque non si può negare che nell’opinione pubblica italiana permangano percezioni alterate e rappresentazioni negative dei migranti. Esse sono effetto non solo dell’opera svolta dai media, ma anche della pedagogia razzista esercitata nel corso del tempo principalmente dalla Lega Nord, nonché da altri partiti e da rappresentanti istituzionali.

Un razzismo esplicito, spesso smodato, contraddistingue le pratiche, discorsive e non solo, di politici, amministratori, parlamentari e ministri del governo in carica. Per riferire solo alcune perle fra le più recenti, si possono citare: il raffinato “Immigrati, fora da ‘i ball” del ministro Bossi, reiterato dal ministro Calderoli, fecondo creatore di iniziative e fraseologie razziste, che vi aggiunge “Se qualcuno la pensa diversamente, ospiti i clandestini a casa sua”, classico luogo comune, a suo tempo accreditato anche da Beppe Grillo.

Ancora: l’incitamento a usare le armi per respingere le “orde” d’immigrati, pronunciato dal viceministro Castelli e ripreso dall’eurodeputato Speroni, entrambi leghisti; le dichiarazioni del deputato Giancarlo Lehner sul sesso gay che sarebbe “violento e contro natura” e la proposta di “agitare come spauracchio” la castrazione chimica dei migranti; le finezze pronunciate da Berlusconi in persona, dall’identificazione fra contrasto dell’immigrazione “clandestina” e lotta alla criminalità al grottesco grido di dolore su Milano come “zingaropoli islamica”. E, per finire in bellezza, la dichiarazione pubblica dell’eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, secondo il quale “ottime, al netto della violenza” sono “alcune idee” di Anders Behring Breivik, l’autore della strage in Norvegia del 21 luglio 2011.

Se poi volessimo dar conto delle sbavature razziste del ministro Maroni, non basterebbe un volume intero: fra le tante, l’esaltazione delle ronde razziste; la frase “Immagino che lo abbiano scambiato per una nave che trasportava clandestini”, per giustificare il mitragliamento di un mite peschereccio siciliano da parte di una motovedetta libico-italiana; la minaccia di espulsione dei rom, “anche se comunitari”; l’attacco alla magistratura che sarebbe “a favore dei clandestini”.

Si comprende allora la severità del più recente (2011) Rapporto sull’Italia del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. Thomas Hammarberg, dopo aver rimarcato che negli ultimi tre anni quasi nessun progresso è stato compiuto dalle autorità italiane quanto a garanzia del rispetto dei diritti umani di rom, sinti e immigrati, auspica che si ricorra al codice penale almeno “per arginare il continuo uso di slogan razzisti da parte dei politici”. Fra i tanti rapporti autorevoli, anche quello di Amnesty International del 2010, r
eso pubblico a maggio del 2011, deplora la moltiplicazione di “commenti dispregiativi e discriminatori formulati da politici nei confronti di rom, migranti e persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender” che “hanno alimentato un clima di crescente intolleranza”.

Tutto ciò si accompagna anche a un certo conformismo. Perfino fra coloro che si collocano all’opposizione, che siano media o partiti, v’è chi riproduce e ripropone, sia pure in forme attenuate, i medesimi schemi e cliché che reggono l’ideologia del governo in carica e le sue strategie allarmiste e sicuritarie, emergenzialiste e repressive, quando non guidate da razzismo esplicito. Si potrebbe pensare che chi voglia opporsi al governo attuale dovrebbe contrastarlo anche e soprattutto sul versante delle retoriche razziste e delle pratiche discriminatorie. Di conseguenza, non fosse altro che per ragioni strumentali, dovrebbe sforzarsi di assumere uno stile esattamente opposto e di avanzare proposte politiche divergenti. Invece non è così. In Italia – e sempre più anche in altri paesi europei – populismo di destra e tolleranza liberale si rivelano come “due facce della stessa medaglia”, scrive Slavoj Žižek. I politici “liberali”, pur respingendo “il razzismo populista ‘irragionevole’ e inaccettabile per i nostri standard democratici”, ritengono “che il modo migliore per evitare i comportamenti violenti contro gli immigrati” sia praticare un razzismo “ragionevole”.

Giuliano Amato docet. La sua lezione, come di altri maestri simili, continua a dar frutti. Per esempio, il 9 ottobre 2010, l’Assemblea nazionale del Partito Democratico vota all’unanimità un documento sull’immigrazione, integrato con un testo presentato dalla corrente di Walter Veltroni, contenente la proposta “innovativa” dell’immigrazione a punti: in realtà, nient’altro che una variante del vecchio mito dell’immigration choisie/intégration réussie, a suo tempo rinverdito da Nicolas Sarkozy. L’intera Assemblea si pronuncia in favore della “necessità di prendere in carico le paure degli italiani” e quindi “di selezionare l’immigrazione secondo criteri di qualità”. […]

Nel panorama fosco tratteggiato finora, un elemento positivo brilla, fra pochi altri, come una luce di speranza. Gli “zulu” e i “beduini” dei giorni nostri tendono sempre più a ribellarsi collettivamente, rivelando così la loro natura umana ed esibendo coscienza e soggettività: da Castelvolturno a Rosarno, dalla gru di Brescia alla torre ex Carlo Erba di Milano, dalla Domitiana a Nardò. Sfidando, secondo i casi, i padroni, la camorra, i caporali, i pogrom, la vendetta del ministro dell’Interno, rivendicano i loro diritti, anzitutto alla vita e alla dignità, e rifiutano così la condizione di meteci. Lo fanno adottando metodi di lotta estremi, come nei casi dell’occupazione della gru e della torre, oppure incrociando le braccia nel senso più classico dell’espressione, come nel caso dello sciopero della Domitiana.

E’ qui che il 9 ottobre 2010 si è svolto per la prima volta in Italia uno sciopero dei lavoratori stranieri a giornata: braccianti agricoli, manovali edili, avventizi nel terziario e nell’artigianato, regolari e irregolari, provenienti dai paesi più vari. Da Baia Verde ad Afragola, i lavoratori hanno occupato pacificamente sedici “rotonde”, gli stessi incroci stradali ove all’alba d’ogni giorno si svolge il mercato delle braccia. In ogni “rotonda” innalzavano un cartello: “Noi non lavoriamo per meno di 50 euro al giorno”.

Che c’entra tutto questo con un Rapporto sul razzismo? Proviamo a rispondere in modo conciso. Il razzismo è un sistema di relazioni sociali caratterizzato da disuguaglianze – economiche, giuridiche, di status… – e da scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti. Tale sistema produce la tendenza a de-umanizzare i dominati, a rappresentarli perlopiù come massa indistinta, a screditarli, discriminarli, alterizzarli, inferiorizzarli, renderli vulnerabili. Se ciò è vero, la prima condizione per scardinare il sistema-razzismo è la rivolta delle vittime e la loro capacità di proporsi come soggetti attivi e rivendicativi. Questo presupposto, a sua volta, è ciò che può innescare il processo che conduce, per dirla nei termini di Etienne Balibar, a decomporre la “comunità” istituita dal razzismo. Non sottovalutiamo l’opera di contrasto del razzismo svolta da organizzazioni internazionali e nazionali, ma pensiamo che in definitiva a decidere della sorte dei dominati saranno i dominati stessi.

* Si vedano, fra le opere più recenti: A. Rivera, Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, Bari 2009; La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza escludere lo specismo, Ediesse, Roma 2010; “Razzismo di lotta e di governo”, in: MicroMega, 1/2011: “Berlusconismo e fascismo (1)”.

(28 ottobre 2011)

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