Darwin, il capitano FitzRoy e l’imprevedibilità dell’evoluzione

Telmo Pievani

Pubblichiamo il prologo che apre il nuovo saggio di Telmo Pievani, "La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto" (Raffaello Cortina Editore), in questi giorni in libreria.



Darwin fu un grande uomo, Signora, fu un genio, venuto al mondo per uno scopo speciale. Ma ha oltrepassato il segno. Sì, è andato oltre il segno per il quale era destinato – Laura Fitzroy, 1934

Entrare nella storia è ambizione diffusa. Entrarci non per meriti acquisiti, ma per aver portato sulla propria nave un passeggero famoso, è destino beffardo. Il capitano della marina britannica Robert FitzRoy, discendente diretto del primo duca di Grafton, il figlio illegittimo di Carlo II e della duchessa di Cleveland, avrà per sempre nelle cronache l’inconsistenza di un’ombra furtiva alle spalle del gigante. Un’ombra per di più colpevole, perché ostinatamente non volle capire la grandezza della rivoluzione scientifica e culturale scatenata dal suo illustre compagno di viaggio. Il capitano del Beagle, la cui biografia comincia e finisce con una tragedia, e il cui nome sarà inevi­tabilmente legato a quello di Charles Robert Darwin, è un perfetto cattivo della storia. È il perdente che nessuna mano­vra d’archivio riabiliterà, l’eroe di battaglie ottocentesche che nessuno capì, l’uomo di mare che odiò la solitudine e che la solitudine lentamente uccise.

Il rammarico di non poter controllare i modi imprevedibili con cui i posteri plasmeranno il ricordo delle nostre vite deve averlo perseguitato fino all’ultimo, fino al taglio di quella lama. Tu, superbo marinaio e topografo perfezionista, contribuisci alle glorie della marina di Sua Maestà nell’emisfero australe. deputato conservatore per due anni, nel 1843 vieni nominato governatore della Nuova Zelanda, inimicandoti in pochi mesi sia i coloni inglesi sia i referenti in madrepatria, a causa dei tuoi tentativi di patrocinare i diritti dei nativi maori e della tua cocciutaggine nel rispettare i trattati firmati con loro. Fai tutto questo, ma sarai per sempre colui che litigava con Darwin nei mari del sud a causa degli austeri silenzi, degli accessi d’ira e della scontata simpatia per lo schiavismo.

Con il solo aiuto delle vele, navighi, caboti e bordeggi per anni, disegnando le migliori cartografie delle coste sudamericane mai realizzate prima. Sei tu al comando della prima nave a elica uscita da un porto inglese e per il dispiacere di tutte le vite che hai visto perire tra i flutti ti dedichi per anni alle previsioni del tempo, fondando il primo ufficio meteorologico governativo. La tua missione quasi ossessiva diventa quella di capire in anticipo l’approssimarsi di una tempesta, per salvare generazioni di compagni marinai: costruisci un prototipo di stazione meteorologica con barometri e termometri; sul Times inauguri le prime previsioni del tempo quotidiane con mappe; e, soffrendo le iniziali perplessità di tutti, inventi un sistema di segnalazione visiva e di avviso del maltempo che rimarrà in auge per decenni. Fai tutto questo, ma sarai per sempre il “capitano di Darwin” e il complice involontario delle sue osservazioni naturalistiche.

L’aristocratico che non tollerava di essere contraddetto, che aveva paura delle solitudini del comando in mare e della desolazione dei paesaggi oceanici – da quando giovanissimo, in una notte gelida, aveva dovuto prendere il timone del Beagle per sostituire il suo capitano, suicidatosi dalla disperazione – e che nel viaggio successivo ebbe il merito, non voluto, di far salire a bordo come suo accompagnatore non sottoposto il futuro padre della teoria dell’evoluzione (benché la fisiognomica gli suggerisse che il naso di quel ventiduenne non prometteva nulla di buono), lasciò in eredità ai suoi figli soltanto debiti. Aveva speso tutto per i barometri e per le sue previsioni meteorologiche. Non digerì mai che i suoi diari di bordo avessero avuto un successo di gran lunga inferiore rispetto a quelli di Darwin. Già devoto cristiano, aveva sposato in prime nozze una donna assai religiosa, divenendo quel che oggi si direbbe un fondamentalista, oltre che un acerrimo avversario delle idee Darwiniane. Che vergogna imperdonabile aver collaborato, suo malgrado, alle ricerche che condussero a quel maledetto libro del 1859, all’opera che più di ogni altra metteva in dubbio i racconti della creazione e l’esistenza di un grande piano preordinato nella natura.

In ritardo sui tempi, per l’agguerrita difesa della teologia na­turale e della verità letterale delle Scritture. In anticipo sui tempi, per le sue ricerche pionieristiche su come prevedere le mosse delle nuvole in cielo. Insoddisfatto e incompreso in un caso e nell’altro (Gribbin, Gribbin, 2003). Persino i tentativi di civilizzare alcuni fuegini a sue spese erano falliti miseramente, dato che appena ricondotti nelle loro terre inospitali erano ritornati alle durezze dello “stato di natura”. Le frustrazioni e le depressioni ricorrenti resero sempre più ardue le circostanze, finché la solitudine, intravista quella notte sulla tolda del Beagle, non lo stanò improvvisamente in una domenica di aprile del 1865, due settimane dopo l’assassinio di Abraham Lincoln. Lo zio, Lord Castlereagh, al secolo Robert Stewart, si era tolto la vita nel 1822 tagliandosi la gola e FitzRoy da sempre temeva che vi fosse in questa propensione qualcosa di ereditario. Così finì per avverare la profezia tagliandosi egli stesso la gola. Venne istituito un fondo di sussistenza, finanziato anche da Darwin, per aiutare i suoi quattro figli, tre avuti dalla prima moglie e una, Laura Elizabeth, nata dalla seconda moglie Maria Isabella nel 1858 e morta il 6 dicembre 1943 in piena Seconda guerra mondiale.

Per una qualche attrazione verso i destini incrociati, l’ombra di Darwin si allungò anche sulla discendenza di FitzRoy, se è vero che nel 1934, molto tempo dopo, ebbe luogo un incontro sorprendente. Una nipote di Darwin, Nora Barlow, intenta a rimettere ordine nelle carte private e nei diari di bordo del nonno, andò a far visita proprio a Laura, l’ultimogenita del capitano. Nora, allora quarantanovenne, era figlia di Horace Darwin, costruttore di strumenti di misurazione scientifica presso la sua Cambridge Instrument Company, e aveva sposato Lord John Barlow, ministro del governo britannico. Fu lei a fondare l’“industria Darwiniana”, un’impresa di raccolta, sistemazione e interpretazione di tutti gli scritti di Darwin (note, lettere, articoli, appunti e diari) che ancora oggi impegna gli studiosi, tale è la mole degli scritti. Nel loro dialogo due universi si sfioravano dopo tanto tempo: l’universo rassicurante di William Paley e del sacro ordine naturale, difeso fino all’ultimo con onore dal comandante del Beagle, e il mondo inquieto ed emancipato dell’evoluzione Darwiniana.

L’anziana signorina FitzRoy, settantaseienne, mai sposatasi, raccontò di come la regina Vittoria fosse solita consultare suo padre per avere le previsioni del tempo prima di attraversare lo stretto di mare che separa l’Inghilterra dalla tenuta reale sull’isola di Wight. I messaggeri della regina e delle principesse di corte suonavano il campanello della loro casa a Kensington per avere i responsi meteorologici del viceammiraglio. A lui an­cora oggi sono dedicati i nomi di una montagna sulla cordigliera andina meridionale, fra Cile e Argentina, un fiume nell
’Australia nordoccidentale, due porti rispettivamente alle Falkland e in Nuova Zelanda, un delfino intitolatogli da Darwin stesso e una conifera sudamericana. Nora scrisse di essersi commossa ascoltando i ricordi di Laura, così elegante e posata sotto il suo copricapo bianco e tutta racchiusa dentro uno scialle. Le due gentildonne non ignorarono affatto la ferita aperta che le divideva e ben presto nella discussione fece capolino un convitato postumo: l’abitudine della nostra mente a pensare la storia naturale e umana in termini di finalità intrinseche, di provvidenze, di progressi e direzioni. Darwin su questo, nonostante le cautele e le accorte ritrosie delle sue lettere, era stato netto.

È probabile che le due discendenti abbiano rievocato in quell’incontro del 1934 gli argomenti che Darwin aveva in­trecciato con molti suoi fidati corrispondenti, in particolare con l’amico botanico di Harvard, Asa Gray, che, oltre a fornirgli per anni informazioni dettagliate sulla distribuzione delle piante nel mondo, non smise mai di spronarlo a trovare un’onorevole soluzione di compromesso fra la teoria dell’evoluzione e l’idea di una finalità divina operante in natura. La convinzione di Gray, attivo difensore della rivoluzione Darwiniana negli Stati Uniti e al contempo convinto cristiano, era che si dovesse rinunciare alla credenza in continui interventi di un dio creatore, poiché, per quanto improbabile fosse, si poteva immaginare altresì che i piani ultraterreni trovassero compimento proprio attraverso l’evoluzione Darwiniana. Il progettista intelligente non era altro che la selezione naturale, e le variazioni in natura erano procurate da dio stesso affinché le specie ne traessero beneficio.

Darwin aveva inviato a Gray un abbozzo della sua teoria già nel 1857, tanta era la stima che nutriva per il collega americano, “un complesso incrocio di poeta, naturalista, uomo di legge e teologo”, ma senza mai nascondergli che la sua soluzione filosofica conteneva una contraddizione potenzialmente letale: come può un dio al contempo onnipotente e infinitamente buono operare per mezzo di processi che implicano una tale quantità di sofferenza, di crudeltà, di ingiustizia e di spreco? E soprattutto, come può un sommo architetto dotato di intelligenza e di preveggenza sopportare che la storia naturale sia così radicalmente influenzata da circostanze casuali, da svolte impreviste, da eventi accidentali? In una lettera del 22 maggio 1860 si schermisce dicendo che non è sua intenzione scrivere in modo ateistico, poi però affonda il colpo: “Ma devo am­mettere che non mi riesce proprio di vedere, con la chiarezza che hanno altri, o come desidererei, l’evidenza di un progetto e di benevolenza tutto attorno a noi. Mi sembra che ci sia troppa sofferenza nel mondo. Non riesco a convincermi che un dio benevolo e onnipotente possa aver creato di proposito gli Icneumonidi con l’esplicita intenzione che si alimentassero all’interno dei corpi ancora vivi dei bruchi, o che un gatto dovesse giocherellare con il topo”. Allo stesso modo, prosegue, “non vedo alcuna necessità nel credere che l’occhio sia stato espressamente progettato”.

E gli Icneumonoidei, diremmo oggi, non sono un ghiribizzo di natura, bensì una superfamiglia di imenotteri con decine di migliaia di specie. Il rituale macabro delle vespe madri e il loro impulso riproduttivo prevedono l’oculata individuazione di un bruco sacrificale e l’iniezione delle uova nelle sue carni. La puntura della vespa lo paralizza giusto il tempo per la covata e per l’avvio del successivo “pasto”. A momento debito le uova si schiudono e le larve cominciano lentamente a mangiare dall’interno il corpo del bruco, un poco per giorno. Non lo divorano, però, in modo vorace e disordinato, per farla finita presto. Iniziano dalle parti grasse e lo scarnificano diligentemente lasciando per ultimi il cuore e gli organi vitali, di modo che la povera bestia resti in vita, come riserva di carne fresca, tutto il tempo necessario. Il bruco in agonia si contorce, stringe le mascelle, agita le antenne e le zampe, ma il suo destino, grazie all’amore materno della vespa, è segnato. Se c’è un progetto, è quello di un sadico.

Certo, non c’è da esser contenti nel “vedere questo meraviglioso Universo e specialmente la natura umana” e nel conclu­dere “che tutto è il risultato della forza bruta”. La soluzione, continua Darwin nella lettera a Asa Gray, risiede in un delicato equilibrio fra le leggi necessitanti della natura e il potere dei dettagli contingenti: “Sono incline a considerare ogni cosa co­me risultante da leggi intelligenti, e a lasciare i dettagli, buoni o cattivi che siano, all’azione di quello che potremmo chiama­re caso”. Le variazioni stesse, scriverà Darwin nel 1868, non sono né ordinate né guidate, ma emergono incessantemente e spontaneamente nelle popolazioni biologiche, senza una direzione, per essere poi filtrate in base alla loro utilità, misurata in termini di sopravvivenza e di riproduzione, nel contesto di ambienti fluttuanti. Per Gray, che nonostante tutto pub­blicherà nel 1876 un libro, Darwiniana, che farà molto felice l’amico, erano idee difficili da metabolizzare. Per il capitano FitzRoy, e forse anche per la figlia Laura, era semplicemente impensabile che il grande orologiaio perfetto cadesse sotto i colpi di un sol uomo.

Le leggi e i dettagli. dove finisce il dominio delle une e comincia quello degli altri? L’ufficio meteorologico naziona­le inglese nel 2002 decise di celebrare il suo fondatore battezzando “FitzRoy” una vasta area marina a ovest del Golfo di Biscaglia, l’unica dedicata a una persona e non a un dato geografico: i capitani in mare si sintonizzano sulle frequenze della bbc e ascoltano dalla radio i bollettini meteorologici con il suo nome. Gli avrebbe fatto piacere. Anche Laura FitzRoy al termine della conversazione con Nora volle rendere omaggio, con delicatezza tutta vittoriana, al vecchio compagno di mare e di dispute del padre (Milner, 2009). Ma lo fece a modo suo, con il senso invincibile della teleologia, evocando i fini ultimi per i quali il grande naturalista era comparso nel gran disegno del mondo, salvo poi andare oltre, troppo oltre, il segno che la Provvidenza aveva tracciato per lui: “Darwin fu un grande uomo, Signora, fu un genio, venuto al mondo per uno scopo speciale. Ma ha oltrepassato il segno. Sì, è andato oltre il segno per il quale era destinato”.

Ecco, questo libro racconta in che modo Darwin e i suoi successori hanno “oltrepassato il segno” e perché il concetto centrale dell’evoluzione, la contingenza storica, non è stato ancora accolto nei nostri sistemi di pensiero.

(27 maggio 2011)

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