Gli errori di chi sottovaluta la pericolosità del Covid

Lina Pavanelli


Qualche giorno fa la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva comunicato che la velocità di occupazione dei posti letto da parte di malati di Covid-19 stava aumentando in maniera pericolosa e che, se questa situazione si fosse protratta, il sistema sanitario tedesco in poche settimane ne avrebbe risentito in maniera devastante. Le misure di contenimento che sarebbero state prese avevano lo scopo di scongiurare questa eventualità. Aveva anche aggiunto, e questo è stato quello che ha reso la sua comunicazione diversa da quelle di altri politici che mi è capitato di ascoltare, che queste misure avrebbero dovuto essere state prese prima, ma che sarebbe stato praticamente impossibile imporle perché “le persone di fronte ad una salita lenta del numero dei malati e a numeri non ancora elevati non percepivano il pericolo” e non le avrebbero accettate.
La situazione descritta da Merkel è quella di tutti i sistemi democratici e non: se da un lato gli epidemiologi ci spiegano che quando la curva epidemica passa da una situazione lineare stabile ad un incremento è necessario intervenire con assoluta tempestività, perché l’incremento può diventare rapidamente esponenziale, dall’altro i politici non riescono a trovare il consenso necessario per farlo. In effetti, nessuno l’ha fatto, tranne Taiwan, con eccellenti risultati.
In Italia, dopo la prima ondata epidemica si è instaurata una fase di stabilità che è durata quasi tutta l’estate, poi, lentamente, ma inesorabilmente, si è assistito ad un progressivo aumento dei ricoveri nei reparti ordinari dedicati e, alla fine, nelle terapie intensive. Le autorità rassicuravano. Abbiamo posti, abbiamo medici, non è come la prima volta. Perciò questi segni premonitori, nonostante gli ammonimenti degli infettivologi, non venivano presi nella giusta considerazione. Anche perché “esperti” di vario tipo, forti della loro autorevolezza, minimizzavano la pericolosità della situazione.
I numeri, come ha detto Merkel, non apparivano ancora minacciosi, perciò potevano essere ignorati. In Italia la situazione appariva così tranquilla che, mentre si leccavano le ferite, alcuni hanno incominciato a mettere in dubbio il passato. C’erano infatti aspetti analizzando i quali, chi voleva, poteva dimostrare che c’era sì stata un’epidemia, ma che la sua reale dimensione era stata artatamente gonfiata, che questo aveva provocato una specie di psicosi collettiva e che erano state le misure di contenimento più che il virus, a provocare danni. In particolare la catastrofe economica in cui ci troviamo non è colpa del virus, ma del governo e delle assurde limitazioni imposte.
I critici del sistema hanno condannato più o meno tutto, dalle mascherine al lavaggio delle mani, ma si sono concentrati principalmente su due aspetti dell’epidemia: i morti per il passato, e lo screening della popolazione per il presente.
La critica sulle morti da coronavirus ha incominciato a comparire abbastanza precocemente poco dopo la fine della prima ondata. Perché c’erano state così tante vittime? Erano tutti deceduti a causa del virus, o erano morti per altre cause? Su quale base erano state fatte le diagnosi?
Il confronto con gli altri paesi legittimava alcuni dubbi. In Italia si è partiti da subito con una mortalità che superava il 12%. In Cina non ha mai superato il 4%. In Germania è rimasta a lungo di poco superiore all’1%. In Qatar, pur con un alto numero di contagiati, la morte era un evento sporadico. Perché tanta differenza?
Non ho gli strumenti per fare un’analisi approfondita, tuttavia posso dire che, in Italia, gli elementi che hanno caratterizzato la prima fase dell’epidemia nelle zone colpite sono stati tre: l’età avanzata dei malati, l’improvviso grande numero di contagiati e l’immediato sovraccarico delle strutture sanitarie dei territori colpiti. In altre parole, un’improvvisa ondata di persone fragili piombata su un sistema sanitario studiato per rendere al massimo in condizioni normali ma privo di riserve per eventualità impreviste, non adatto a fronteggiare epidemie.
Questa situazione rende più che plausibile l’elevato tasso di mortalità in quel periodo (in realtà il tasso di mortalità nazionale risulta “solo” del 12-13% perché è stato spalmato su tutta l’Italia, a Bergamo e provincia era molto più elevato) tuttavia qualcuno ha incominciato a dubitare che la situazione fosse stata così tragica come descritto ed è andato a ricercare riscontri a per dissipare i propri dubbi.
Le domande più frequenti erano, e sono tuttora, le seguenti.
Siamo sicuri che tutti quegli anziani siano morti a causa del coronavirus? Alcuni sì, ma altri? Non erano piuttosto persone risultate semplicemente positive al tampone e aggiunte alle vittime vere solo per far aumentare la paura fra la popolazione? E poi: quanti sono i pazienti non Covid morti per mancanza di cure? A quest’ultima domanda rispondono in parte dati forniti dall’ ISTAT sulla mortalità dei primi mesi di quest’anno. Leggendoli si può facilmente verificare l’eccesso di mortalità rispetto agli anni precedenti, ma emerge anche che, in molti casi, il coronavirus non c’entra, almeno direttamente. Si tratta di morti per patologie cardiovascolari, neoplastiche etc. La domanda è: quelle persone sarebbero morte ugualmente in quel periodo o sono andate incontro ad aggravamenti o complicanze perché non sono state trattate con la tempestività necessaria? Ne sono morte di più o di meno rispetto agli anni precedenti? Non è possibile stabilirlo con certezza, ma è possibile instillare grossi dubbi. Probabilmente in alcuni casi è accaduto, perché non c’è alcun dubbio che un sistema sanitario in affanno significa soprattutto cattive cure per tutti. E questo è il vero problema.
Oggi, in piena recrudescenza dell’epidemia, la mortalità si attesta fra l’1% e il 2%, in linea con quella degli altri paesi. Da questo punto di vista il sistema regge, ma le liste e i tempi d’attesa per gli interventi chirurgici e per le visite specialistiche sono a tutt’oggi più lunghi rispetto al periodo pre-Covid, quindi i malati sono seguiti peggio di prima. Sarebbe molto importante impedire ogni ulteriore peggioramento. Ma, al punto in cui siamo, è molto difficile.
Il secondo grosso oggetto di contestazione è l’uso diffuso dei tamponi per tracciare il virus. Molti ne contestano l’utilità perché sembrerebbe che il test sia troppo sensibile, che dia un numero troppo elevato di falsi positivi. Poiché chi è positivo al test viene messo in quarantena la misura sembra colpire inutilmente un numero elevato di persone. Su questa base viene chiesto con veemenza di non eseguire tamponi agli asintomatici, ma di riservarli solo alle persone con sintomi. Personalmente mi fido del professor Crisanti, l’unico vero epidemiologo che abbiamo in Italia, il quale dice che testare coloro che sono entrati in contatto con un malato è di fondamentale importanza per tracciare il percorso del virus ed impedirne la diffusione e che i positivi vanno messi in quarantena. Sintomatici o no. A Taiwan, quando mancavano i tamponi, il semplice contatto con persone malate era sufficiente a imporre la quarantena. Quello che preoccupa molto i critici è che il numero elevato di positivi che questo test restituisce, essendo “falso” creerebbe uno stato di ansia diffuso assolutamente non giustificato e danni economici rilevanti ed evitabili.
Forse.

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Ma il problema è che il danno che sta sull’altro piatto della bilancia, è molto più grande anche se non è percepito. Il suo indicatore è un numero su cui non c’è da discutere: quello dei ricoverati per Covid-19.
I ricoverati per Covid-19 non sono come gli altri, non se la cavano in pochi giorni. Inoltre, per l’assistenza, richiedono sia carichi di lavoro molto superiori alla norma sia un’organizzazione complessa che assorbe tutte le risorse disponibili. Nel caso del Covid-19 il numero che esprime meglio il danno inferto non è tanto il numero dei morti e neanche quello dei contagiati, quanto quello che quantifica il costo di risorse umane, tecnologiche e finanziarie necessarie per produrre dei “guariti”, sommato a quello del danno subito dai pazienti non Covid. Un numero, quello dei malati Covid che finiscono in ospedale, che nessuno può mettere in discussione, che non dipende né dal numero di tamponi che si fanno né da altri fattori, ma che sta lì, come la punta di un grande iceberg che tutto il sistema dovrà cercare di evitare.
E pensare che la prevenzione più efficace è fatta di tre semplici regole: mascherina (indossata correttamente), distanziamento e lavaggio delle mani.

(6 novembre 2020)





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