Governare il successo del telelavoro per non ripetere gli errori delle delocalizzazioni

Fausto Carmelo Nigrelli



Nel momento in cui scrivo è in corso all’interno del Governo uno scontro che sembra campale attorno alla governance dei fondi del piano Next Generation EU che sono appena stati sbloccati dalla riunione dei capi di Stato e di governo dell’Unione, i quali hanno anche trovato l’accordo sul Green deal fissando al 55 per cento la riduzione delle emissioni CO2 entro il 2030.

Nessun dibattito sulla visione del Paese da qui al 2050, quindi sulla conseguente strategia e sulle azioni necessarie. La voce solitaria, dentro il governo, del ministro Provenzano che si batte per una assegnazione superiore al 34% alle regioni del sud, non trova eco né risposte negative. Resta una voce che urla nel deserto.

Eppure, al di là dei conti della serva che si possono fare attorno a un più o meno credibile elenco di progetti pronti, saremmo già in ritardo rispetto alla questione da affrontare. A meno che – e questa è la netta sensazione – essa non si voglia del tutto prendere in considerazione. Mi sembra che ci sia un equivoco: la visione deve precedere l’elaborazione della strategia, quindi dei progetti da mettere in campo per realizzarla, non il contrario. Invece sembra che l’elenco dei 60 progetti sia nato dalla collazione di iniziative già in corso da parte di enti pubblici o da grandi attori privati, soprattutto nel campo delle telecomunicazioni e dell’energia. Per cui si corre il rischio (come è avvenuto per in fondi PO-Fesr per il Mezzogiorno) che le risorse EU non siano aggiuntive rispetto a quelle nazionali, ma siano sostitutive, vanificando il senso del Piano europeo.

Occorre, al contrario, utilizzare qui fondi per integrare progetti e azioni che erano già in campo con fondi ordinari.

Ogni obiettivo, infatti, può essere raggiunto seguendo percorsi diversi la cui scelta non è mai neutrale. Si può investire soprattutto nelle aree forti del Paese aumentando di fatto il divario con il resto del territorio, o investire prioritariamente sulle aree interne per ridurlo. Per esempio sarebbe ben strano se i fondi del Piano servissero per aumentare le performance delle reti digitali nelle aree metropolitane, dove gli operatori ricavano grandissimi profitti al punto di abbandonare le aree caratterizzate da piccoli centri disseminati nel territorio, invece che essere l’incentivo per digitalizzare proprio le aree più lontane dalle metropoli.

Non si tratta di un fatto secondario perché se le aree interne sono state definite a partire dalla distanza misurata in tempi di percorrenza dai “Centri d’offerta dei servizi” in particolare in relazione all’istruzione superiore, ai servizi sanitari e ai servizi di trasporto ferroviario, è ovvio che oggi la velocità di accesso alla rete dati è altrettanto – se non maggiormente – importante se si vogliono rimettere in gioco i 2/3 del territorio nazionale, non in una logica solidaristica, ma come scelta strategica per la nuova fase di sviluppo del Paese.

Su MicroMega ho già fatto presente che si tratta, a mio avviso, di scegliere come chiave di lettura non la competitività dei territori e delle città, ma la loro desiderabilità e che la prospettiva di vivere in modo complessivamente soddisfacente negli arcipelaghi di medie e piccole città che caratterizzano il sistema insediativo italiano, è tutt’altro che astratta a condizione di non considerare i borghi come dei presepi in cui gli abitanti metropolitani vanno periodicamente a ricaricarsi.

Operare sulla desiderabilità è possibile perché queste aree «dispongono di importanti risorse ambientali (risorse idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani) e risorse culturali (beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere)» che fanno la qualità del contesto, ma offrono anche quelle condizioni di socialità e prossimità che sono state riscoperte durante le esperienze di confinamento e che, alla scala urbana, riportano al centro della riflessione il tema del quartiere e dell’unità di vicinato.

C’è però, tra altre, la condizione di rendere queste aree possibili luoghi in cui si possano svolgere lavori soddisfacenti non solo nel campo dell’agricoltura nella sua forma tradizionale o avanzata con l’uso delle tecnologie, ma anche lavori intellettuali, del quaternario (la cosiddetta economia della conoscenza) oltre che del terziario e, perché no?, della manifattura. E per tutte queste attività l’accessibilità rapida ed efficiente alle reti di dati è fondamentale quanto quella di avere una efficiente rete di strade e trasporti.

Lo è per la dotazione dei servizi perché la sanità sarà sempre più basata sulla cosiddetta “telemedicina” anche se sarà opportuno rimettere in sesto la rete degli ospedali di comunità massacrata dalle ultime riforme del settore; lo sarà per nella scuola la DAD rimarrà ad affiancare la didattica tradizionale moltiplicando le opportunità per chi potrà accedervi facilmente.
Lo è, ovviamente, anche per tutti i settori dell’economia cui si faceva cenno.

L’improvviso, massiccio, ricorso al lavoro in remoto rende plasticamente evidente questo aspetto e, proprio per questo, va governato fin da subito per evitare che diventi l’ennesima contrazione dei diritti dei lavoratori sempre più soli di fronte ai datori di lavoro.
Si tratta di un fatto importante tanto quanto fu, all’inizio degli anni Novanta del XX sec., l’improvvisa dissoluzione, del blocco sovietico e il contemporaneo abbassamento dei costi di trasporto che avviò la grande fase di delocalizzazione dei cicli produttivi di molte delle aziende che spostarono intere produzioni nei paesi dell’est dove il costo della mano d’opera, le tutele sindacali e, più in generale, i costi di produzione erano molto più bassi. La frammentazione internazionale della produzione, priva di una forma di governance pubblica, ha forse consentito alle aziende di mantenere la competitività internazionale, magari non sempre mantenendo il livello qualitativo, ma ha prodotto un impoverimento in ambito nazionale quasi sempre nell’ambito del sistema delle aziende subfornitrici locali, con ricadute significative nell’occupazione e responsabilità nella ripresa dell’emigrazione da alcune aree del Paese.
Un attento governo del fenomeno indotto dalla prima pandemia del XXI sec. potrebbe avere le ricadute opposte a quelle appena ricordate della delocalizzazione verso i paesi dell’est. Lasciarlo, invece, in balia delle regole del mercato non solo aggraverebbe le condizioni dei lavoratori, ma non otterrebbe l’effetto di rimettere in gioco i territori. Dieci anni fa Hartmut Rosa, filosofo e sociologo tedesco, scriveva: «se è economicamente irrilevante dove apriamo un call center, lo possiamo benissimo collocare in un zona piena di attrattive naturalistiche nel pieno rispetto dell’ambiente». Se al posto del call center mettiamo qualunque altra tra le attività economiche che prima citavo o il loro insieme, è chiaro che la nuova era ecologica e connessa potrebbe partire proprio dai paesaggi scartati nel secolo scorso.
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È una questione che riguarda tutta la società e non solo la disciplina di cui mi occupo, l’urbanistica, che anzi in questi mesi è stata del tutto ignorata (con poche eccezioni tra cui Andrea Orlando) dai protagonisti del dibattito pubblico.
Il “nuovo ciclo urbano” di cui si è recentemente occupato l’INU non può prendere le mosse che da una inversione a 180° della direzione seguita negli ultimi decenni per quello che ci riguarda rispetto almeno a tre questioni: inversione rispetto al paradigma della iperconcentrazione insediativa metropolitana (densa e diffusa); inversione rispetto alla verticalizzazione delle politiche di welfare e della loro presenza sui territori; inversione rispetto alle politiche di investimento che dovranno prevalentemente riguardare le aree meno avanzate sia tra le regioni che nelle regioni. E lo strumento per questi obiettivi non può essere di inondare il mercato del lavoro e le aziende di sconti fiscali, agevolazioni, bonus e via elencando.

Occorre, come dicevo, investire nei territori scartati prima che nelle aree metropolitane, per renderli desiderabili. Per questo occorre investire soprattutto qui sul ripristino della rete stradale secondaria che connetta il Paese alla grande rete stradale e ferroviaria senza necessariamente ampliare ulteriormente questa; lavorare sull’immenso patrimonio dismesso residenziale e produttivo per riattivarlo senza ulteriore consumo di suolo; mettere al centro dell’azione il recupero del vastissimo territorio agricolo non solo con lo scopo di aumentare l’autonomia alimentare del Paese, ma per non perdere la biodiversità agricola e puntare a ulteriori fette di mercato all’estero, garantendo così la manutenzione del territorio riducendo a monte il rischio idrogeologico e non solo con gli interventi di ingegneria idraulica a valle. Ma occorre soprattutto, portare l’innovazione, le tecnologie e la ricerca in questi territori, quindi puntare qui prima che altrove sulle connessioni dati iperveloci.

(11 dicembre 2020)





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