Il capitalismo secondo Nancy Fraser

Carlo Formenti



Basterebbero i titoli dei quattro capitoli – Concettualizzare il capitalismo, Storicizzare il capitalismo, Criticare il Capitalismo, Contestare il capitalismo – per dare un’idea dell’ambizione teorica che ispira un libro come Capitalism (da poco pubblicato in edizione italiana dall’editore Meltemi nella collana Visioni eretiche, diretta da chi scrive). Il volume porta come sottotitolo “Una conversazione con Rahel Jaeggi”, ma il lettore capisce presto che siamo lontani dalla mera registrazione di un dialogo (infatti le autrici spiegano che il libro è stato “costruito” a posteriori, usando le conversazioni come una semplice traccia): ci troviamo, piuttosto, di fronte a due discorsi che scorrono paralleli e quasi indipendenti l’uno dall’altro. Quanto all’artificio retorico dell’alternanza fra domande (perlopiù della Jaeggi) e risposte (perlopiù della Fraser) si intuisce che maschera a stento le divergenze fra le autrici, che vengono attutite dall’atteggiamento amichevole di due donne che si stimano, rispettano e apprezzano reciprocamente, ma anche (sia detto senza ironia) da un certo bon ton accademico.

Del resto non potrebbe essere altrimenti, dal momento che le rispettive visioni filosofiche ed epistemologiche coincidono solo marginalmente: pur conservando entrambe un forte ancoraggio al pensiero di Marx, le due autrici si propongono infatti di oltrepassarne i limiti attraverso percorsi diversi: la Fraser tenta di superare la classica contrapposizione fra struttura e sovrastruttura “contaminando” Marx con Polanyi, attingendo al contributo di autori come Harvey, Arrighi e Wallerstein (mentre Gramsci, pur restando sullo sfondo, pesa in misura tutt’altro che marginale) e aggiungendovi molto del suo; Jaeggi si pone lo stesso obiettivo partendo invece dalla rivisitazione critica di maestri tardo francofortesi come Habermas e Honneth, “annaffiati” da robuste dosi di Foucault. Entrambe condividono un giudizio positivo sul contributo del pensiero femminista, poststrutturalista e postcoloniale ai fini del rinnovamento della critica alla società capitalista, ma traggono conseguenze diverse da tale giudizio[i]. Nelle righe che seguono concentrerò l’attenzione sulle tesi di Nancy Fraser, accennando solo saltuariamente a quelle di Rahel Jaeggi che, perlomeno dal mio punto di vista, appaiono meno stimolanti.

Per Nancy Fraser il capitalismo non può essere definito esclusivamente sul piano economico, attraverso fattori quali la proprietà privata dei mezzi di produzione, l’estorsione di plusvalore, l’accumulazione illimitata di profitto, la riduzione a merce di forza lavoro, terra e denaro nonché la progressiva mercatizzazione di tutti gli ambiti dell’umana attività. Questi concetti restano irrinunciabili per la comprensione dei meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, tuttavia, sostiene Fraser, la società capitalistica è qualcosa di più di tutto ciò: è un “ordine sociale istituzionalizzato”.

Per comprendere cosa intenda con questa definizione, conviene partire dal giudizio di Polanyi[ii] sul capitalismo come eccezione assoluta nella storia dell’umanità, in quanto unica forma di civiltà che ha trasformato l’economia da insieme di attività marginali, integrate in e dipendenti da altri ambiti sociali (potere politico e religioso, tradizioni culturali, ecc.) a centro indiscusso dell’essere sociale, capace di ridefinire tutte le altre attività a propria immagine e somiglianza. Tuttavia il contributo di Polanyi, argomenta Fraser, sconta un limite: nel suo discorso la società civile precapitalistica appare – se non circonfusa di un’aura di romantica nostalgia, come sostiene la Jaeggi – come la “vittima innocente” dell’aggressione capitalista. Viceversa Fraser insiste sul fatto che lo Stato, il potere politico, gioca un ruolo determinante nella grande mutazione: l’economia di mercato non è concepibile senza lo Stato, il quale costruisce le premesse giuridiche che ne consentono la nascita e la riproduzione. E ancora: il discorso di Polanyi dice poco in merito ad altri due aspetti della mutazione: la rottura dei tradizionali dispositivi della riproduzione sociale (strutture famigliari e relazioni di genere) e quella degli equilibri fra umanità e ambiente naturale: se prima i ritmi della vita sociale si adattavano a quelli della natura non umana, oggi questa relazione si è invertita.

Con il concetto di ordine sociale istituzionalizzato, Nancy Fraser intende esattamente questo: non esiste un rapporto fra struttura economica e sovrastruttura culturale, ma piuttosto il rapporto fra un “piano” economico – il marxiano modo di produzione – e uno “sfondo” non economico, costituito dalla triade potere politico, meccanismi riproduttivi e risorse naturali. Ma soprattutto il mercato non può esistere senza questo “sfondo” fatto di relazioni sociali non mercatizzate. O meglio: è più corretto dire che il mercato capitalistico non può esistere senza tale sfondo, dal momento che, in sintonia con Polanyi, Fraser sostiene che capitalismo e mercato non sono identici: il mercato esisteva prima del capitalismo e presumibilmente esisterà anche dopo la sua fine, per esempio nella forma di un socialismo di mercato la cui possibilità, secondo Fraser, si fonderebbe sulla distinzione fra funzione distributiva e funzione allocativa del mercato (la prima legata a salari, profitti e rendite, la seconda all’allocazione delle risorse nell’ambito di una pianificazione sociale della produzione).

Ma torniamo all’ordine sociale istituzionalizzato e alla metafora del rapporto fra piano del mercato capitalistico e sfondo delle relazioni sociali non mercatizzate. Al di là del modo in cui lo presenta Fraser, il concetto non è inedito: basti pensare alle tesi della Luxemburg sull’accumulazione del capitale o a quelle dei teorici della dipendenza e della relazione centro-periferia, i quali vedono nell’intreccio fra sviluppo delle metropoli e sottosviluppo delle periferie la condizione di esistenza del capitalismo nella sua fase monopolistica. Tuttavia Fraser introduce un elemento fortemente innovativo: le crisi capitalistiche, sostiene, non possono essere spiegate esclusivamente in relazione alle contraddizioni immanenti al sistema economico, al modo di produzione (anche se riconosce che la lezione di Marx su questi meccanismi resta valida): esse si determinano anche e soprattutto “ai confini” fra il mercato capitalistico e lo sfondo delle relazioni sociali non mercatizzate, sono, cioè, anche crisi del rapporto fra sistema produttivo e sistema riproduttivo, fra sistema economico e sistema politico e fra sistema economico e sistemi naturali. Finché si resta nell’ambito delle crisi puramente economiche, le contraddizioni possono essere ricomposte, ma se e quando tutte queste tensioni si sovrappongono, siamo di fronte a una crisi sistemica.

Un esempio di questa sovrapposizione lo troviamo nel concetto di “accumulazione per spoliazione” coniato da David Harvey[iii], che Fraser cita a più riprese. Il concetto si riferisce al fatto che la cosiddetta accumulazione primitiva, la fase aurorale del capitalismo descritta da Marx ed Engels, nella quale il capitale si accresce attraverso il saccheggio di risorse create dai modi di produzione e dalle culture precapitalistiche più che attraverso la produzione di plusvalore (per esem
pio attraverso la pratica delle enclosure dei terreni comuniali), si perpetua attraversando tutte le fasi dello sviluppo capitalistico: dal saccheggio coloniale otto-novecentesco all’era attuale del capitalismo globale finanziarizzato in cui assume la forma della mercatizzazione neoliberista di servizi pubblici e relazioni sociali. Ma Fraser si spinge oltre, avanzando la tesi secondo cui i quattro grandi regimi storici di accumulazione – mercantile, liberale, monopolistico a gestione statale, e finanziarizzato globale – si differenziano in primo luogo in relazione alle modalità con cui il “primo piano” dell’economia si connette con lo “sfondo” degli altri sistemi (politico, riproduttivo e ambientale).

In particolare, Fraser descrive il modo in cui, nei vari regimi di accumulazione, il capitalismo ha attinto alle risorse generate dal sistema non mercatizzato della riproduzione sociale passando, rispettivamente, dalla non interferenza nei confronti delle tradizionali relazioni famigliari della prima fase, alla “classica” divisione dei ruoli di genere della fase ottocentesca, alla sua evoluzione nella fase welfarista, per finire con l’esplosione della famiglia nell’attuale fase neoliberista. Quest’ultima, essendo caratterizzata, fra le altre cose, dalla distruzione delle istituzioni del welfare, dall’accesso massivo delle donne al lavoro e dall’aumento vertiginoso dei single, fa sì che il capitalismo metta in crisi la sua stessa possibilità di attingere al lavoro riproduttivo gratuito, in precedenza garantito dalla divisione dei ruoli di genere (prima nella forma tradizionale, poi in quella della famiglia borghese). Per far fronte al problema nascono le cosiddette “catene di assistenza globale”, cioè quel dispositivo tramite il quale il lavoro riproduttivo viene scaricato sui migranti – perlopiù donne povere – che a loro volta scaricano la propria gestione famigliare nelle mani di altre donne ancora più povere, ecc. Tuttavia nemmeno questa mercificazione del lavoro riproduttivo riesce a sanare le contraddizioni crescenti che nascono al confine fra la sfera produttiva e quella riproduttiva. Erodendo le condizioni delle relazioni sociali di riproduzione, argomenta Fraser, il capitalismo sega il ramo su cui è seduto, una metafora che vale anche per le altre tensioni di confine: dai disastri ambientali provocati dallo sfruttamento selvaggio di risorse naturali trattate come inesauribili, alle crisi politiche innescate dalla progressiva sottrazione dei beni comuni alla gestione dello Stato.

È in particolare su questi temi che emergono le differenze di impostazione fra Fraser e Jagger: quest’ultima addebita infatti alle tesi di Polanyi – e quindi, implicitamente, anche alla Fraser – il rischio di nutrire nostalgie “romantiche” per le relazioni comunitarie di tipo precapitalistico – nostalgie alle quali oppone il ruolo emancipativo di una società capitalista cui va riconosciuto il merito di avere “liberato”, sia pure al prezzo di sgradevoli effetti collaterali, l’individuo dai vincoli repressivi delle società tradizionali. In questo senso, la sua visione è vicina al classico giudizio di Marx sul ruolo “rivoluzionario” del modo di produzione capitalistico. Del resto, il suo sforzo di andare oltre Marx si muove nella direzione di definire in termini ancora più stringenti il carattere immanente delle contraddizioni della società capitalistica. Al concetto di ordine sociale istituzionalizzato della Fraser, Jaeggi preferisce infatti quello di “forma di vita”, con il quale intende, foucaultianamente, l’integrazione senza residui fra gli ordini sistemici che Fraser concettualizza con i termini di primo piano e sfondo, per cui nessuna relazione sociale sarebbe in grado di sfuggire alla colonizzazione totale da parte del capitale, negando la possibilità che alcunché possa esistere “fuori” da quest’ultimo. Per Jaeggi, insomma, il mercato capitalistico modella senza residui le nostre vite e le nostre visioni del mondo.

Il modo in cui Fraser risponde a queste osservazioni non è privo di ambiguità. Da un lato, replica sostenendo che nemmeno il suo concetto di ordine sociale istituzionalizzato implica l’esistenza di sistemi “esterni” alle relazioni di tipo capitalistico, nella misura in cui queste ultime costruiscono una specifica organizzazione della riproduzione sociale, una specifica organizzazione del potere politico, e una specifica organizzazione ecologica. Dall’altro lato, nel momento in cui articola sul piano politico le tensioni fra primo piano e sfondo, tentando di collegare le lotte di classe e le “lotte di confine” innescate dalle resistenze delle relazioni sociali non mercatizzate all’aggressione capitalistica, si intuisce come attribuisca a queste ultime margini di autonomia ben più ampi di quelli ammessi da Jaeggi. La tesi della colonizzazione totale delle relazioni sociali da parte dell’economia, argomenta, confonde la narrazione neoliberista con la realtà e, di fatto, nega qualsiasi concreta possibilità di contrastare l’egemonia del capitale. Viceversa, chi si proponga di definire le condizioni di una possibile opposizione alle relazioni di dominio esistenti, le dovrebbe rintracciare nell’articolazione fra conflitti di classe e conflitti di confine (fra generi, fra esseri umani e natura non umana, fra sistema economico e sistema politico), o, per dirlo con altre parole, fra lotte per la ridistribuzione e lotte per il riconoscimento.

Quanto appena affermato, tuttavia, comporta necessariamente l’estensione del concetto di classe oltre i limiti fissati dalla definizione classica che ne dà la teoria marxista. Ma attribuire alle lotte dei movimenti indigeni, e/o di quelli femministi e ambientalisti, un carattere di classe nella misura in cui esprimono, o almeno possono esprimere, un potenziale antagonista nei confronti delle varie forme di dominio incorporate nel capitalismo inteso come ordine sociale istituzionalizzato[iv], implica inventare una forma politica che sia in grado di unificare tutte queste lotte che non si armonizzano fra loro spontaneamente, né tantomeno automaticamente. È per queste ragioni che Fraser, da un lato, critica le visioni neoanarchiche che rifiutano qualsiasi forma di direzione e organizzazione politica, dall’altro lato spezza una lancia a favore dei vari tentativi – come quelli di Sanders negli Stati Uniti o di Podemos in Spagna – di dare vita a una variante di populismo progressista, capace di costruire un blocco sociale che unifichi le domande di emancipazione con le domande di protezione sociale. E questo è un altro punto su cui le divergenze fra i punti di vista delle due autrici emergono con chiarezza. Jaeggi insiste infatti in più occasioni sul fatto non tutte le reazioni soggettive alle contraddizioni generate dal sistema sono progressiste; di più: sottolinea come la maggior parte del sentimento anticapitalista che oggi si incarna nei populismi non è di sinistra e, di conseguenza (coerentemente con il suo giudizio positivo in merito agli elementi emancipatori contenuti nella società capitalista), giustifica le scelte “frontiste” delle sinistre socialdemocratiche e radicali che stringono alleanze con l’ala liberale progressista contro il populismo di destra.

Replicando a queste obiezioni, mi pare che la Fraser dia il meglio di sé, offrendo un decisivo contributo alla comprensione dell’attuale fase politica mondiale. Fenomeni come il voto proletario per Donald Trump o per la Brexit[v], afferma, rappresentano un vero e proprio referendum contro il neoliberismo progressista, e le sinistre socialdemocr
atiche e radicali che liquidano queste scelte popolari con un tono di sprezzante superiorità morale (definendole fasciste, sessiste, xenofobe e via etichettando) dimostrano di non avere compreso i motivi che determinano questo spostamento a destra del voto popolare. Del resto, questa incomprensione ha radici lontane dato che i movimenti postsessantottini, come argomentano Boltanski e Chiapello[vi] (ai quali Fraser fa più volte riferimento), hanno ben presto deposto ogni interesse nei confronti delle lotte per i diritti sociali, e delle richieste di protezione e sicurezza delle classi subalterne e dai ceti medi massacrati dalla globalizzazione capitalistica, per concentrare la propria attenzione esclusivamente sulle richieste di riconoscimento delle minoranze Lgbt, delle classi medie urbane, dei lavoratori della conoscenza e altri strati emergenti. In particolare, Fraser riprende qui quanto già scritto in precedenti lavori[vii] a proposito dell’evoluzione di un movimento femminista che ha progressivamente abbandonato l’originaria vocazione anticapitalista, trasformandosi nell’attuale femminismo lean in, vale a dire in quelle correnti femministe, oggi maggioritarie (almeno nei Paesi occidentali), che incarnano gli interessi di mobilità sociale e di carriera delle donne bianche appartenenti agli strati sociali medio alti[viii]. Questi movimenti, scrive Fraser, sempre sull’onda delle argomentazioni di Boltanski e Chiapello, a partire almeno dagli anni Novanta, hanno stretto di fatto un’alleanza “innaturale” con il liberalismo, al quale offrono una potente legittimazione ideologica, anche attraverso l’elaborazione dei canoni linguistici del politically correct. Perciò allearsi con loro contro il populismo di destra rappresenterebbe, per le forze che oggi stanno faticosamente cercando di dar vita a un’alternativa populista di sinistra, un suicidio politico paragonabile a quello delle sinistre tradizionali, le quali, scegliendoli quali interlocutori privilegiati hanno creato, scrive Fraser parafrasando Marx, i propri becchini[ix].

La mia riflessione su questo importante lavoro potrebbe fermarsi qui, anche se moltissimi aspetti che meriterebbero di venire discussi sono rimasti fuori per motivi di spazio. Tuttavia, prima di concludere, vorrei abbozzare un breve approfondimento alla contraddizione evidenziata in alcuni passaggi precedenti: difendendosi delle accuse della Jaeggi, che le attribuisce, come si è visto, inclinazioni “nostalgiche” nei confronti delle relazioni sociali precapitalistiche, che sarebbero certificate dal fatto che attribuisce un eccesso di autonomia alle relazioni sociali non mercatizzate, Fraser risponde che nemmeno lei pensa che nulla possa oggi esistere “fuori” dal sistema capitalistico, il quale sovradetermina i meccanismi di funzionamento di queste relazioni “esterne”. Ebbene, anche se in Fraser questa visione olistica, totalizzante del sistema neoliberale è meno radicale che in Jaeggi, a mio avviso rischia ugualmente di ridurre le prospettive di superamento di tale sistema: tutto resta infatti chiuso in un circolo di immanenza – in cui si riconoscono evidenti ascendenze hegeliane – che impedisce concrete possibilità di rottura.
Faccio un esempio: a un certo punto Jaeggi chiede provocatoriamente a Fraser se, dato che sostiene che il capitalismo progressista ha introiettato le istanze del femminismo e di altri movimenti, ciò significa che ci troveremo prima o poi di fronte a un capitalismo postsessista e postrazzista. Fraser risponde, con un certo imbarazzo, che sebbene ciò non possa essere escluso in astratto, sarebbe in concreto difficile se non impossibile, in quanto conflitto di genere e conflitto razziale sono “integrati” nell’ordine sociale istituzionalizzato. Ora, visto che basta leggere la cronaca quotidiana per verificare in quale misura le élite dominanti abbiano già fatto propria, senza se e senza ma, la cultura e i valori del politicamente corretto, è evidente come questa visione di un sistema integrato impedisca di trarre tutte le conseguenze politiche di quelli che la stessa Fraser definisce conflitti di frontiera: senza una effettiva – ancorché parziale – autonomia dello “sfondo” (e in particolare senza una effettiva autonomia del politico) non si dà antagonismo. Non ho qui tempo né modo di approfondire questo nodo teorico, per cui mi limito a rilevare che la lodevole intenzione delle autrici di “andare oltre Marx” viene messa in atto solo parzialmente e, per citare un provocatorio tentativo di fare qualche passo in più in tale direzione, mi permetto di rinviare al dialogo fra Onofrio Romano e chi scrive, pubblicato da DeriveApprodi con il titolo Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare.[x]
NOTE

[i] Sia Fraser che Jaeggi pensano che gender theory, post strutturalismo e post colonialismo abbiano il merito di avere spostato il fuoco dell’attenzione critica dalle contraddizioni economiche ai conflitti di genere, culturali e dalle lotte per la ridistribuzione alle lotte per il riconoscimento. Tuttavia mentre Jaeggi si limita a riaffermare la necessità di un riequilibrio che crei le condizioni dell’unificazione fra i due momenti, Fraser è molto più caustica nel criticare l’esito politico della svolta epistemologica in questione, nel senso che pensa che i movimenti fondati esclusivamente sulle istanze di riconoscimento abbiano finito per allearsi di fatto con il sistema neoliberista, disconoscendo totalmente le domande di ridistribuzione economica e sicurezza sociale.

[ii] Cfr. C. Polanyi, La grande trasformazione. Le origine economiche e politiche della nostra era, Einaudi, Torino 1974.

[iii] Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2018. Vedi anche, dello stesso autore, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano 2018.

[iv] Un contributo fondamentale all’allargamento del concetto di classe viene dall’ex vicepresidente boliviano (ora in esilio dopo il golpe di destra) Alvaro G. Linera, il quale, analizzando le lotte delle comunità dei campesindios andini, argomenta che certe forme sociali precapitalistiche, nella misura in cui vengono investite dai tentativi di colonizzazione del mercato capitalistico e si organizzano per resistervi politicamente, sono a tutti gli effetti parte di un blocco di classe antagonistico anticapitalista. Cfr. in particolare quanto scrive in Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños; Quito 2015.

[v] Una drammatica conferma dell’incapacità delle sinistre di comprendere la natura di classe del voto inglese per la Brexit viene dalla disfatta del Labour nelle ultime elezioni. Corbyn, che pure aveva presentato un programma avanzatissimo sul piano dei diritti sociali, e che personalmente ha sempre oscillato verso una scelta pro Brexit, nell’occasione ha mantenuto una posizione ambigua per compiacere la destra blairiana e i radicali di sinistra liberal. Risultato: le regioni operaie colpite dai processi di deindustrializzazione (l’equivalente della rust belt americana che ha sostenuto Trump) hanno votato compatte per il conservatore Boris Johnson.

[vi] Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

[vii] Cfr. La fine della cura. Le contraddizioni del capitalismo contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2017.

[viii] In un mio libro sulla rivoluzione ecuadoriana (Magia bianca magia nera. Ecuador. La guerra fra culture come guerra di classe, Jaka Book, Milano 2014) ho segnalato le dure polemiche delle femministe latinoamericane vicine ai movimenti indigeni nei confronti del “femminismo señorial” delle militanti bianche e creole. Un drammatico esempio del carattere reazionario del femminismo lean in nei Paesi andini ci è stato offerto dalla posizione che alcune sue esponenti boliviane hanno assunto nei confronti del golpe di destra contro il governo di Evo Morales, affermando che questo scontro fra “machisti” non le riguardava (e questo mentre centinaia di donne indie che manifestavano contro il golpe venivano uccise, ferite e arrestate).

[ix] La Fraser si riferisce qui al detto di Marx secondo cui estendendo la classe operaia il capitale genera i suoi becchini. Ho a mia volta parafrasato questa citazione nella Postfazione all’edizione italiana di un libro di Linera di prossima pubblicazione, scrivendo che le politiche economiche dei governi bolivariani, nella misura in cui hanno ampliato il peso delle classi medie, hanno creato i loro becchini, in quanto quest’ultime, ancorché premiate dalle loro politiche, alla prima occasione si sono schierate con le destre.

[x] Nel dialogo citato, gli autori non criticano solo l’economicismo della teoria marxista (l’opposizione struttura/sovrastruttura; l’idea che sia lo sviluppo delle forze produttive a creare le condizioni della rivoluzione; l’idea che una volta superato il capitalismo non esisteranno più conflitti sociali, ecc.) critiche che, come si è visto, sono condivise dalle autrici di Capitalism, ma mettono in discussione anche l’idea che la storia contenga una necessità immanente che la spinge verso il progresso, con il relativo corredo di storicismo, universalismo ed eurocentrismo, laddove le posizioni di Fraser, e soprattutto quelle di Jaeggi, su questi punti appaiono quanto meno ambigue.

(17 dicembre 2019)





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