Il cupo scenario dell’Europa-Fortezza, la mimèsi del passato più turpe

Annamaria Rivera

Il 3 ottobre scorso si è commemorato il secondo anniversario della strage di Lampedusa, una delle più gravi nella storia degli esodi attraverso il Mediterraneo: almeno 368 morti annegati, in massima parte eritrei in fuga dalla feroce dittatura di Isaias Afewerki. A quell’eccidio seguì un corale quanto retorico “Mai più”, tradito appena otto giorni dopo. L’11 ottobre successivo, infatti, non meno di 268 persone di nazionalità siriana, tra le quali molti bambini, morirono a sessanta miglia a Sud di Lampedusa, per il mancato soccorso delle autorità italiane.

Già allora la commozione non fu affatto pari a quella di otto giorni prima e più fievole sarebbe stata in occasione delle stragi ulteriori, ancor più gravi di quella di Lampedusa: quest’anno, tra il 14 e il 18 aprile, almeno 1.200 migranti diretti verso le coste italiane sono morti in due distinti naufragi, il secondo dei quali è considerato la più grave sciagura del mare nel dopoguerra.

Insomma, nel corso del tempo le stragi di migranti e profughi si sono moltiplicate con ritmo incalzante e progressione geometrica: la Fortezza Europa ha fatto quasi trentamila vittime negli ultimi quindici anni e almeno tremila nel breve periodo che va da gennaio a oggi. Quantité négligeable, di cui neppure si sa calcolare il numero esatto. In certi casi, deliberatamente, le salme non vengono recuperate; oppure non possono essere contate, ridotte come sono a ‘poltiglia di cadaveri’: mi riferisco ai settanta fuggitivi, o forse più, trovati a fine agosto scorso, morti asfissiati, in un camion abbandonato lungo l’autostrada A4, tra il Burgenland Neusiedl e Parndorf.

Rispetto a due anni fa è subentrata non solo “assuefazione”, come si dice banalmente. In realtà, ristagna in Europa una certa aria di negazionismo, a rendere ancor più cupo uno scenario in cui si moltiplicano confini corazzati, vagoni blindati, campi d’internamento, deportazioni, violenze poliziesche contro inermi. Per suscitare pietas ormai non bastano più neanche le immagini atroci di cadaveri d’infanti uccisi dal proibizionismo.

Certo, vi sono anche tendenze opposte: in Austria, in Germania, in Croazia e altrove in Europa, migliaia di volontari e attivisti garantiscono ai profughi conforto, assistenza, solidarietà concreta. In molti casi sfidando la legge, ne organizzano anche la fuga tra confini più o meno sorvegliati o blindati. Ma a quest’ampio movimento solidale fa da contraltare un’opinione pubblica che nega o minimizza lo sterminio dei nuovi reietti, oppure ne allontana il pensiero come fosse una zanzara molesta.

Basta ascoltare le chiacchiere di persone comuni o leggere le chiose ad articoli di giornali online. Esemplari, per putrido cinismo, i commenti alla notizia riportata dall’Ansa, il 21 settembre passato, dell’ennesimo naufragio al largo della Grecia e della morte conseguente di una bimba siriana di cinque anni. Si va dalle lodi di Orbán al “Se ne poteva restare a casa sua”, fino a un terribile “Morto fulminato nel tunnel? Se l’è cercata, poche storie”, a proposito di un siriano folgorato all’imbocco del tunnel della Manica: uno dei tanti che perdono la vita lì, uccisi dalle ruote ferrate o dall’alta tensione.

Non c’è solo il negazionismo a comporre quella che in un articolo precedente ho definito semiotica del genocidio.
Per coglierne un altro segno, basta soffermarsi sull’istantanea, divulgata dai media a settembre scorso, che fissa una folla di donne e bambini assiepata dietro il reticolato del “muro della vergogna”, al confine tra l’Ungheria e la Serbia. A rendere l’immagine ancor più insostenibile, in prima fila ci sono alcuni bambini che, stretti contro la barriera, le volute di filo spinato incombenti sulle loro teste, stringono tra le mani dei peluche ricevuti in dono da qualche anima buona.

Altrettanto intollerabile è l’idea che più tardi almeno quattro bambini, perduti dai genitori il 16 settembre a Horgos durante le cariche brutali della polizia ungherese, sarebbero stati trattenuti per essere affidati a “strutture specializzate”. Ricordo che in quella occasione la polizia aveva fatto uso di cannoni ad acqua, lacrimogeni, proiettili al sale, anche contro donne e minori, e poi arrestato un buon numero di profughi.

La crudeltà anche verso i fanciulli non è la sola traccia a indicare l’allarmante mimèsi di un turpe passato che, evidentemente, non è passato affatto poiché mai elaborato e trasceso. Un passato che anzi, come ha scritto recentemente Barbara Spinelli, “si banalizza e rivive” grazie al “patto dell’oblio” che vige, di fatto, nell’Unione Europea.

Il 23 settembre degli attivisti ungheresi denunciano all’Ansa che a Zakany, vicino al confine tra Ungheria e Croazia, centinaia di migranti sono stati caricati su carri-merci chiusi, senz’acqua né cibo, per essere trasferiti verso il confine austriaco.

Non è la prima volta che le autorità magiare compiono, senza alcun pudore, atti che ricordano la deportazione degli stessi ebrei ungheresi nel 1944. Infatti, già nel luglio scorso, a un treno che partiva da Pecs diretto a Budapest era stato aggiunto un vagone-merci chiuso, stipato di profughi, perlopiù siriani e afghani, donne e bambini compresi. “Questo vagone viaggia con le porte chiuse”, avvertiva un cartello appeso a un finestrino.
Per parafrasare Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo, 1951), ogni infamia è consentita pur di ridurre il fardello degli indesiderabili.

Scene di tal genere sono destinate a moltiplicarsi dopo che il più recente vertice dei leader dell’Unione Europea ha approvato un pacchetto che ripropone “una strategia fallimentare”, per citare il giudizio di Amnesty International: nessuna misura a garantire percorsi sicuri e legali per i rifugiati, nessuna per riformare il sistema di asilo europeo. Tutto quel che si è deciso va nella direzione opposta: controlli più ferrei delle frontiere; strategie di esternalizzazione per tenere migranti e profughi fuori dal territorio europeo; rigida distinzione tra migranti “economici” e profughi, a loro volta discriminati secondo la nazionalità. E ciò in barba al principio, sancito dalla Convenzione di Ginevra e dalla nostra stessa Costituzione, per il quale il diritto alla protezione internazionale riguarda chiunque abbia fondato motivo per temere d’essere perseguitato nel Paese d’origine.

Si aggiunga il lancio della seconda fase della missione
navale EunavForMed contro gli “scafisti”, che prevede l’abbordaggio e l’affondamento in mare aperto dei “barconi” dei profughi, in realtà sempre più spesso null’altro che gommoni auto-governati. In assenza di corridoi umanitari e di operazioni efficaci per il salvataggio in mare –dopo che quella di Mare Nostrum è stata chiusa in favore di Frontex, il cui scopo precipuo è il contrasto dell’immigrazione “clandestina”–, una tal missione si configura come atto di guerra contro la moltitudine in fuga.

Altrettanto perversa è l’istituzione degli hotspots, finalizzati a identificare, registrare e foto-segnalare i migranti, con lo scopo, in definitiva, d’incrementare i rimpatri. Cosa che entusiasma il nostro Matteo Renzi: non possiamo mica “aver paura del concetto di rimpatrio”, ché questo sarebbe “buonismo”, ha dichiarato di recente in una prosa sgangherata quanto il suo pensiero politico.

E’ giusto l’isola di Lampedusa che, invece di ricevere il Nobel per la pace, ha il ‘privilegio’ di ospitare il primo hotspot. Chi si rifiuterà di farsi identificare finirà in centri d’internamento e, in Italia, nei Cie: strutture sigillate da più ordini di sbarre, la cui routine è costellata da pestaggi e altre violenze delle forze dell’ordine, da conseguenti proteste degli internati fino a gravi atti d’autolesionismo, da insufficienza di cibo e di assistenza medica, dalla totale assenza di strumenti (dai televisori alle biblioteche) per riempire il vuoto angoscioso della prigionia.

Come negli anni di cui parlava Hannah Arendt, il campo d’internamento, qualunque sia oggi la sigla con cui è nominato, torna a essere “la soluzione corrente del problema della residenza delle displaced persons”. Fra le quali numerose sono attualmente le persone con figli: dunque, anche i bambini finirebbero nei Cie se i loro genitori rifiutassero d’essere identificati? O saranno anch’essi affidati a “strutture specializzate”?

Insomma, “gli espulsi dalla vecchia trinità Stato-popolo-territorio” (Arendt) approdano, paradossalmente, in un mondo disseminato di muri e barriere di filo spinato, ove risorgono nazionalismi aggressivi, ove a difesa del proprio territorio si arriva a schierare gli eserciti, ove si compete per respingere il massimo possibile di migranti verso il territorio del confederato più vicino.

I nazionalismi, a loro volta, sono il prodotto secondario del sovra-nazionalismo armato a difesa delle frontiere, praticato pervicacemente dall’Unione Europea. E’ dunque sul versante delle migrazioni e degli esodi che oggi si decide del destino dell’Europa unita, che nel dopoguerra fu progettata proprio per sconfiggere il nazionalismo, la crisi economica, il colonialismo: i tre grandi mali che avevano prodotto il fascismo, per citare ancora Barbara Spinelli. Nonostante la controtendenza rappresentata dal vasto movimento di solidarietà attiva, le prove date finora dalle autorità nazionali e comunitarie, la fragilità delle istituzioni dell’Unione Europea, la mediocrità delle élite dirigenti non inducono affatto all’ottimismo.

Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata dal manifesto il 3 ottobre 2015.

(5 ottobre 2015)



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