Il film della settimana: “Invictus – L’invincibile” di Clint Eastwood

Giona A. Nazzaro

INVICTUS – L’INVINCIBILE di Clint Eastwood. Con Morgan Freeman e Matt Damon (USA, 2009)
Da venerdì 26 febbraio nelle sale

Da Howard Hawks passando per Robert Aldrich, la metafora sportiva è un elemento centrale del cinema americano. Campo sul quale si celebra la ricerca della felicità del mondo nuovo, dove tutti gli individui sono uguali dinnanzi alla legge e dove si vince rispettando le regole del giocare comune, lo sport nel cinema americano non è solo lo sport. È qualcosa di più alto e nobile: il cuore di una nazione che nasce dallo spirito della competizione. Segno di un rooseveltismo indomito, la competizione sportiva è l’agorà dove si cantano le sorti di una nazione. Dove il racconto delle imprese dei singoli e delle squadre diventa patrimonio collettivo. Mitologia. Persino Don De Lillo tende il suo magnifico Underworld nella traiettoria infinita di una palla da baseball dalla quale discende una teoria inesauribile di storie.

Nel cinema di Clint Eastwood, l’ultimo narratore fordiano del cinema statunitense, lo sport è il luogo-narrazione di un processo incompiuto. Lontano dalle utopie di Frank Capra, Clint tende alle asperità di Aldrich, all’essenzialità di Hawks. Senza l’irrisione feroce del primo, senza la pura tensione meccanica del secondo.

Mai prima d’ora la messinscena di una competizione era stata più lirica, libera e alta nel cinema eastwoodiano. Sempre rigorosamente alle prese con quanto significa (ri)costruire il grande paese americano oggi, Eastwood, da ferreo e saggio repubblicano quale è, celebra Obama in terra straniera. È questo il suo film del New Deal. Nel Sudafrica che torna a riveder le stelle con Nelson Mandela, lasciandosi alle spalle l’infamia dell’apartheid.

A differenza di Million Dollar Baby dove una fanciulla accoglieva sul proprio corpo cristico i percorsi interrotti di un paese, lasciando Clint sprofondato nella notte della Storia a conversare con i fantasmi in un bar dimenticato da Dio e dagli uomini, Invictus – L’invincibile mette in scena i percorsi attraverso i quali un corpo (sociale, politico) diventa il corpo comune della nazione. Non c’è (più) un corpo da sacrificare. Ma un paese da guarire.

Lo spettacolo dello sport esteriorizza questo processo di guarigione. Lo scontro sul campo diventa il segno dello scontro in seno alla società. Tra gruppi separati etnicamente, tra colori e voci, tra sogni e speranze, rancori e rivalse, paure e odio.

La squadra verde-oro fatica a ingranare. È rigida, si muove legnosa e subisce. Mandela capisce che è proprio lì, in quei colori odiati, che bisogna attivare il processo di guarigione. Un processo collettivo. Si guarisce insieme o non si guarisce affatto. Una vera e propria cromoterapia agonistica. Quei colori devono diventare di tutti. Il patrimonio di un nuovo popolo. E non si tratta di resa. Si tratta dell’obiettivo più ambizioso. Del processo più difficile. E mentre il lavoro di Mandela sembra prestare il fianco alla retorica più trita, il cinema di Eastwood vola altissimo lì dove osano le aquile. Il suo film diventa invisibile. Nessun effetto di regia. Nessun virtuosismo. Clint gioca la palla a terra. E bisogna tenere gli occhi ben saldi sul pallone per capire come si muove il suo film. Il mondo non è il pallone. Guarda caso il pallone sta per il mondo e inevitabilmente, come dimostra il montaggio parallelo dell’ultima partita, bisogna rimetterlo insieme. Bisogna tornare a camminare nelle strade dove camminano tutti. È questa la vera “pursuit of happiness”.

Invictus – L’invincibile inizia con un movimento di macchina esemplare. Un dolly vola attraverso un campo di rugby, il gioco dei bianchi, passa sopra la strada nella quale scorrono le automobili che riportano Mandela a casa, terminando in uno sterrato dove ragazzi sudafricani giocano a pallone a piedi nudi.

Un solo movimento di macchina anticipa il lavoro politico che dovrà fare Mandela per riunire le due parti di un’unica realtà. E questo movimento è quello della riconciliazione. Non conciliato per vocazione, con uno scatto commovente per quanto è lucido politicamente, Clint ha smesso di credere che solo la violenza aiuta dove regna la violenza. Non è più tempo di Spietati. Né di Callaghan. Kowalski è morto anche per noi. E come in Gran Torino, anche in Invictus – L’invincibile una macchina viene affidata a un nuovo guidatore.

Con la lucidità che è solo dei più grandi, Eastwood non solo realizza uno dei suoi migliori film di sempre – ma lo avevamo già ripetuto all’altezza di Gran Torino per cui si ripropone il quesito: come fa quest’uomo a firmare solo capolavori ? – ma porta ancor più avanti il suo cinema. Tanto più diventa raffinato il pensiero di Clint, quanto più il suo cinema diventa audace e sperimentale. La partita finale dovrebbe essere analizzata già da domani nelle scuole di cinema di tutto il mondo. Con un cuore analogico che pompa emozione e sudore a 24 fotogrammi al secondo, Clint supera l’immensa lezione di Aldrich filmando orizzontalmente passaggi e scontri, collisioni e sangue. Lui sta in mezzo al campo, non in cabina di montaggio a inseguire lo sguardo distratto di downloader selvaggi videodipendenti. Il cinema si fa così. E il suo cinema è sempre Invictus.

Jean-Marie Straub è solito affermare che sbagliare inquadratura per un regista è come sbagliare politica per un… politico. Bene: Clint non sbaglia mai. Quindi, Clint non solo è un regista che ormai sfida i superlativi adoranti, ma anche il politico più saggio della sua generazione.

E nel sorriso del trionfo di Mandela si riflette non il volontarismo dell’utopia che ha sempre il respiro corto, ma la soddisfazione di un lavoro ben fatto. A good job.

Come se Clint Eastwood fosse riuscito a portare sul campo da gioco Franky Roosevelt e Barack Obama nel segno di John Ford.

(24 febbraio 2010)

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