I CLASSICI DI MICROMEGA: ‘Il Nipote di Rameau’ di Denis Diderot presentato da Paolo Quintili

Paolo Quintili


Due personaggi, un Io filosofo e un Lui, musicista fallito, Jean-François Rameau, omonimo nipote del grande compositore francese Jean-Philippe, s’incontrano ai giardini del Palais Royal. Siamo alla metà del Settecento. Le due vecchie conoscenze si ritrovano poi al Caffè della Reggenza, a vedere giocare a scacchi. L’Io è solito andare a passeggio, il pomeriggio, in quei giardini per «abbandonare il mio spirito a tutto il suo libertinaggio. […] I miei pensieri sono le mie puttane»[1]. Dall’incontro nasce uno dei dialoghi filosofici più brillanti della storia del pensiero occidentale dopo i dialoghi di Platone. Si tratta della natura umana e della natura del genio musicale, dell’alienazione e dell’impero del denaro, delle ineguaglianze e dei reietti della società, della virtù e del vizio morale, in una parola: della felicità in questo (sporco) mondo.

1. La storia del Nipote di Rameau

Il testo del dialogo ha conosciuto delle vicissitudini tra le più complesse e bizzarre della storia letteraria, al punto che Maurice Tourneux, editore ottocentesco della prima edizione critica delle Opere (1775-1778) di Diderot, lo definì un «romanzo bibliografico», per evocare la straordinaria avventura dell’opera.

Scritto intorno ai primi anni ’70 del secolo XVIII, concepito verosimilmente già nel 1761, rimasto a lungo nel cassetto, il dialogo non è mai stato pubblicato durante la vita del filosofo. Un esemplare manoscritto dovette arrivare in Russia, dove forse Diderot lo completò, durante il lungo viaggio che lo portò alla corte di Caterina II (1773-1774). L’amico e discepolo di Diderot, Jacques-André Naigeon, legatario testamentario del filosofo, era a conoscenza del testo ma non ne diede pubblicazione nella sua edizione «rivoluzionaria» delle Œuvres de Denis Diderot del 1798. Qualche altra copia manoscritta nondimeno restò in Francia, al coperto della clandestinità, preparata dallo stesso Diderot.

Agli inizi del nuovo secolo un amico russo del grande poeta tedesco Friedrich Schiller, Maximilian Klinger, ammiratore di Diderot e vicino agli ambienti dell’Imperatrice, dopo la morte di questa (1796) acquisisce clandestinamente una copia del manoscritto, appartenente alla biblioteca che Diderot le aveva lasciato in eredità, lo invia al cognato di Schiller, il quale a sua volta lo fa conoscere a Goethe. Entusiasta della scoperta, Goethe ne fornisce finalmente una traduzione tedesca (Rameau’s Neffe) che pubblica a Lipsia nel 1805. Così ne parla il poeta: «Alla fine dell’anno 1804, Schiller mi disse in confidenza che aveva per le mani un manoscritto di Diderot, un dialogo intitolato: il Nipote di Rameau, ancora inedito e sconosciuto. Il signor Göschen era disposto a darlo alle stampe, ma desiderava pubblicarne prima una traduzione tedesca, al fine di eccitare più vivamente l’attenzione. Mi venne proposto questo lavoro e siccome da gran tempo professavo una grande stima per l’autore accettai volentieri, dopo aver scorso l’originale. Si riconoscerà, spero, dal mio lavoro, che mi ci sono dedicato con tutta l’anima. La pubblicazione si fece, ma produsse decisamente poco effetto sul pubblico tedesco. Le congiunture della guerra [con la Francia napoleonica n.d.t.] diffondevano ovunque l’inquietudine, la pubblicazione dell’originale diventava dunque, a seguito dell’invasione francese, inopportuna e persino impraticabile. L’odio sollevato contro i Francesi e la lingua francese, la lunga durata di un periodo lugubre, impedirono la realizzazione di questo progetto. Schiller ci lasciò e io non so dove fosse andato a finire il manoscritto che avevo restituito»[2]. Il manoscritto potrebbe addirittura essere passato per le mani di Hegel, che cita lungamente Il Nipote di Rameau nella Fenomenologia dello spirito (1807), ma non dalla traduzione di Goethe, bensì in una versione tedesca del testo ancora diversa, il che lascerebbe pensare che si sia avvalso anche lui, di prima mano, del manoscritto francese[3].

Quel manoscritto, copia di una copia, in effetti andò smarrito e nel 1821 due avventurieri della République des Lettres, Joseph-Henri de Saur (?-1848) e Léonce de Saint-Geniès (1785-1861), pubblicarono a Parigi una ritraduzione della traduzione di Goethe, spacciandola per l’inedito postumo di Diderot. È la prima comparsa pubblica del Nipote di Rameau sulla scena letteraria francese[4]. Due anni dopo, nel 1823, l’editore Brière dando alle stampe le Œuvres inédites di Diderot, pubblicherà Il Nipote basandosi invece su una delle tre copie manoscritte rimaste in Francia, approntate dallo stesso Diderot, quella del fonds Vandeul di proprietà della figlia Angelique[5]. Più tardi, nel 1875, gli editori della prima edizione critica ottocentesca di Diderot (Œuvres complètes), Jacques Assezat e Maurice Tourneaux, dovranno invece basarsi sul testo di un manoscritto proveniente dal fondo della libreria tedesca Treuttel e Würz, altra copia dell’esemplare dell’Ermitage, anche se Tourneaux ne darà una nuova edizione nel 1884, dopo una missione a San Pietroburgo durante la quale poté consultare direttamente il manoscritto del fondo Diderot, presso la biblioteca imperiale, quello stesso da cui fu tratta la copia di Goethe[6].

Sarà solo nel 1891 che Georges Monval ritroverà fortunosamente il manoscritto autografo del Nipote, di mano dello stesso Diderot, presso un bouquiniste del quai Voltaire e ne fornirà un’edizione critica[7] che resterà, da allora in poi, il punto di partenza delle successive edizioni novecentesche[8].

Le vicissitudini storiche del testo sono eloquenti e ci dicono anzitutto una cosa: Il Nipote di Rameau appartiene alla lunga tradizione della letteratura clandestina, sovversiva e eterodossa, che dalla fine del Seicento ha prodotto un’innumerevole quantità di testi, circolati manoscritti, alcuni dei quali sono emersi alla luce della stampa, secondo vicissitudini analoghe. Opere eterodosse, antireligiose, eversive. Diderot stesso riteneva Il Nipote opera pericolosa da diffondersi e da tenere dunque segreta. È una «Satira (seconda)» (che fa seguito alla Satira Prima, sui motti di carattere), ispirata al modello di Orazio, citato in esergo al principio del testo, indirizzata stavolta contro gli innumerevoli, potenti avversari dell’Encyclopédie, tutti citati per nome e cognome: uomini di potere, ricchi borghesi, artisti prezzolati, intellettuali antifilosofici che negli anni precedenti la redazione avevano reso la vita assai difficile all’autore della grande Enciclopedia, o Dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri (1751-1772). In particolare, Charles Palissot (1730-1814), autore della commedia satirica di successo Les Philosophes (1760), aveva messo in ridicolo, sulla scena, l’intera «banda» degli enciclopedisti. Dopo le due proibizioni dell’Encyclopédie, nel 1752 e nel 1759, a quel punto la misura era colma. Il 1760-1761 verosimilmente ̶ qua
ndo Palissot spopolava alla Comédie ̶, è dunque il periodo della prima concezione del dialogo satirico. L’Encyclopédie era bloccata dalla censura (riprenderà, a fatica, nel 1765), Diderot ebbe tempo di dedicarsi a opere che resteranno clandestine e che lascerà manoscritte: l’Aggiunta ai Pensieri filosofici, La Religiosa e poco più tardi Il Sogno di d’Alembert (1769) e i Pensieri sulla materia e il movimento (1770)[9]. Un’attività fervente e clandestina, che costeggia il lavoro intellettuale pubblico per l’Encyclopédie e il teatro. Diderot duplex, dunque: un autore letterario di successo e uno scrittore-filosofo sovversivo clandestino.

Il Nipote di Rameau appartiene a questa temperie di scritti eterodossi e sovversivi che Diderot si guardava bene dal rendere pubblici, dopo la condanna al carcere subita nel 1749 a causa della Lettera sui ciechi. La redazione del Nipote si estende dunque dal 1761 fino ad almeno il 1776, termine ante quem stabilito a partire dalle menzioni delle opere di autori (numerosi) citati nel testo. Il dialogo si svolge in un contesto ben definito della Parigi della metà del secolo, tra il Palais-Royal e il Café de la Régence[10], come indicarono bene sulla copertina del loro «inedito» gli impostori De Saur e Saint-Geniès[11]. I personaggi sono dunque solo due: «Lui» (il Nipote) e «Io» (il Filosofo), i quali s’incontrano per caso al Café de la Régence, mentre «Io» è intento a veder giocare a scacchi. Lui è una figura storica reale: Jean-François Rameau (1716-1777), musicista mediocre, nipote del più celebre genio e teorico della musica francese – per lungo tempo avversario degli Enciclopedisti e di J.-J. Rousseau – Jean-Philippe Rameau (1683-1764). Il Nipote è un personaggio della bohème letteraria e artistica parigina, fallito musicalmente e cinicamente incanaglito, che Diderot trasforma in un cinico ribelle, e ne rovescia il carattere rispetto alla figura storica del vero nipote, il quale era un sincero ammiratore dello zio (che nel dialogo invece detesta) e della musica francese (detestata anche questa). Il Nipote nel dialogo diventa un partigiano della musica italiana, dei Bouffons della celebre Querelle. Io incarna la figura della «coscienza onesta» (Hegel), il filosofo che va in cerca della verità, che non si piega a compromessi e soprattutto non gioca alla «vile pantomima» della nuova società degli scambi, dei commerci e dei privilegi, dalla quale, al contrario, la vita del nipote dipende intimamente. L’Io non riesce a sottrarsi al fascino perverso del Lui e all’ammirazione paradossale di fronte all’arte di arrangiarsi del buffone Rameau, costretto a elemosinare un posto a tavola o un piatto di minestra nelle case dei ricchi borghesi che lo ospitano, attratti dal suo spirito comico-cinico e dalla sua buffoneria.

Il dialogo si dipana su un triplice asse temporale: 1/ la vita passataChe cosa avete fatto?») descritta nel racconto del Lui: le vicende che hanno preceduto e infine causato la cacciata dalla casa dei suoi ricchi protettori e la rovina del Nipote, un racconto costellato di aneddoti particolari e scandalosi sui personaggi della buona società borghese parigina; 2/ il momento presenteChe cosa fate in questo momento?»), in cui il Nipote confessa al Filosofo di essere sul lastrico, cacciato dal suo ultimo protettore (in finanziere Bertin) per «aver avuto una volta in vita mia del senso comune»; 3/ infine, la prospettiva avvenireChe cosa mi consigliate voi?»), cosa resta da fare al Nipote per tirare avanti e uscire dalla condizione di avvilimento e di miseria in cui è caduto? La risposta del filosofo, dopo l’infilata di aneddoti e di giudizi cinici e immorali sul mondo e sulla vita sociale, da parte del Nipote ̶ che s’autodefinisce a più riprese «un ignorante, uno sciocco, un pazzo, un impertinente, un pigro, quello che i nostri borgognoni chiamano un furfante matricolato, un imbroglione, un ghiottone…» ̶ , sarà molto chiara: «Detto questo, il solo consiglio che ho da darvi è di rientrare al più presto nella dimora dalla quale vi siete fatto imprudentemente scacciare». È un consiglio che tuttavia il Nipote non vuole seguire, convinto della propria «dignità» di buffone e insieme di artista, di uomo sensibile.

Pur essendo un musicista fallito Rameau riesce infatti a trasformare in gesti mimici concreti il contenuti musicali delle opere che ammira, secondo la filosofia materialista delle sensazioni (e della sensibilità) di Diderot stesso, che concepisce il concetto di sensazioni in termini di percezione sempre dispersa, divisa, inconscia, di cui il soggetto non è padrone[12]. Così, il Nipote imita gestualmente la musica dei «grandi italiani», ma non è in grado di crearla lui in prima persona, non è capace di comporre un tutto musicale dotato di senso. Al Nipote non accade mai di mettere in unità le sue sensazioni disperse e confuse. Le fa uscire da sé stesso, nel loro stato di dilacerazione, non riuscendo a giudicare del tutto, cioè a creare del bello. Ne fa «la smorfia», ma non ha «la cosa». Anzitutto, Jean-François Rameau è anche lui, come le sensazioni che continuamente lo attraversano, un aggregato che non è mai uno, «è un composto di altezza e di bassezza, di buon senso e d’irragionevolezza (déraison)», secondo l’ordine di successione delle sensazioni. Come dice di se stesso, Rameau è sempre attaccato al presente, alla sua dimensione di corporeità immediata che s’esprime nell’«appetito», nella fame dello stomaco che si traduce anche in fame di vivere. Questo tema dell’appetito fa da connettore con l’altro tema, dell’economia e del feticcio della merce (§ 2): «Ma se è della natura l’avere appetito, perché è sempre all’appetito che ritorno, alla sensazione che mi sta sempre presente, trovo che non è un buon ordinamento il non aver sempre di che mangiare. Che diavolo d’economia: uomini che abbondano di tutto, mentre altri, che hanno uno stomaco importuno come loro, una fame che ritorna come a loro, non hanno di che mettere sotto i denti. La cosa peggiore è la postura forzata a cui ci costringe il bisogno. L’uomo bisognoso non cammina come gli altri: salta, striscia, si attorciglia, si trascina, passa la vita a prendere e a eseguire delle posizioni» (corsivo nostro).

La grande gestualità di Rameau, le «posizioni», le posture corporee sempre diverse che prende dinanzi al suo interlocutore, sono il prodotto della sua sensibilità dilacerata che non arriva a trovare un’armonizzazione reale, a causa di un appetito insaziato. La personalità sensibile del Nipote dunque scoppia («è un linguaggio scoppiettante di spirito» dirà Hegel), si disperde in quelle posizioni gestuali che prende dinanzi all’oggetto del proprio desiderio: la musica e il suo doppio alienato nel valore: l’oro, il denaro. Lui fa «finta», fa il gesto di
avere il genio musicale dello zio, ma non arriverà mai ad afferrarlo, a creare «la cosa», il bello, il bene e il vero; la nuova «trinità» a cui Il Nipote pure fa appello in nome della «vera musica», l’Opera italiana:

Il vero, il buono, il bello hanno i loro diritti. Li si contesta, ma si finisce con l’ammirarli. Ciò che non si presenta con quel marchio lo si ammira per un certo tempo, ma poi si finisce per sbadigliare. Sbadigliate dunque, Signori; sbadigliate a vostro agio, senza fare complimenti. L’impero della natura e della mia trinità, contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno mai, s’insedia in tutta calma: il vero, che è il Padre e genera il buono, che è il Figlio; da cui procede il bello, che è lo Spirito Santo. Il dio straniero si piazza umilmente sull’altare accanto all’idolo del luogo, pian piano vi si afferma; un bel giorno dà una gomitata al suo compare e patatrac, ecco l’idolo a terra[13].

Le testimonianze storiche riguardanti il vero nipote di Jean-Philippe Rameau attestano che il musicista fallito non si sarebbe mai espresso contro la musica francese, né contro lo zio, di cui era ammiratore. Su questo punto dunque  ̶  la valorizzazione e persino l’esaltazione della musica italiana (quella «trinità» incarnata)  ̶  abbiamo a che fare con le idee di Diderot stesso, partigiano dei Bouffons nella celebre Querelle del 1753. Il Nipote perciò viene concepito nel momento più caldo della polemica condotta dagli anti-filosofi (Palissot e Les Philosophes, Freron ecc. l’Encyclopédie era stata colpita dalla seconda proibizione, nel 1758-59). È questa l’occasione che Diderot coglie per difendersi dai numerosi attacchi subiti e, insieme, per ribadire e sviluppare la propria filosofia materialista, critica delle idee ricevute e, soprattutto, della società corrotta dei privilegi e degli affari.

Notevoli sono dunque le pagine dedicate alla poetica musicale e al dibattito sulla «nuova musica» espressiva e travolgente che la scuola napoletana aveva importato in Francia e stava dominando la scena artistica del tempo (La Serva Padrona di G. Paisiello), contro la tradizione incarnata dal vecchio zio, Jean-Philippe Rameau. Il Nipote, su questo, si fa portavoce delle idee filoitaliane di Diderot sulla «melodia polipo», sul primato del sentimento, sul «grido animale della passione» ecc. che andava esprimendo nelle contemporanee opere estetiche e teatrali[14].

S’affrontano dunque nella Satira seconda, le diverse antinomie estetiche, filosofiche e morali tra individuo e società, tra natura e cultura, tra giustizia e felicità, tra genio e talento, ma soprattutto, l’antinomia politica tra libertà e necessità. Su ciascun tema il confronto tra Lui e Io è serrato e le «tesi» filosofiche di Diderot traspaiono non già nei semplici pronunciamenti del Filosofo, ma nella stessa dialettica dei due personaggi.

2. Come si presenta Le Neveu de Rameau e quali sono i temi affrontati nell’opera. Il Nipote, nostro contemporaneo

Il tema della libertà individuale, dei suoi limiti e delle sue disavventure o contraddizioni, sta dunque al cuore del dialogo di Diderot. Le opere letterarie sono una continuazione o piuttosto un contrappunto funzionale «a specchio» delle tesi portanti delle opere estetiche, politiche e filosofiche. Il Nipote di Rameau è anch’esso portatore di una verità filosofica più profonda della prima apparenza narrativa, verità che s’esprime meglio, e in modo più eloquente, nella «messa in persona», nella presa di corpo delle idee filosofiche nel personaggio principale di Rameau. Il nipote è un essere libero nelle sue scelte, motivazioni, azioni e abiezioni? O è piuttosto determinato dalla natura del suo essere organico individuale, plasmato dalla «molecola paterna» e dalla «specie sociale» cui appartiene? È la stessa grande questione al cuore delle maggiori opere materialiste coeve (e inedite, clandestine): la Confutazione di Helvétius, gli Elementi di Fisiologia, le Osservazioni su Hemsterhuis. E degli altri due romanzi postumi più tardi: Jacques il fatalista e La Religiosa. Diderot propende senz’altro per la tesi determinista-materialista, ma la risposta è dialettica: il filosofo aggiunge tra i motivi appunto determinanti il comportamento e l’essere stesso del Nipote la società del suo tempo, l’ambiente culturale, il mondo storico, che appartengono anch’essi, tutti, alla grande categoria filosofica della «natura».

Il primo tema del Nipote è anzitutto la dialettica dei caratteri e dei personaggi, il dialogo filosofico serrato tra il Moi (Diderot) e il Lui (il Nipote). Come ha ben rilevato Jacques D’Hondt, esiste un’intima unità di spirito e di sentimento tra i due personaggi, che condividono un medesimo Zeitgeist, per dirla hegelianamente, uno «spirito del tempo» borghese prerivoluzionario: «L’incontro tra il “Nipote” e il “Filosofo” è puramente accidentale? Concerne individui assolutamente estranei l’uno all’altro? Niente affatto. Gli aspetti fortuiti dell’incontro restano i più insignificanti per il dialogo stesso. Quest’ultimo, per snodarsi, deve richiamare un gran numero di similitudini preliminari, di punti comuni e persino, sotto certi aspetti, un’identità dei personaggi e dei loro comportamenti. E già, come per la tragedia classica, il dialogo esige l’identità di luogo, di tempo e d’azione. Ma ci vuole molto di più! Sono uomini che s’incontrano, dei “simili”, e non basta che appartengano allo stesso genere biologico, in più c’è bisogno che abbiano voglia di parlare e qualcosa da dirsi! E che, malgrado la loro “ipseità”, la loro identità diversa dall’altro, s’intendano abbastanza per potersi accordare o contraddire! Questo presuppone non solo una lingua comune, ma anche una comunità di cultura, una stessa condivisione d’informazioni e di preoccupazioni, uno stesso destino storico! Diderot, grazie ai due interlocutori descrive uno stesso tempo di corruzione e di decadenza, di dissidio intellettuale e morale, che talora verrà qualificato, a cose fatte, come “periodo prerivoluzionario”. Più in generale, perché un dibattito o una lotta si accendano, è richiesta una comunità: comunità di terreno, di ring, di condizione sociale e culturale, di problematica, d’interesse pratico o teorico. La differenza e l’opposizione s’istituiscono e si distaccano su un fondo d’identità e di unità. Due chiacchieroni, due amanti, due nemici, in quanto tali, sono inseparabili»[15].

La coappartenenza di tempo, spazio e spirito fa sì che il lettore arrivi a leggere, nel contrasto dei due personaggi, un solo e unico mondo storico, composto dalle loro due visioni contrastanti, dilacerato, diviso: il mondo culturale della fine del secolo XVIII in Francia, alla vigilia della Rivoluzione. Il Nipote di Rameau è un dialogo rivoluzionario e sembra presentarsi sotto
le sembianze di un dialogo della «fine di un mondo» (Jules Janin). Se osserviamo la storia della recezione del Nipote constatiamo infatti che le prime letture del capolavoro diderotiano, nel secolo XIX, andavano in questa precisa direzione, quella d’intendere la Satira seconda come la descrizione di un mondo in frantumi, sull’orlo della propria tomba. Ed è questa la prima interpretazione che ne venne data, nel 1861, dallo scrittore e critico letterario, di una certa rinomanza all’epoca, Jules Janin (1804-1874), autore di un dialogo parallelo concepito come una prosecuzione della storia del Nipote di Diderot, dal titolo: La fine di un mondo e del “Nipote diRameau” (1861)[16]. Janin qui immagina la morte di Jean-François Rameau coincidente con l’avvento della Rivoluzione e di una nuova società di cui il cinico personaggio non sarebbe stato altro che il preludio premonitore o, piuttosto, il becchino della vecchia.

Tale fu, a ben guardare anche oltre Janin, la lettura che venne data del dialogo diderotiano a partire dalla metà dell’Ottocento, dopo la prima edizione fedele dell’opera, presso l’editore Brière nel 1823, nelle Œuvres complètes, e dopo la celebre ritraduzione francese, della traduzione tedesca fatta da Goethe nel 1805 (Rameau’s Neffe; supra, §1). Il Nipote di Rameau, sarebbe dunque, preludio della Rivoluzione, un sordo, cupo annuncio della fine di un mondo: l’Ancien régime della Francia sotto Luigi XVI.

Tuttavia, in quegli stessi anni in cui il Nipote veniva riscoperto – tra il 1861 e il 1873 abbiamo tre diverse edizioni a stampa, fino alla prima edizione critica di Georges Monval, del 1891 – altre letture si andavano sviluppando, in opposizione a questa serie di interpretazioni di carattere piuttosto conservatore. Perché conservatore? Il Nipote è in Janin un personaggio-tipo che incarna il «veleno» rivoluzionario che si sarebbe andato diffondendo nella buona società, nobile ma dissoluta, della fine del secolo XVIII. E il nuovo dialogo di Janin doveva appunto costituirne il «contravveleno».

In senso opposto, particolare interesse riveste la diversa lettura che ne fecero Marx e Engels dell’edizione del Neveu del 1863, ad opera di Nestor David, nella collana «Bibliothèque Nationale», che abbiamo rieditato in ristampa anastatica nel 2012[17]. Il 15 aprile 1869 Marx invia a Engels quest’edizione «popolare» del Neveu, avendone una copia in più, come regalo di compleanno. E l’accompagna con un commento significativo: «è un capolavoro di dialettica». Osserva J. D’Hondt: «Marx inizia la sua copia di Hegel con una frase senz’altro notevole: “Lo strazio della coscienza [quella del Nipote!], che è cosciente di se stessa e che s’esprime ̶ dice su questo il vecchio Hegel [inciso di Marx] ̶ è lo scoppio di risa sarcastiche [Hohngelächter] sull’esistenza, come anche sulla confusione del tutto e su se stessi; e queste risa sono, al tempo stesso, il rumore morente [das Verklingen] di tutta quella confusione che ancora si può ascoltare”»[18].

Il riso del Nipote, la sua derisione senza limiti e senza vergogna, prende di mira il mondo «tel qu’il va», lo svalorizza, gli toglie senza alcuna remora il titolo maggiore che gli si attribuisce, quello di essere un «in sé», solido e immutabile, appunto nei suoi valori morali essenziali. Niente d’immutabile, nessun «valore» possibile nel cinismo del Neveu. Il personaggio di Diderot, secondo Marx, non incarna soltanto una figura del suo tempo, anzi non è affatto l’uomo del suo tempo, bensì è l’uomo dell’avvenire, l’annunciatore un nuovo mondo; non la «fine di un mondo» vecchio, stanco, sull’orlo della tomba, come asseriva Janin. Il Nipote è l’uomo dell’avvenire, un nostro contemporaneo, l’uomo cioè che infila una serie sconcertante di vanità relative ai vecchi valori «nobili», che lascia esterrefatto il vecchio Philosophe, il quale sta lì ad ascoltare e ad incarnare la statica figura del vecchio Io, attaccato alle proprie consuetudini e giudizi di valore stabiliti, per poi finalmente, tacitamente acconsentire suo malgrado alla visione del mondo del Nipote. È una pagina celebre, che val la pena di leggere per intero, come introduzione al tema centrale dell’opera:

E allora, viva la filosofia! viva la saggezza di Salomone. Bere buon vino; ingozzarsi di cibi delicati; rotolarsi su belle donne; riposare su letti morbidissimi; eccetto questo, il resto non è che vanità. ̶ Io: Come! Difendere la patria? ̶ Lui: Vanità. Non esiste più patria. Da un polo all’altro non vedo che tiranni e schiavi. ̶ Io: Servire i propri amici? ̶ Lui: Vanità. Si hanno forse amici? Quand’anche ne avessimo, bisognerebbe farne degli ingrati? Pensateci bene e vedrete che accade quasi sempre che si raccoglie dell’ingratitudine dai servigi resi. La riconoscenza è un fardello; e ogni fardello è fatto per essere scrollato. ̶ Io: Avere una funzione nella società e adempiere ai propri doveri? ̶ Lui: Vanità. Che importa che si abbia una funzione o no; purché si sia ricchi; infatti, si prende una funzione per diventarlo. Adempiere ai propri doveri: questo a che cosa condurrebbe? Alla gelosia, al disordine, alla persecuzione. È così che si va avanti? Fare la propria corte, perdiana, fare il cortigiano; vedere i potenti; studiare i loro gusti; prestarsi alle loro fantasie; servire i loro vizi; approvare le loro ingiustizie. Ecco il segreto. ̶ Io: Vegliare all’educazione dei propri figli? ̶ Lui: Vanità. È affare di un precettore. ̶ Io: Ma se tale precettore, penetrato dei vostri principi, trascura i suoi doveri; chi ne sarà punito? ̶ Lui: Ah, non sarò certo io; ma forse, un giorno, il marito di mia figlia o la moglie di mio figlio. ̶ Io: Ma se entrambi sprofondano nella depravazione e nei vizi? ̶ Lui: È una cosa che appartiene alla loro condizione. ̶ Io: Se si disonorano? ̶ Lui: Qualunque cosa si faccia, non ci si può disonorare quando si è ricchi[19].

Il valore di scambio (il denaro) è dunque diventato ormai l’unico valore reale possibile, nella società del mercato e delle merci. Questo è l’annuncio del Lui. Il Nipote la vede di lontano, quella società a venire, la nostra società capitalistica, e la valorizza ad oltranza, ad esempio nella celebre scena del Luigi d’oro, che Jean-François Rameau mostra al figlio con venerazione come l’unico, solo vero dio dei tempi moderni, per «educarlo»:

Oro! Oro! L’oro è tutto, e il resto, senz’oro, è niente. Perciò, invece di riempirgli la testa di belle massime che occorrerebbe dimenticare, pena di non essere altro che un pezzente, quando possiedo un luigi d’oro, il che non mi accade spesso, mi pianto dinanzi a lui. Tiro fuori dalla tasca il luigi. Glielo mostro con ammirazione. Innalzo gli occhi al cielo. Bacio il luigi dinanzi a lui. E per fargli capire ancora meglio l’importanza della sacra moneta, balbetto con la voce; gli indico col dito tutto ciò che ci si pu&og
rave; comprare, un bel soprabito, un bel cappellino, un buon biscotto. Alla fine, metto in tasca il luigi. Cammino pieno di fierezza; rialzo la falda della giacca; batto con la mano sul taschino: e così gli faccio capire che dal luigi che sta lì dentro nasce la sicurezza che mi vede[20].

Jacques D’Hondt giustamente osserva: «Alla maniera dei monetaristi che prolungano la loro influenza alla sua epoca, Diderot si figura probabilmente che il valore  ̶  nel senso economico del termine  ̶  è una realtà puramente “materiale”, nel senso volgare del termine. Il valore non sarebbe semplicemente portato o veicolato dall’oro, come l’essenza in un’apparenza, ma si confonderebbe con quest’apparenza. Il valore di un Luigi d’oro non sarebbe nient’altro che quella rondella di metallo brillante. Il valore, che in ultima istanza consiste in un rapporto umano, si aliena in questo frammento lavorato di metallo, come si alienerà più tardi in un pezzo di carta o in una banda magnetica. Prendere il Luigi d’oro seriamente e totalmente per il valore stesso, significa attribuirgli indebitamente delle proprietà che riguardano e spettano a delle persone umane: è del feticismo. Rameau, educatore privato, forma suo figlio al feticismo del denaro che presto trionferà intellettualmente, nel secolo successivo. Ciò che appare scandaloso e cinico al suo tempo e sulla bocca del Nipote, diventerà l’opinione più comune e che va da sé, nei decenni più prossimi. Nelle scuole si insegneranno le pratiche della finanza»[21].

In effetti, Marx alluderà a questa pagina del Nipote nel Capitale, al momento di trattare il «carattere di feticcio della merce» e «Il denaro. a) Tesaurizzazione», pensando senz’altro alla scena citata del Luigi d’oro[22]. Il Nipote, dunque, ha la meglio contro Janin e i conservatori di tutte le epoche. È lui che «riderà bene», perché «riderà per ultimo»: ha conquistato l’umanità dell’avvenire[23]. Il Nipote è dunque, ripetiamolo, nostro contemporaneo, non è l’uomo del suo tempo in disfacimento, è bensì l’apostolo della ragione futura dei mercanti, dei finanzieri e dei politici venduti al miglior offerente[24].

La figura di questo mostro morale appare, in ultima istanza, all’Io filosofo, come la deformazione dell’immagine positiva del genio, incarnata dallo zio Jean-Philippe Rameau (negativo/positivo), e diventa nella realtà, a poco a poco, la regola nascosta di condotta della nascente società borghese degli scambi e delle merci, che presto vincerà la sua battaglia storica, con la Rivoluzione del 1789. Il «mostro», ripudiato e sbeffeggiato dai suoi contemporanei, parassita e detestabile, ha vinto la sua partita tre secoli dopo Diderot. Questa figura governa oggi Stati e continenti, quasi l’intero pianeta, presiede consigli d’amministrazione di grandi aziende, dirige Istituti finanziari, all’inizio del secolo XXI. E noi, rileggendo la Satira seconda con questa lente ermeneutica, abbiamo oggi più mezzi per riprendere la battaglia politica, prima ancora che si spengano i lunghi dibattiti e le questioni letterarie e filosofiche che sono legittimamente connesse o che sono state sollevate in margine al testo, dall’occasione del tricentenario della nascita di Diderot (2013).

Il Nipote, da buon dialettico, ci ha messi in guardia. Ad altri, dopo di lui e oltre, l’ultima parola, come dirà lo stesso Jean-François, alla chiusa del dialogo, ancora una volta: «riderà bene, chi riderà per ultimo!»

NOTE
[1] D. Diderot, Il Nipote di Rameau, a cura di P. Quintili, in Opere filosofiche, romanzi e racconti, trad. it. di P. Quintili e V. Sperotto, Milano, Bompiani, 2019, p. 2203.

[2]Rameau’s Neffe. Ein Dialog von Diderot. Aus dem Manuskript überseztz und mit Anmerkungen begleitet von Goethe, Leipzig, bey G. J. Göschen, 1805.

[3]Cfr. J. D’Hondt, Diderot. Raison, Philosophie et Dialectique. Suivi du Neveu de Rameau, Texte établi et présenté par E. Puisais et P. Quintili, Paris, L’Harmattan, 2012, pp. 41-61; Pierre Pénisson, «Goethe traducteur du ‘Neveu de Rameau’», in Revue germanique internationale [En ligne], 12 | 1999, consultato l’8 maggio 2020. URL: http://rgi.revues.org/756; DOI: 10.4000/rgi.756.

[4]D. Diderot, Le Neveu de Rameau, Dialogue. Ouvrage posthume et inédit par Diderot (la scène se passe au Palais-Royal et au Café de la Régence), Paris, Delaunay, 1821.

[5]Œuvres inédites de Diderot. Le Neveu de Rameau. Voyage de Hollande, Paris, chez J. L. J. Brière, 1823, p. xii : «È su questa seconda copia [manoscritta del Nipote], procurataci da una mano sicura [la figlia di Diderot, Angelique], che abbiamo stampato Il Nipote di Rameau; questo non ha alcuna somiglianza se non nel titolo con la traduzione che ne ha pubblicato nel 1821 a Parigi, presso Delaunay, il Signor De Saur». Nella stessa nota Brière denuncia la frode e smaschera l’impostura letteraria dei due editori-ritraduttori.

[6]D. Diderot, Le Neveu de Rameau, in Œuvres complètes, 20 voll., Paris, Garnier, 1875-1877, vol. V, pp. 359-489; éd. M. Tourneaux, Paris, P. Rouquette, 1884.

[7]D. Diderot, Le Neveu de Rameau. Satyre, publiée pour la première fois sur le manuscrit original autographe, avec une introduction et des notes par G. Monval, accompagnée d’une Notice sur les premières éditions de l’ouvrage et de la Vie de Jean-François Rameau par E. Thoinan, Paris, Plon, 1891.

[8]Diderot-Goethe-De Saur-Saint-Geniès, Le Neveu de Rameau/Rameaus Neffe/Satire seconde, édition des trois textes par M. Delon et J. Berchtold, Paris, Fayard, 2017; con quest’edizione abbiamo finalmente i tre testi a fronte: 1/ la traduzione di Goethe; 2/ la ritraduzione di De Saur e Saint-Geniès; 3/ il manoscritto autografo di Diderot scoperto da G. Monval.

[9]Cfr. P. Quintili, «Le sensualisme lockéen et le matérialisme dans Le Neveu de Rameau», in OP. CIT., vol. 1, ISSN: 2182-9446, on-line : https://revues.univ-pau.fr/opcit/120.

[10]Cfr. Louis-Sébastien Mercier, Tableau de Paris, 12 vol., à Amsterdam, 1782-1788, vol. I, pp. 227-231.

[11]Supra, nota 5; c’è da aggiungere che la mistificazione di De Saur e Saint-Geniès era animata dall’intenzione scandalistica di rendere noto un testo che prendeva di mira pesantemente l’intera «buona società» dell’Ancien régime, pubblicando tutti i nomi dei bersagli critici di Diderot, come nella traduzione di Goethe. E l’operazione in parte riuscì. Nelle altre copie manoscritte del Fonds Vandeul invece, molti di quei nomi sono stati «coperti» con gli asterischi *** dopo le iniziali o censurati dai Vandeul, appunto per timore di scandali, considerato che diversi personaggi citati dal Nipote erano ancora in vita nel 1821.

[12]Enc. XV, p. 35b, articolo «Sensazioni» (Diderot) «Le nostre sensazioni […] sono confuse; e ciò ha fatto congetturare che non sono delle percezioni semplici, checché ne dica il celebre Locke. Quello che rinforza tale congettura è che noi proviamo tutti i giorni delle sensazioni che a primo acchito ci sembrano semplici ma in un secondo tempo scopriamo non esserlo affatto […] Ogni sensazione, quella del tono, ad esempio, o quella della luce in generale, per quanto semplice, per quanto indivisibile ci appaia, è un composto d’idee, è un assemblaggio o ammasso di piccole percezioni che si susseguono nel nostro animo così rapidamente, e ciascuna delle quali vi si sofferma tanto poco, oppure si presentano tutte insieme in così gran numero, che l’animo non potendo distinguerle le une dalle altre, ha una sola percezione assai confusa di tale composto, in rapporto alle piccole parti o percezioni che formano il composto; ma per altro verso, è assai chiara, per il fatto che l’animo la distingue nettamente da ogni altra successione o assemblaggio di percezioni: donde viene il fatto che ciascuna sensazione confusa, a considerarla in se stessa, diventa assai chiara, se l’opponete a una sensazione diversa. Se queste percezioni non si succedessero così rapidamente l’una rispetto all’altra, se non si offrissero tutte insieme in così gran numero, se l’ordine con il quale si offrono e si succedono non dipendesse da quello dei movimenti esteriori, se l’animo avesse il potere di cambiarlo; se tutto questo fosse possibile, le sensazioni non sarebbero altro che delle pure idee, che rappresenterebbero diversi ordini di movimento. L’animo se le rappresenta certo, ma in piccolo, con una rapidità e un’abbondanza che lo confondono, che gli impediscono di distinguere un’idea dall’altra, benché essa sia colpita vivamente dal tutto insieme e distingua molto nettamente tale successione di movimenti, da tale altra successione, tale ordine, tale ammasso di percezioni da tale altro ordine e altro ammasso».

[13] Diderot, Il Nipote cit., p. 2275.

[14] Su questi temi rinvio ai miei lavori: «« Révolution et praxis dans Le Neveu de Rameau, roman du jeu de l’éthique sociale», in Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie, n°26, avril 1999, pp. 153-172 ; La pensée critique de Diderot. Matérialisme, science et poésie à l’âge de l’Encyclopédie. 1742-1782, Paris, Honoré Champion, 2001, pp. 395-415, cap. 7.3.2: «Le tout et les parties. La ‘mélodie polype’ du Neveu de Rameau» e 7.3.5 : «La clandestinité du Neveu et l’antinomie de la raison théâtrale».

[15]J. D’Hondt, Diderot cit., pp. 50-51, corsivo nostro.

[16]Ivi, pp. 147-191, nella ristampa anastatica dell’edizione ottocentesca del Nipote di Rameau.

[17] Ibidem.

[18]Ivi, p. 79.

[19] Diderot, Il Nipote cit. p. 2237 (corsivi nostri).

[20]Ivi, p. 2283.

[21] J. D’Hondt, Diderot cit., p. 99, corsivi nostri.

[22]Cfr. K. Marx, Il capitale, trad. it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1980, Libro primo («Il processo di produzione del capitale»), p. 166.

[23]Cfr. J. D’Hondt, Diderot cit., p. 115: «Ma quando si dice che Il Nipote di Rameau annunzia la fine di un mondo,
si rischia proprio di sbagliare mondo. Attenzione! Un mondo spesso ne nasconde un altro. In realtà, Il Nipote di Rameau non annuncia l’ultima fine della feudalità, del potere dell’aristocrazia e della nobiltà, della monarchia. Nulla di tutto ciò è in questione, nella crisi morale e sociale che dipinge, alla sua maniera, il dialogo di Diderot. Gli aristocratici, i Potenti, la Corte, il Re non sono né attaccati, né criticati nel Nipote di Rameau. È come se non esistessero, come se la Rivoluzione francese fosse già passata di lì. Diderot non vuol dare loro il calcio nel sedere dell’asino, neanche per anticipazione. È alla potenza reale e attuale che si rivolge: il denaro, il potere economico nuovo, anche prima che abbia conquistato il potere politico. “L’oro è tutto”! esclama il Nipote. “Che diavolo d’economia: uomini che abbondano di tutto, mentre altri, che hanno uno stomaco importuno come loro, una fame che ritorna come loro, non hanno di che mettere sotto i denti”. “Da un polo all’altro non vedo che tiranni e schiavi”! Lui vuol essere tra coloro che abbondano di tutto e vuol diventare un tiranno. Per molti aspetti, Il Nipote di Rameau prefigura coloro che presto lo supereranno in infamia e in cinismo, musicisti meno bravi di lui, probabilmente, ma più fortunati nei loro affari. I briganti trionferanno, sopravvivranno a tutte le rivoluzioni e a tutte le restaurazioni, abili a trarne ugualmente profitto. Un giorno, Chateaubriand vedrà passare dinanzi a lui gli eredi del Nipote di Rameau, meno spiritosi e meno simpatici di lui nella sua miseria, gli arricchiti, i trionfatori, Talleyrand e Fouché, “il vizio a braccetto del crimine”. Diderot aveva presentito la loro irresistibile ascesa».

[24] Diderot, Il Nipote cit., p. 2299.
(27 maggio 2020)




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