Il nuovo razzismo contro i “vecchi” ai tempi della crisi

Annamaria Rivera

Con la grande depressione chi è anziano diventa il capro espiatorio dell’austerità

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Il traghetto carico di turisti è giunto nel porto e sta ormeggiando. I passeggeri si affollano lungo la stretta scalinata di metallo che conduce ai vari livelli del garage. La discesa non è facile data la quantità di adulti, bambini, carrozzine, borse…Nella calca si fa strada in senso opposto un giovane corpulento. Ha imboccato un piano che non è quello in cui ha parcheggiato l’auto e ora risale veloce sgomitando a dritta e a manca. Una donna esile, intorno ai sessant’anni ben portati, esclama: “Percorre le scale in senso inverso e pretende pure di farsi strada in questo modo!”. Il giovane le urla contro, in italiano: “Stia zitta lei che è un’abusiva: i vecchi devono starsene a casa!”.

La donna in questione si sistema col marito in un residence, in un’area tra le meno frequentate dai turisti. Come vicini, divisi da un vetro sottile che taglia la terrazza comune, hanno una coppia francese sui trent’anni, con due bambine. Non sono loro a infastidirli bensì la madre, che ha l’abitudine di gridare e trascinare rumorosamente le sedie in plastica. Un mattino la signora le chiede gentilmente, in buon francese, se per favore potrebbe sollevarle, le sedie, invece che trascinarle. In presenza delle piccole, lei grida con voce rabbiosa: “Se non le sta bene questo residence, se ne ritorni nella casa di riposo!”.

La sala cinematografica è quasi vuota: si proietta un film di qualità. Oltre loro due, ci sono solo un’altra coppia e tre giovani che sembrano capitati lì per errore. Il titolo deve averli ingannati: durante la proiezione non fanno che sbuffare o parlare. Un paio di volte la donna e il marito li pregano di tacere. Prima che scorrano i titoli di coda, i disturbatori si alzano vociando e passano giusto davanti a loro. I due protestano che il film non è finito e che vorrebbero guardarli, i titoli di coda. Sconcertati e stizziti, i giovani replicano in malo modo. La coppia cerca di opporre qualche argomento razionale. A quel punto uno dei tre grida: “Voi non sapete chi sono io: mio padre è colonnello dei carabinieri!”. La signora e il marito scoppiano in una risata. Il figlio del colonnello reagisce urlando con tutto il fiato: “Siete solo due vecchi di merda!”.

Queste spiacevolezze, che ho riportato fedelmente, sono accadute a una stessa coppia (chi siano è irrilevante) in un arco di tempo breve. Ora, comparate le frasi insultanti con espressioni analoghe, non rare, quali “Sta’ zitto tu che sei extracomunitario: gli africani devono restarsene nella giungla!”, “Se non vi sta bene ‘sta baracca, tornatevene a casa vostra!”, “Siete solo due negri di merda!”. Accostatele, se volete, a locuzioni del genere “Fuori tutte le donne dal Parlamento, tutte a casa a fare la calza!” (così un lettore del quotidiano Il Giornale) e ad altre ricavabili dall’immenso repertorio sessista in cui è declinato il “Sei solo una donna di merda!”. Vi apparirà chiaro che la stigmatizzazione dei “vecchi” usa dispositivi analoghi a quelli del razzismo e del sessismo, soprattutto stereotipi generalizzanti e caricaturali: quelli che inducono a cogliere non individui e singolarità, ma categorie indistinte, oltre tutto costruite, rappresentate, percepite secondo cliché svalorizzanti.

E’ per assonanza e analogia con razzismo e sessismo che nel 1969 Rober Butler, psichiatra e geriatra, coniò il termine ageism (da age: “età”), che trent’anni dopo sarebbe stato accolto nella lingua francese come âgisme e ben più tardi in quella italiana come ageismo: parola e concetto poco consueti nel nostro paese. Con questo termine si designa ogni forma di pregiudizio, discriminazione, segregazione, svalorizzazione in ragione della classe di età, che sia degli anziani o dei giovani. Ma l’espressione più diffusa di ageismo è quella contro i “vecchi”: una delle forme di discriminazione tra le più invisibili e tollerate, insiste Jerôme Pellissier, scrittore, ricercatore, autore di articoli e saggi sul tema. Vi si sofferma anche il sociologo Enrico Pugliese nell’ultimo capitolo di un ottimo saggio: La terza età. Anziani e società in Italia (il Mulino, 2011).

Gli stereotipi e i pregiudizi più diffusi sono quelli per cui tutti gli anziani sarebbero immobilisti, conservatori, reazionari, inoperosi; e/o abbienti, privilegiati, potenti, perciò accusati d’impoverire i giovani, di occupare abusivamente posti lavorativi e ruoli di prestigio, soprattutto di rubare loro il lavoro: cosa, quest’ultima, in Italia particolarmente risibile dopo la riforma Fornero, che impedisce di andare in pensione prima dei 67 anni.

In Occidente, tra le ragioni che possono spiegare l’ageismo v’è la rimozione della finitezza, così tipica del nostro tempo: le persone anziane testimoniano che la morte è ineluttabile e la decadenza fisica assai probabile. Il paradosso è che coloro che coltivano pregiudizi verso i “vecchi” contribuiscono a condannare se stessi all’appartenenza futura a una categoria svalorizzata o stigmatizzata. Un altro fattore da considerare sono i mutamenti sociali che hanno investito la struttura e il ruolo della famiglia, non più allargata ma mononucleare (se non monogenerazionale, aggiunge Pugliese), in quanto tale tendente a estromettere gli anziani.

Infine, non si può sottacere, tra le cause probabili, il prevalere della cultura che esalta la produttività, la prestazione, la forma, l’aspetto esteriore, e che produce ideologie giovaniliste. Queste, ben lontane dal valorizzare effettivamente il ruolo dei giovani, inducono a coltivare, spesso in modo compulsivo, il mito dell’eterna giovinezza: al punto che “il Cavaliere”, oggi più vicino agli ottant’anni che ai settanta, continua a incarnare agli occhi di non pochi il modello ideale del vincente che esercita potere anche nella sfera sessuale. In Italia il giovanilismo ispira a sua volta le retoriche della “rottamazione”, che servono a dissimulare ambizioni personali e giochi di potere.

Un indizio d’ideologia giovanilista è la convenzione lessicale, affermatasi negli anni recenti in ambito giornalistico ma non solo, che designa come ragazzi anche gli adulti, addirittura fino alla fascia dei quarant’anni, salvo appartengano a categorie svalorizzate (migranti, rifugiati, rom…). E’ un segnale della tendenza a ridurre e semplificare, secondo la dicotomia ragazzi/vecchi, le scansioni del ciclo della vita umana, di conseguenza il paesaggio sociale. Contrapposte le une alle altre, entrambe le categorie –arbitrarie più di altre – possono diventare oggetto di stigmatizzazione: basta pensare alla progressione che va dagli insulti dell’allora ministro Brunetta contro i giovani precari all’invito sprezzante a non essere troppo “choosy”, rivolto dall’ex ministra Fornero.

Al tempo della Terza Grande Depressione, gli anziani (i non ricchi e non potenti) spesso divengono – insieme ad altri soggetti marginalizzati, discriminati o disprezzati (ancora una volta migranti, rifugiati, rom) – capri espiatori per settori di popolazione che sperimentano direttamente gli effetti sociali della crisi e delle politiche di austerità. Un altro paradosso è che i capri espiatori stessi ne sono fra i più colpiti: basta dire della progressione dei suicidi detti economici di anziani, anche appartenenti a cla
ssi medie, ridotti all’indigenza dalla recessione, dall’espulsione dal mondo del lavoro, dall’avidità delle banche, da politiche antipopolari.

E non solo: l’ideologia dell’austerità, le sue pratiche, nonché una certa demografia apocalittica fanno sì che l’invecchiamento della popolazione sia rappresentato – dai poteri ma anche da settori di opinione pubblica – come fardello sociale non più sopportabile. Così, nel nostro come in altri paesi europei, i tagli drastici al Welfare State, in specie alla sanità pubblica, incrementano la discriminazione delle persone anziane. In Europa sono soprattutto i medici a denunciare che l’età avanzata è la principale barriera rispetto all’accesso a cure sanitarie adeguate.

Specialmente in periodi di crisi e di recessione, il pregiudizio e la discriminazione in ragione dell’età avanzata possono sommarsi a quelli in base al genere, all’origine, allo status, alla condizione sociale, producendo effetti drammatici: una donna (o una trans) anziana, povera, di origine straniera è potenzialmente destinata a diventare una marginale.

Insomma, la svalorizzazione della vecchiaia nonché la rappresentazione di giovani e anziani quali unità sociali distinte e rivali è un inganno utile a occultare o denegare le fratture di classe e di potere, le crescenti ineguaglianze sociali, l’isolamento dei più deboli, la disoccupazione e l’impoverimento di massa.

* Versione ampliata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 7 novembre 2013

(7 novembre 2013)



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