Il razzismo di Stato, il rischio del salto all’estremo, l’impotenza della sinistra

Annamaria Rivera

“Siamo costrette a ripetere ciò che mille volte abbiamo scritto, in libri, saggi e articoli (…): cosa sconfortante, che rafforza la tentazione di abbandonare il lavoro intellettuale per darci ad attività più lievi e gratificanti (…). Se idee e concetti ribaditi mille volte non lasciano tracce neppure fra chi crediamo politicamente più affine, occorre prendere atto che vi sono nuclei d’ideologia, d’immaginario e di senso comune che resistono a ogni tentativo di scalfirli col ragionamento”.

È un’auto-citazione da un articolo del 22 maggio 2006, che oggi mi sembra più che mai attuale.

Infatti, di fronte alla gravità della fase politica odierna, quel che resta della sinistra non sembra affatto all’altezza della situazione. Eppure, come ho già scritto e come, prima di me, ha ben argomentato Roberto Esposito, la situazione odierna presenta alcune analogie allarmanti con gli ultimi anni della Repubblica di Weimar, prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo, pur se i contesti interni e internazionali sono incomparabili.

Una spia fra le tante, solo in apparenza secondaria, dell’inadeguatezza della sinistra (anche di quella “di movimento”) è costituita dal lessico che, trasposto in slogan e striscioni, rivela l’attuale povertà delle categorie politiche. Oggi, quando la dialettica perversa fra razzismo istituzionale e razzismo “popolare”, spesso istigato da formazioni neofasciste e/o dalla stessa Lega, sembra aver raggiunto il culmine, si continua pigramente a parlare di “guerra tra poveri”. Per non dire della tendenza a ricondurre un fenomeno complesso com’è il razzismo a “odio” o “paura” e della reiterazione di slogan impolitici e moraleggianti quale l’ossessivo “Restiamo umani”: tanto antropocentrico quanto impolitico, come ho scritto più volte.

Per fare un altro esempio: in un appello recente, “Il Paese invecchia, Salvini condanna l’Italia al suicidio”, ospitato da il manifesto, si deplorano, sì, le infami politiche salviniane sull’immigrazione e l’asilo, ma in nome della ragione utilitaria: l’accoglienza di persone migranti e rifugiate servirebbe a contrastare il calo demografico, quindi “il declino inarrestabile dell’Italia”, e a salvare “settori fondamentali della nostra economia” che si reggono sul “lavoro, spesso servile, degli operai extracomunitari” (sic). Tali argomentazioni – che, in apparenza realistiche, vorrebbero essere convincenti rispetto a chi teme “l’invasione” – in realtà, sia pur involontariamente, rischiano di confermare lo status quo dello sfruttamento estremo e di evocare lo stereotipo di donne immigrate e rifugiate quali “incubatrici per la patria” altrui.

Per non dire che anche tra studiosi di sinistra, pur per molti versi meritevoli, v’è chi sostiene che quella di Salvini sarebbe xenofobia (letteralmente: “paura dello straniero”), non già razzismo, poiché prende di mira l’insieme delle persone immigrate e rifugiate, invece che i soli “neri”. Curiosamente, quasi un decennio fa, qualcosa di simile aveva affermato, da presidente della Camera, Gianfranco Fini, in occasione della presentazione del Dossier Caritas-Migrantes: “Se per razzismo si intende la dichiarata superiorità di una razza su un’altra, questo in Italia non c’è. Ma c’è, purtroppo, tanta xenofobia”. 

In tal modo si mostra d’ignorare la totale infondatezza della categoria di razza, ben provata da antropologi e biologi da quasi un ottantennio; e, conseguentemente, un dato di fatto evidente, analizzato da studiosi/e, me compresa, almeno da una trentina d’anni: qualunque individuo o gruppo umano possono essere razzizzati (trattati e considerati quali appartenenti a “razze” diverse); e ciò indipendentemente dalla visibilità fenotipica e perfino da peculiarità culturali, sociali, nazionali. A dimostrarlo sta l’antisemitismo: cosa che ha indotto Etienne Balibar, sin dal 1991 (in un articolo per Problemi del Socialismo), a sostenere che il razzismo attuale “può essere considerato, dal punto di vista formale, come antisemitismo generalizzato”.

Tra la povertà dell’analisi e delle categorie politiche, da una parte, e la capacità di mobilitazione, dall’altra, mi sembra vi sia un rapporto dialettico. Pur di fronte ad atti tanto gravi quanto altamente simbolici quale l’arresto della coraggiosa capitana della Sea Watch 3 e la strage di profughi/e, compiuta nel lager libico di Tajoura dall’aviazione del generale Haftar, tutto ciò che si è riusciti/e a realizzare, a Roma come altrove, sono alcuni ripetuti sit-in locali, per di più convocati solo da una parte del pur potenzialmente ampio movimento antirazzista.

E, almeno per ora, non sembra profilarsi alcun progetto comune di manifestazione nazionale che sia promossa da un ampio spettro di realtà associative, sindacali, politiche: neppure di fronte alla temibile prospettiva che il famigerato Decreto sicurezza-bis sia convertito in legge. Il che sancirebbe in modo definitivo il deciso inasprimento della criminalizzazione del soccorso in mare, finanziamenti ben più cospicui destinati ai rimpatri, un’anticostituzionale riforma del codice penale e l’estensione dei poteri delle forze di polizia. Le quali già oggi, incoraggiate da parole e opere del ministro dell’Interno, non poche volte mettono in atto comportamenti persecutori contro persone immigrate.

Le ragioni di un tale impasse politico risiedono, certo, nella tendenza alla frammentazione e all’egolatria di gruppo (che si tratti di associazioni o di esigue “reti”); ma anche, mi sembra, nell’insufficiente consapevolezza della gravità della situazione politica presente.

Per tornare, pur con le opportune cautele storiche, alle analogie con gli anni del declino della Repubblica di Weimar, basterebbe riflettere su quanto l’uso salviniano della propaganda – rafforzata dalla “pornografia dei circuiti e delle reti”, per usare l’espressione quasi profetica di Jean Baudrillard (L’Autre par lui-même, 1987) – vada somigliando, anche per gli insulti, le volgarità, le rozze iperboli, a quello nazionalsocialista, divenendo, al tempo stesso, strumento di governo e di manipolazione delle masse.

Come ricorda, tra gli altri, Siegmund Ginzberg (Sindrome 1933, Feltrinelli 2019), anche per causa degli effetti della Grande Depressione, a partire dalle elezioni del 1930 molti operai, disoccupati, impiegati abbandonarono la sinistra votando in massa per i nazionalsocialisti. Oggi assistiamo a un fenomeno analogo: l’incalzante fuga di voti dall’area del centro-sinistra alla Lega. Per fare un esempio non da poco, secondo l’ipsos, quasi il 40% degli iscritti/e alla Cgil sostiene i partiti della coalizione fascio-stellata. Alle ultime elezioni europee i voti per il Carroccio avrebbero raggiunto il 18,5%. E Salvini godrebbe della simpatia del 44% degli/delle tesserati/e.

Se la comparazione, pur prudente, che ho suggerito dovesse apparire infondata, converrebbe meditare sulle stesse parole di Salvini. Tra le più esemplari, quelle pronunciate il 6 luglio scorso a Roma, durante una diretta Facebook: “Non sono operazioni di soccorso, queste
sono operazioni pianificate di invasione del Continente europeo sponsorizzate da miliardari non da filantropi, da speculatori miliardari alla Soros, che vogliono cancellare popoli, radici, culture e tradizioni e vogliono nuovi schiavi”. 

È una dichiarazione che ben sintetizza l’ispirazione nazionalsocialista del ministro factotum (ormai quasi un autocrate). Presente nel patrimonio ideologico leghista sin dagli esordi della Lega Nord, oggi è rafforzata anche dal fatto che non pochi militanti dell’eversione nera (Forza Nuova, CasaPound…) siano confluiti nella Lega. In quell’enunciato di Salvini, infatti, sono condensati alcuni temi tipici del nazismo storico: l’ossessivo leit-motiv dell’invasione, a quel tempo soprattutto da parte di ebrei poveri, l’associazione tra gli ebrei (ricchi) e i prestatori di denaro, la denuncia del “giudaismo della finanza internazionale” quale principio di dissoluzione della nazione; cioè, tradotta nel suo gergo, di cancellazione “di popoli, radici, culture e tradizioni”.

Di tale continuità con il fascismo e il nazismo, sono prova anche atti e parole in apparenza secondari, che nondimeno hanno effetti immediati sui comportamenti collettivi. Un esempio calzante è quello, di cui abbiamo già scritto, della sparata contro i “negozietti etnici”: “(…) che la sera diventano ritrovo di ubriaconi, spacciatori, casinisti (…) gente che beve birra fino alle tre del mattino (…) pisciano, cagano, fan casino”. Pronunciata dal ministro factotum (ormai un autocrate) l’11 ottobre 2018 dalla terrazza del Viminale e ripresa in video per una diretta Facebook, ricorda le campagne fasciste e naziste per il boicottaggio dei negozi ebraici.

So per conoscenza diretta che, in seguito alla volgare performance salviniana, v’è chi ha ricevuto una lettera di sfratto dalla propria bottega “etnica”: motivato, lo sfratto, non già da insolvenza nel pagamento del canone, bensì dalle medesime accuse di Salvini – “pisciano, cagano, fan casino” –, riportate quasi letteralmente, nero su bianco, se pur in un lessico meno grezzo. E poi, affittato un nuovo locale, ha subito pesanti incursioni da parte di squadre della polizia, giustificate da nient’altro se non dal sospetto che, per l’appunto, “pisciano, cagano, fan casino”.

Sappiamo bene e lo abbiamo scritto più volte che l’attuale deriva è anche il frutto delle retoriche, delle politiche, dei provvedimenti legislativi realizzati nel corso del tempo anche da governi di centro-sinistra. Oggi, tuttavia, si va compiendo un pericoloso salto all’estremo. Urgente e doveroso sarebbe tentare d’intralciarlo col massimo di mobilitazione possibile.

(18 luglio 2019)






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