Il regista senza volto. Conversazione con Terrence Malick

Mario Sesti

Niente domande dal pubblico, niente tv, e soprattutto niente fotografie: sono le condizioni che Terrence Malick ha posto per lo storico incontro svoltosi lo scorso 25 ottobre 2007 all’Auditorium di Roma, nel corso del quale uno dei più schivi, enigmatici e geniali registi americani contemporanei ha accettato di parlare del cinema italiano che più ha amato. Ma anche, caso più unico che raro, del proprio esordio e dei propri film. Ecco la cronaca di quell’evento straordinario.

Conversazione con Terrence Malick, a cura , da MicroMega 6/2010

Appena salgo sul palco della Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, il 25 ottobre del 2007 alle ore 18 e 09, dico: «Introduciamo sempre i nostri incontri come il frutto di un’occasione speciale, ma forse così speciale non lo è mai stata. Stasera c’è odore di leggenda nell’aria. È con noi un regista straordinario, che Michael Cimino ha definito “il più grande poeta della mia generazione”. Un lungo corteggiamento ci ha portati a convincerlo a venire qui nonostante la sua grandissima timidezza. Vi ricordo che le condizioni che Terrence Malick ci ha richiesto sono semplici e chiare. La prima è che non si facciano fotografie. La seconda è che voi facciate finta di non esserci. Proprio perché è una persona molto timida, l’incontro dovrà svolgersi come una tranquilla chiacchierata informale a casa di qualcuno». La sala è gremita, l’atmosfera morbida ma piena di attese. Appena seduti, Antonio Monda, che conduce l’incontro con me, dice: «Siamo onorati di avere fra noi un grande regista e un grande poeta. Siamo i primi a essere rimasti sorpresi quando Malick ha accettato la nostra offerta». Prima che ciò accadesse io avevo ammonito chiunque sul fatto che in sala c’era una nutrita presenza di personale specializzato per impedire che chiunque potesse usare qualsiasi dispositivo tecnologico per riprendere immagini fotografiche o in movimento. Il tono poliziesco che mi era uscito fuori aveva dato straordinariamente sui nervi prima di tutti a me. Terry Malick esce poco dopo.

Ha un cappotto che comunica con indecifrabile precisione l’idea di un esaurimento nervoso. Io e Antonio, nel backstage della sala dove siamo stati a chiaccherare un’oretta, abbiamo tentato inutilmente di farglielo levare («Sembrava che sotto potesse avere solo il pigiama», dirà, e scriverà, Mariarosa Mancuso sul Foglio). Appena il regista appare sul palco, con il suo corpo imponente e incerto che oscilla impercettibilmente come un’alga in un acquario, si solleva la lenta irresistibile marea di un applauso vasto e affettuoso, lungo e rassicurante, pieno di gratitudine ed emozione ma senza gli urletti e i gemiti tipici delle standing ovation, come dire: un’ovazione in punta di piedi – il pubblico, dopo quelle ammonizioni, si deve essere chiesto se almeno era consentito applaudirlo. E Malick non rivolge mai direttamente lo sguardo verso la platea. Non lo farà mai per tutto l’incontro.

Terry Malick è il regista di La rabbia giovane, del 1973 e I giorni del cielo, del 1978. All’inizio, solo due film, ma di tale natura e qualità d’avergli assicurato una fama e un prestigio singolari. Il primo racconta di due adolescenti in fuga per gli Stati Uniti, dal Sud Dakota fino in Canada, dopo che uno dei due ha ucciso il padre dell’altra. Il secondo, ambientato durante il periodo della grande depressione, mostra ancora due giovani che – come nel primo – scappano dopo che uno dei due ha commesso un crimine, ucciso un uomo. Entrambi i film sono fatti di un cinema in cui buona parte del racconto è occupato dalla descrizione dello spazio e guidato dalla voce fuori campo di uno dei protagonisti che commenta fatti e sensazioni della propria vita. In tutti e due i film c’è una scena violenta di incendio e distruzione, in tutti e due i film lo spazio si dilata e contrae oltre misura e imprevedibilmente: orizzonti lontani e remoti, decapottabili esauste che sollevano ali di polvere come animali moribondi, distese di grano che fremono. In tutti e due compaiono dettagli di insondabile suggestione. Un piccolo pesce agonizzante gettato tra le erbacce, un gazebo deserto illuminato nella notte, un bicchiere di cristallo incastrato tra i sassi del letto di un torrente. In La rabbia giovane c’è un uomo – il padre della giovane protagonista – che sta dipingendo un enorme cartellone pubblicitario sullo sfondo di un deserto, vuoto e luminoso, con un’aria seria e assorta, come se fosse il primo uomo ad aver mai fatto una cosa del genere.

Ci abbiamo messo quasi due anni, io e Antonio Monda, per convincere Terrence Malick a fare un incontro a Roma, con il pubblico. Abbiamo iniziato nell’autunno del 2005. I fratelli Coen, che erano stati ospiti all’Auditorium per una delle nostre serata dedicate al cinema americano, gliene avevano parlato in termini molto positivi. Quando Monda lo chiamò per proporgli di venire a Roma per un’occasione analoga, scoprì con stupore, ma anche provvisoria vanità, che Malick sapeva già di cosa si trattava. Arrivammo quasi a un passo accettando via via tutte le condizioni. Niente domande dal pubblico (peccato). Niente tv (figuriamoci). E soprattutto niente fotografie (per carità). Malick viene descritto da chi lo frequenta abitualmente come un tipo in grado di scappare improvvisamente a gambe levate se, di fronte ad amici, qualcuno lo riconosce e gli fa delle domande su di lui o il suo cinema.

Esiste una sola fotografia autorizzata ed è piuttosto recente, degli anni Novanta. Pare sia stata rubata dal padre – l’unico al quale Terrence, evidentemente, non può aver imposto la legge marziale della sua timidezza. Può tutto ciò non avere qualcosa a che vedere con traumi familiari molto profondi (un fratello suicida, un altro morto drammaticamente in un incidente automobilistico)? Pensare che i prodigi del suo cinema possano essere semplicemente spiegati e classificati attraverso qualcosa del genere è un ragionamento troppo inqualificabile per starlo a sentire. Comunque, la prima volta, alla fine della trattativa, Malick dice che è disposto a venire ma che proprio non se la sente di incontrare il pubblico. Però viene volentieri per incontrarci. E magari andare a cena insieme. Io e Antonio, spossati, e con un po’ di imbarazzo, decliniamo.

Dopo il secondo film, alla fine degli anni Settanta, Terrence Malick scomparve. Qualcuno diceva che vivesse a Parigi (e forse in un istituto di cura), qualcun altro che avesse raggiunto uno dei fratelli che aveva una fattoria nel Sud degli Stati Uniti. Nel 1989 incontrai Michael Cimino per un’intervista a Roma e proprio allora parlammo di Malick. «Che fine ha fatto?», si domandò allora di fronte a me il regista del Cacciatore. «Con altri amici, abbiamo cercato di trovarlo, ma senza successo. Era il regista di maggior talento della mia generazione», disse. Cosa abbia fatto Terrence Malick in quegli anni, è ancora un mistero (quando gli chiedemmo prima dell’incontro a Roma se era possibile fargli delle domande su quegli anni di latitanza, rispose che avrebbe preferito evitarlo – come del resto qualsiasi altra cosa che lo riguardasse direttamente). Si è detto che abbia da sempre lavorato, senza essere accreditato, a molte sceneggiature di film di altri. E che forse avesse continuato a farlo. In ogni caso, improvvisamente, verso la fine degli anni Novanta, il regista si ripresenta con un film di guerra, La sottile l
inea rossa
, che lo ha riproposto con energia all’attenzione di pubblico e critica.

Il suo ritorno al cinema è un tale evento che i maggiori divi di Hollywood fanno la fila per essere diretti da lui, anche sottopagati. Per una coincidenza che è difficile non considerare significativa, due autori emblematici degli anni Settanta, Terrence Malick, il più ineffabile, e Steven Spielberg, quello più fortunato al botteghino dello stesso decennio e di quello successivo, hanno realizzato entrambi, contemporaneamente, un film che racconta le vicende di un gruppo di soldati durante la seconda guerra mondiale (La sottile linea rossa e Salvate il soldato Ryan): iniziano addirittura nella stessa maniera, durante uno sbarco, sotto la pioggia del fuoco nemico. Due anni fa, invece, con The New World Il mondo nuovo, Malick comincia un film con un altro, più fatidico sbarco. Quello degli occidentali in Virginia. È una pellicola che racconta come in un lunghissimo sogno la più famosa leggenda d’America, quella di Pocahontas. Malick inizia come se stesse girando un documentario su un pianeta sconosciuto: gli europei che attraccano in Virginia nel Seicento, e gli indiani che si parano loro davanti, sono due specie animali colpite dalla reciproca stranezza. Si annusano, si scambiano suoni incomprensibili, movenze magiche. Come se tutti e due i popoli, improvvisamente, scoprissero l’esistenza di qualcosa di veramente nuovo nel mondo. E come in tutti i suoi film, anche in questo, c’è una voce fuori campo che sembra essere la prima a trasalire per ciò che racconta. I suoi personaggi sembrano spesso sospesi in un flusso di esperienze e sensazioni delle quali sono i primi attoniti spettatori, come se tutto ciò che sentono dentro di loro li tramortisse per intensità ad ogni pensiero, ad ogni minima alterazione dell’animo. Non è questo il fascino segreto dei suoi film? In tutto il suo cinema l’amore è un rapimento, la natura una distesa stordente e maestosa e gli uomini si scambiano torti e violenza, e talvolta affetto e tenerezza, distratti solo dall’ascolto di un dolore irreparabile e ipnotico. Attualmente ha pronto un nuovo lavoro (The Tree of Life) e non conosco direttore di festival che non sarebbe disposto a un certo numero elevato di crimini per averlo in anteprima:
«Il film si apre con un Dio che dorme sott’acqua, sognando le origini dell’universo, dal big bang in avanti», ha detto Brad Pitt che, insieme a Sean Penn, è uno dei protagonisti della pellicola.

Abbiamo ricominciato a parlare con Malick nell’inverno dell’anno successivo. È una persona che irradia incondizionatamente gratitudine e cortesia, al telefono non facevamo che augurarci insieme che ce l’avremmo fatta. Antonio, con una determinazione e un’assiduità che meriterebbero un’onorificenza di solennità militare, ha condotto un pressing insonne. Io, con l’idea di non lasciare nulla d’intentato, scrivo delle lettere nelle quali non rinuncio ad alcuno strumento di seduzione. Sapevo che Malick aveva studiato Heidegger all’università. Mi avventuro in alcuni passaggi decisamente inconsueti per una lettera formale di invito, il fatto che siano in inglese mi protegge dallo scoprirne fino in fondo l’assurdità. Malick è una sorta di Salinger per chi, come noi, ha iniziato a fare del cinema una malattia, a partire dagli anni Settanta. Probabilmente qualsiasi altro cinefilo al mio posto avrebbe citato anche Santa Teresa o Jack lo Squartatore, se fosse stato necessario. Inoltre, forse, l’analogia con Salinger non finisce con la passione per il non farsi vedere che hanno entrambi: l’importanza biografica decisiva della famiglia, il fatto che entrambi abbiano dato vita a costruzioni romanzesche destinate a frugare in profondità nella generazione giovanile loro coetanea, sono tratti comuni anche se è inopportuno forzare oltre l’analogia e se nella letteratura su Malick il paragone più frequente non è con Salinger. È con Mark Twain. I suoi personaggi si avventurano per l’America con lo stesso spirito d’intraprendenza e selvaggia libertà di Huckleberry Finn. Nella realtà, invece, va in giro per il mondo scortato da una moglie altrettanto dolce e gentile che lo tiene al riparo da situazioni avverse. Nella trattativa finale forse ha avuto un ruolo decisivo. La vera svolta, con Malick, è quando stabiliamo che verrebbe volentieri a patto di non essere costretto per forza a parlare dei suoi film (che io e Antonio Monda accettiamo questa condizione significa abbastanza chiaramente il grado di estenuazione e di affascinante irrealtà oltre il quale ci stavamo anche noi avventurando). Malick, lo dice lui stesso, viene – ma solo se potrà parlare dei film italiani che ama molto. Accettiamo subito, un po’ «all’italiana», però. Una volta a Roma, sarà davvero impossibile portarlo a conversare sul suo cinema? Gli spediamo i film che dice di voler rivedere e gliene segnaliamo degli altri (come nel caso di Totò che è la prima proposta che è lui stesso a fare). La moglie, vicino a lui, per un mesetto, riguarda o scopre questo cinema che Terrence, diligentemente, ripassa in dvd.

L’incontro, per il quale abbiamo lavorato per così tanti mesi, avrà qualcosa di magico ed elusivo al tempo stesso. Alla conferenza stampa quando per la prima volta annuncio il nome di Malick, i giornalisti fanno tutti in coro un brusio di sorpresa così perfetto come quello dei film. I biglietti vanno via in pochi giorni, alcuni inviati esteri vengono esclusivamente per questo e qualcuno rimane fuori protestando (chissà quanto avrei baccagliato io se fosse successo a me). Prima di salire sul palco, finalmente io e Antonio lo incontriamo insieme alla moglie. Ci ringrazia e noi rilanciamo con una profusione di piccole benevole cerimonie che sembrano poter durare all’infinito. Tra l’altro, qualche giorno prima, grazie alla giornalista Mariuccia Ciotta, ci era pervenuto un cortometraggio degli anni Settanta che ci aveva lasciato a bocca aperta: Malick vi recitava da assoluto protagonista. È un documento completamente sconosciuto. Non compare in nessun repertorio, nessun libro, nessun sito. Una scoperta totale. Con lunghe basette e un cappello anni Quaranta da reporter male in arnese, sensibilmente somigliante a John Belushi, quasi da solo in scena, in un interno domestico che è facile immaginare nei pressi di qualche campus universitario, smozzica un monologo dal sapore teatrale, vagamente beckettiano, di spirito antibellico. Un suo amico di allora, Felipe Herba, espatriato cubano, oggi specialista del restauro di film, lo aveva ripreso negli anni delle proteste anti-Vietnam e immortalato implacabilmente nello spirito dell’epoca.

Cosa era successo, da allora, per fargli maturare una così totale idiosincrasia nei confronti della possibilità che qualcuno potesse registrare la sua immagine? Lo stesso Herba, dopo aver immortalato Malick in Victor’s Notebook (è questo il titolo del cortometraggio), ne perse le tracce e non l’ha più rivisto da allora. In ogni caso, la Festa, con l’omaggio a Terrence, sembrava essere il luogo perfetto per proiettare questo lavoro completamente inedito. Quando gli chiediamo il permesso di mostrarlo durante il festival, Malick, più che impaurito sembra sbalordito del fatto che qualcuno possa avere avuto anche l’idea di farlo. Io e Antonio lasciamo perdere e facciamo finta di niente. Parliamo degli autori e attori italiani che ha scelto di mostrare e di commentare. In Italia ha visto Benigni, a Roma ha incontrato Sean Penn (la sera stessa dell’incontro parteciperà alla prima di Into the Wild, nascosto tra il pubblico). Lo rassicuriamo sulle regole di base dell’incontro (niente foto e riprese, niente domande dal pubblico, illuminazione bassa) e alla fine lo informiamo che ci siamo permessi di scegliere due sequenze tratte dai suoi film e a partire dalle quali faremo delle domande sul suo cinema. Malick non reagisce e sembra accettare di buon grado. Forse, nell’immininenza dell’incontro, è troppo spaventato per organizzare delle reazioni appropriate. Mesi dopo, la moglie ci confesserà che i postumi dell’evento si sono prolungati per diversi giorni successivi. Per tutto l’incontro parlerà rivolgendo lo sguardo solo a noi, dando risposte concise e sintetiche ma liberando le parole con cura come se fossero piccoli oggetti preziosi. L’unica maniera di difendersi dall’attenzione del pubblico sembrava essere quello di cercare di ignorarlo. Messo per iscritto, ciò di cui ha parlato, sembra possedere, a volte, la concentrazione allusiva dell’aforisma («Abbiamo voluto vedere quello che era originariamente l’America, suggerire indirettamente attraverso la musica quello che abbiamo fatto con quello che ci è stato dato») ma il vero spettacolo, il vero cinema, quella sera in Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, era la sua ansia dissimulata dall’eccessivo sorriso bonario, la sua timidezza sul palco, quell’aria da gigante fragile, da poeta che non cede neanche il cappotto nella speranza che possa proteggerlo da una troppo violenta esposizione al mondo. Spero che un giorno, prima o poi, potrà perdonarci.

Si abbassano le luci e la prima clip che scorre sullo schermo è quella, assai nota, della marionetta, del film Totò a colori: per sfuggire a degli inseguitori inferociti, Totò si infila in un teatro per burattini e si finge uno di loro. Totò, in realtà, inventò questo numero e lo mise a punto molto tempo prima del film, negli anni dell’apprendistato e poi del grande successo nel teatro leggero e nel varietà. Il virtuosismo mimico della sua celebre camminata da burattino slogato dallo sguardo ipnotico, oggi, nel cromatismo scintillante del ferraniacolor – Totò a colori è il primo film a colori della storia del cinema italiano – ha qualcosa di espressionista e minaccioso.

Cosa ama, in particolare, di Totò?
Questo è il suo primo film che ho visto ed è stata una gioia scoprire qualcuno che, proprio come Chaplin e Keaton, è così pieno di vitalità da saperti far ridere di ogni lato della vita. Questo è anche l’unico film di Totò che puoi trovare in America; non è stato neanche tradotto in inglese, ma, nonostante questo, è stato riconosciuto subito come un vero talento comico.

Poco prima di entrare, nel backstage, parlavamo proprio della malinconia che Totò esprime: è questo ciò che più la colpisce in lui come attore?
Non sbagli. Ha una faccia molto malinconica, un po’ come Buster Keaton e ho sentito dire che i bambini italiani avevano paura di lui, perché somigliava alla morte, perché la morte era appollaiata sulla sua spalla. Aveva quella faccia così triste eppure riusciva a essere così divertente.

In realtà, ad eccezione di qualche grande maestro come Pasolini, non fu mai preso in considerazione dal cinema d’autore. Dopo la sua morte è stato molto rivalutato e oggi è celebrato come merita.
Non riesco proprio a spiegarmi come mai non abbiano apprezzato la sua grandezza. Del resto, però, lo stesso destino è toccato a Keaton, che fu popolarissimo negli anni del muto, ma che ora nessuno conosce e che alla fine della carriera soffrì di un isolamento artistico proprio come Totò. Ora però è apprezzato da tutti. La storia gli ha dato ragione.

Questo apprezzamento ci ricorda anche che c’era un’affinità speciale tra lei, Spielberg, Coppola e gli altri grandi registi degli anni Settanta. Eravate una generazione che amava molto il cinema europeo. Oltre a consultarvi e consigliarvi quando giravate i vostri film, come ci ha raccontato una volta, parlavate anche di cinema europeo confrontandovi sui film che vi erano piaciuti?
Certamente. Non ricordo nessuna conversazione specifica, ma ricordo l’emozione che ci provocava l’uscita di un nuovo film, ogni volta era una scoperta. Eravamo consapevoli che stavamo guardando qualcosa di rivoluzionario, una finestra sul mondo che potevamo decidere di attraversare in ogni momento.

Tra i grandi cineasti della sua generazione, Spielberg, Coppola, Scorsese, De Palma, Bogdanovich, ce ne è qualcuno di cui ama particolarmente i film?
Ce ne sono molti, non saprei quale. Sarebbe come scegliere tra le stelle nel cielo. Inoltre, quando guardi un film diretto da qualcuno che conosci bene, diventa davvero difficile giudicarlo in maniera obiettiva. Non lo giudichi solo per i suoi meriti reali ma come qualcosa fatto da un parente, da un cugino. Mi è difficile citarne uno in particolare, ma non posso dimenticare lo spirito che ci muoveva in quegli anni.

Per concludere su Totò, vorrei condividere con il pubblico un’osservazione che ha fatto in precedenza: nel panorama del cinema comico italiano, l’unico vero erede di Totò sembra essere Roberto Benigni. I due attori hanno qualcosa in comune, vorrei che ce ne parlasse.
Sì, credo ci sia una somiglianza tra i due. Benigni ha una gioia, un amore, una positività fuori dal comune. Tuttavia riesce anche lui a essere estremamente malinconico, creando un contrasto davvero marcato, proprio come Totò e Buster Keaton, ma anche Charlie Chaplin. Credo veramente che possa essere il loro erede e continuare una grande tradizione comica che è rassicurante sapere ancora viva e attiva.

La seconda clip è tratta da un film di Pietro Germi, Sedotta e abbandonata. Il protagonista, interpretato da Saro Urzì, un attore caratterista che nei film di Germi sembrava dotato di una ricchezza mimica e grottesca che non è possibile rintracciare in film di altri, dopo aver scoperto che la figlia è incinta, aggredisce l’intera famiglia di urla e sberle, la perdita dell’onore di fronte alla comunità della cittadina siciliana in cui abita, gli procura degli attacchi di panico che solo la collera è in grado di decongestionare. «Se potesse», ha detto una volta del personaggio Stefania Sandrelli che interpreta nel film la giovane protagonista, «prenderebbe a schiaffi l’intero paese». In realtà, nella pellicola, poco ci manca. Ciò che ci ha più sorpreso quando abbiamo conosciuto la scelta delle sequenze che intendeva mostrare durante questo incontro è il fatto che esse siano, in buona parte, tratte da commedie. Non si può dire che ci sia un grande spazio per la commedia nei suoi film e proprio per questo ci piacerebbe conoscere cosa l’attira, in generale, della commedia e cosa ama, in particolare, del cinema comico italiano del passato.
Partiamo da questa sequenza. Il tipo di umorismo che usa il regista è molto raffinato: non è il tipo di ironia che ti fa ridere fragorosamente, ma che ti lascia una sensazione che ti scalda il cuore. È un umorismo molto saggio, che ti abbraccia come fossi un bambino e ti fa sentire leggero. Alla fine, tutto torna al proprio posto, come se fosse governato da un’entità superiore. Nelle commedie di Germi e Fellini come in quelle di Buster Keaton o Benigni è presente questo tipo di ironia molto diversa da quella contemporanea, che punta al cinismo e non rispetta nu
lla, che è più fredda e distaccata. Quei film, invece, avevano l’effetto della luce del sole, erano una medicina. Penso anche che i film comici abbiano un potere, per certi versi superiore a quelli drammatici, di parlare di temi importanti senza per questo farne oggetto esplicito di un discorso. Prendiamo, per esempio, ciò che questa pellicola dice sulla famiglia, i cui valori – penso – si stiano oggi disintegrando. Questo film termina con un omaggio alla famiglia, in chiave ironica, e spietata, che difficilmente uno spettatore dimenticherà anche molti anni dopo averlo visto.

Sta dicendo che la comicità è una sorta di terapia?
Assolutamente. Sedotta e abbandonata e Divorzio all’italiana hanno questo effetto. Quando Mastroianni appare per la prima volta in Divorzio, col suo sguardo annoiato e la sigaretta col bocchino… è semplicemente fantastico.

Ha citato Divorzio all’italiana, uno dei pochi film non di lingua inglese, in tutta la storia degli Oscar, ad averne avuto uno per la sceneggiatura. Ma la sua passione per Germi non riguarda solo quel periodo, è vero?
Sono molto legato a quel periodo perché erano gli anni in cui arrivarono negli Stati Uniti anche i primi capolavori di Fellini: Lo sceicco bianco, Il bidone. Effettivamente la sceneggiatura conta molto, ma soprattutto contano gli attori; sono stupito di non aver più visto l’attore che interpreta il padre in Sedotta: è davvero straordinario. Pensavo fosse uno dei più importanti attori nel panorama italiano.

E invece è virtualmente sconosciuto. Era straordinario soprattutto nei ruoli che Germi gli affidava. Lei ha avuto sempre una grande ammirazione per gli attori. Cosa fa un attore grande? Cosa, di un attore, attrae un regista?
Per alcuni grandi attori come questi che abbiamo citato, non sembra necessario recitare, nel senso che sembrano avere il personaggio dentro di loro per quanta vitalità gli conferiscono. È come se catturassero un po’ della loro vita e la facessero propria. È come se respirassero dentro il film. E quasi tutti gli attori di queste commedie sono straordinari.

Molti grandi attori, da George Clooney a Sean Penn a John Travolta, per il film con il quale è ritornato al cinema dopo vent’anni di assenza, La sottile linea rossa, hanno accettato un compenso ridotto, rispetto al loro abituale, pur di poter lavorare con lei.
È vero. Ho ricevuto una grande dimostrazione di generosità da parte di molti grandi attori e ne sono onorato.

Non ama per nulla essere fotografato e, praticamente, non esistono sue fotografie. Però appare, anche se brevemente, in una scena di un suo film La rabbia giovane. Come è successo?
Oh, quella fu proprio una necessità. L’attore che doveva fare quella parte non si presentò sul set quella mattina e allora cominciai a scherzare con la troupe dicendo: «Beh, vorrà dire che questo ruolo lo farò io». Allora mi misi l’abito previsto per quel personaggio e quando hanno battuto il ciak ho capito cosa deve affrontare un attore davanti alla macchina da presa. Non riuscivo a smettere di ridere. Martin Sheen, l’attore con il quale interpretavo la scena, mi guardava con aria serissima e io scoppiavo a ridere ogni volta. Quando finimmo, dissi che avremmo rigirato la scena il giorno dopo con l’attore che doveva farla, ma lui disse di no, che avremmo tenuto quella scena girata con me. L’ho pregato di ripensarci ma non ha ceduto. Sono stato incastrato dal mio amico Martin.

In quella scena indossa un cappellone texano, uno Stetson.
È il cappello che indossavo sempre sul set per via del caldo e del sole. C’è davvero bisogno di uno Stetson laggiù, eravamo nel Sud-Est del Colorado, ma sembrava il Texas. Un sole incredibile, come in Sicilia.

La terza clip mostra al pubblico quella che è forse la scena più famosa tra quelle scelte da Malick. Tratta dallo Sceicco bianco di Fellini, vede Brunella Bovo, nei panni di una giovane di provincia in luna di miele a Roma, coronare il sogno di incontrare l’eroe dei suoi fotoromanzi preferiti, scorgendo in una radura Alberto Sordi che si dondola su un’altalena ciclopica appesa ai rami di pini altissimi: una apparizione che fonde misteriosamente arcadia e fumetto esotico, idillio pastorale e avventura da appendice. È, forse, da regista, la prima vera zampata cinematografica dell’inimitabile fantasia visionaria di Fellini destinata a segnare come nessun’altra il cinema italiano, e internazionale, per tanti di quegli anni.
Penso sia la scena più famosa del film. Si vede questa ragazza di provincia venire alla ricerca di un mondo più grande e più bello di quello che conosce. La simpatia del pubblico va a lei più che allo sceicco, che è solo un mistificatore, un truffatore. Tuttavia non si riesce a non voler bene anche a lui. Vorresti credere che è qualcosa di più di un personaggio di fotoromanzo, ecco perché amo questa scena. È come se fossimo immersi nel mondo di lei, nella sua immaginazione. La natura è molto presente: tutti quei pini così tipicamente italiani. È una grande scena.

Conosce altri film di Alberto Sordi? Le piace come attore?
È un grandissimo attore. Come Totò, può farti tornare bambino.

La clip successiva: Il finale del Posto di Olmi, un film che compare molto più spesso di quanto si sappia nella lista dei film più amati da grandi registi stranieri (era uno dei film preferiti di Kieslowski, è assai amato da Scorsese). In un’atmosfera che sembra un’acquaforte ispirata da Gogol o Kafka, in un ufficio stipato da scrivanie di impiegati, uno tra i più anziani, carico di paura e rancore, si lamenta con il capoufficio del fatto che la scrivania lasciata vuota dalla morte di uno di loro, situata in posizione più favorevole per visibilità, sia stata data all’ultimo arrivato, il giovane, assunto da poco, che è anche il protagonista del film. Una scena di straordinaria tensione, tutta bisbigli, risentimento trattenuto e sguardi muti carichi di sospetto o timore.
È un film molto bello. Mostra quello che succede quando una persona viene schiacciata dal mondo. È qualcosa che, almeno in parte, tutti finiamo con l’accettare, sapendo che c’è qualcosa più forte di noi che domina il pianeta. Eppure, Olmi è straordinariamente abile nel mostrarci che c’è una piccola, vivida fiamma che brucia in Panseri – credo sia questo il nome dell’attore – che non si spegnerà. È solo appena accennato e lo spettatore rimane nel dubbio. Ma questo è parte integrante del suo fascino. È un film elegantissimo e ricco di umorismo sottile. Solo raramente fa ridere ad alta voce – come nella scena nella balera, che precede la scena conclusiva, e nella quale muore l’impiegato per la cui scrivania si accende il conflitto nel finale. Ma non è solo un gran film, ha sempre già avuto qualcosa come il respiro di un classico. È davvero un capolavoro.

E alla fine si arriva ai film di Malick. La prima scena è tratta dalla Rabbia giovane. «Ho una pistola signore. È sempre una buona idea averne una»: la sequenza del film che abbiamo scelto vede un giovanissimo Martin Sheen, in completo jeans, uccidere, in casa sua, Warren Oates il papà di un altrettanto giovanissima Sissy Spacek. La regia di Malick, tutta in
interni e luce naturale e movimenti invisibili che seguono quelli dei personaggi, inizia la sequenza con un piccolo prodigio tecnico (all’inizio Oates appare di sfuggita riflesso in uno specchio, come una miniatura vivente ritagliata nel buio), ma è soprattutto straordinario il modo in cui filma la goffaggine di un assassinio: Sheen è insicuro e più terrorizzato da ciò che sta facendo di quanto lo sia la sua vittima e la Spacek, benché tutto si svolga tra le mura della casa in cui è vissuta, sembra assista a qualcosa che riguarda la vita di un’altra persona. Solo quando il padre è a terra gli si avvicina, come se si ricordasse improvvisamente di lui. Come nella vita, il moribondo perde conoscenza prima che abbia la possibilità di dire qualcosa d’importante.
Quando il film è uscito è stato accolto come un capolavoro; vorrei che mi raccontasse come è nata questa sequenza e se è diversa da come era stata scritta. Vorrei sapere tutto quello che ricorda sulla genesi del film.

Penso che corrisponda quasi totalmente alla sceneggiatura. Fu una delle prime scene che girammo e non avevo abbastanza esperienza per allontanarmi dalla sceneggiatura originale. Poi, però, cominciammo a distaccarci progressivamente dallo script finché non lo abbandonammo completamente. Rivedendo la scena ricordo la difficoltà di muovere la cinepresa in uno spazio così angusto e il tempo che ci volle per preparare le luci e l’angolo di ripresa giusto perché si vedesse il padre riflesso nello specchio. Avevo a disposizione Warren Oates per il ruolo del padre solo per una settimana e lavorando con lui ero ancora restio ad abbandonare la sceneggiatura.

Warren Oates era già famoso per aver preso parte a molti film di Sam Peckinpah, mentre invece Sissy Spacek e Martin Sheen erano praticamente sconosciuti. Come li ha scelti? Ha fatto dei provini? Sheen veniva dal teatro…
Martin faceva teatro e il direttore del casting lo vide passare per strada e lo fece chiamare per un provino. Fu una casualità. Anche per Sissy Spacek fu un colpo di fortuna. Arrivò al casting per accompagnare un’amica e quando ho scoperto che veniva dal Texas ci siamo messi a parlare. Aveva con sé una chitarra e mi convinsi rapidamente che poteva essere giusta per la parte.

Chi ha visto il film sa che i due ragazzi sono anche dei killer.
Lo è solo lui in realtà.

È vero. Lei lo seguirà ed entrambi verranno arrestati. Ma c’è qualcosa comunque che li rende amabili, o che comunque ci fa seguire il loro punto di vista. C’è qualcosa che Terrence Malick ama di questi due personaggi?
Li ricordo a stento, ma ricordo bene gli attori. Sono stati straordinari a rendere così umani i loro personaggi. Martin aveva un compito assai delicato perché interpretava una sorta di moral idiot. Ma sono molto grato anche a Sissy Spacek perché ha donato al suo ruolo quella freschezza e quella naïveté necessarie per renderla vera.

Questo film è assai amato da Tarantino che ha addirittura preso di peso parte della musica della pellicola per usarla in una sua sceneggiatura. Un’altra caratteristica del suo cinema è la voce fuori campo: intensa, letteraria, così radicata nell’intima profondità dei personaggi. Spesso, però, le immagini, piene della bellezza della natura, del mondo, propongono un punto di vista quasi opposto – come se chi guardasse stesse fuori, fosse completamente sprofondato nel mondo esterno. Prova le stesse sensazioni che noi spettatori proviamo quando gira un film?
Credo di capire bene il discorso: sembra esserci qualcosa di più grande di loro che sovrasta i miei personaggi e gli eventi di cui sono protagonisti. Un po’ come nella scena dello Sceicco bianco che abbiamo appena visto, con il cinguettio degli uccelli e la natura selvaggia intorno ai protagonisti. Ma penso che attraverso la grazia e la semplicità di alcuni personaggi si possa comunicare più che con la colonna sonora. È il regalo più bello che un attore può fare a un regista.

Anche un grande autore letterario, Corman McCarthy, usa una sorta di voce fuori campo nei suoi romanzi per spiegare riflessioni, sentimenti e pensieri del protagonista. Voi due siete amici; ha mai pensato di adattare per lo schermo uno dei suoi libri? I fratelli Coen lo hanno appena fatto…
Oh sì. Si chiamerà No Country for Old Men e lo raccomando a tutti. Ci conosciamo ma non così bene. Comunque so che i Coen stanno per girare un film anche dal suo libro La strada, che parla di un padre e un figlio in viaggio attraverso uno scenario apocalittico. Non ho mai provato ad adattare un suo libro per il cinema, ma ho letto tutti i suoi romanzi e trovo che siano perfetti per diventare film. Sarà una pellicola inconsueta per i Coen: non c’è molto umorismo, anzi, c’è molta tensione, come in un film di Hitchcock.

La storia somiglia un po’ a quella di La rabbia giovane
No Country for Old Men? Mi piacerebbe davvero se fosse così! Forse nei paesaggi, visto che è girato in New Mexico, vicino al Colorado, dove girammo La rabbia giovane. Sono paesaggi abbastanza simili.

Una cosa che non c’entra nulla con quello che stiamo dicendo: è vero che, quando faceva il giornalista per il New Yorker, è stato mandato in Bolivia per un servizio sulla morte di Che Guevara?
Sì, è vero. Mi mandarono lì per seguire il processo di Régis Debray, un intellettuale francese che aveva seguito Che Guevara nel suo tentativo di portare la rivoluzione in Bolivia e che venne catturato poco prima che il Che venisse ucciso. Tornai a New York e lavorai su quel reportage per parecchio tempo senza venirne a capo. Non ci avevo capito molto. E alla fine spiegai alla redazione che non ero in grado di fare un servizio o un articolo.

«I selvaggi ci fanno spesso cortese visita. Timidi, come un branco di cervi curiosi»: i film di Malick molte volte contemplano almeno una scena in cui la macchina da presa galleggia in un oceano di erba alta come accade all’inizio di questa ultima clip tratta da Il mondo nuovo. I nativi americani circondano gli europei come animali stupiti e giocosi. Bussano con il pugno sull’armatura, sfiorano con le nocche le loro giacche di pelle, giocano a nascondino con l’erba, a un passo tra la brughiera e il forte di pali di conifere che gli occidentali iniziano a costruire come primo avamposto della loro colonia. È il primo passo che conduce alla fine del paradiso. E come spesso accade nel cinema di Malick, le voci e i suoni del mondo si sovrappongono a quella fuori campo di un io che, nel profondo di se stesso, cerca di riconnettere il senso delle cose dalla prospettiva di una durata che si prolunga indefinitamente nel tempo della propria vita.
Come mai ha deciso di usare Mozart per scandire l’incontro tra gli indigeni e gli inglesi?
Abbiamo sostituito all’ultimo momento la musica originale che era stata scritta per questa sequenza con Mozart perché credevo potesse sottolineare il sentimento di innocenza e ingenuità. Abbiamo voluto vedere quello che era originariamente l’America, suggerire indirettamente attraverso la musica quello che abbiamo fatto con quello che ci è stato dato. Mozart sembrava perfetto ed è stata una decisione dell’ultimo mese, poco prima di iniziare il missaggio.

Nelle prime scene del film lei descrive l’incontro tra nativi ed europei come fossero due
specie di animali che non si sono mai incontrati prima. Quanto c’era nella sceneggiatura originale che poi ritroviamo nel film?
In questo caso siamo molto vicini alla sceneggiatura, ma non è sempre così. Volevo cercare di suggerire la vera essenza di quei luoghi. Gli europei sbarcavano dopo viaggi di vari mesi, chiusi nelle navi e i nativi cercano di stabilire un contatto… olfattivo. Li annusano. I nativi americani si lavavano anche due volte al giorno, mentre gli inglesi non lo avevano fatto per molti mesi. Infatti potevano captare la presenza di un europeo da molto lontano. Volevo rendere questa sensazione.

Un’ultima cosa. È vero che ha preso parte alla stesura di molte sceneggiature per grandi registi senza però firmarle? La domanda più difficile alla fine…
Direi di no. Ho lavorato come sceneggiatore, prima di diventare regista, ma non so se qualcuno sia stato aiutato dal mio lavoro. Mi è piaciuto lavorare con alcuni registi, in particolare con Irvin Kershner, che è stato un maestro e un amico. Stuart Rosenberg e…

… anche Jack Nicholson.
Sì, ma ho lavorato solo per un giorno con Jack.

(16 maggio 2011)

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