In ricordo di Gian Maria Volonté

Il 6 dicembre 1994 scompariva, a 61 anni, uno dei più grandi attori del Novecento, Gian Maria Volonté. Lo ricordiamo partendo da un avvenimento della sua vita in apparenza marginale ma rivelatore di eloquenti e recondite sfaccettature della sua straordinaria personalità.

Giovanni Savastano

Io non ho mai ragionato in termini di simpatia o antipatia.
Può anche darsi che molti non mi possano vedere.
A me non interessa niente, perché non intendo vendere niente”.

Se mai si potesse scegliere un testamento spirituale tra le tante idee, pensieri, azioni, identità portate alla vita da Gian Maria Volonté, la suddetta frase, tratta da una sua intervista a Panorama del 9 dicembre 1971, sarebbe certamente eleggibile tra le più rappresentative.

A Maurizio Costanzo, all’epoca, deve essere sfuggita quella riflessione: se l’avesse letta, e con attenzione, forse si sarebbe preparato meglio psicologicamente a ricevere lo statuario Volonté nello studio di “Bontà Loro”, la sua trasmissione Rai di successo che una sera di quasi sei anni più tardi, il 2 maggio 1977, aprì le porte al grande attore sullo sfondo di una forte eco mediatica e di grandi aspettative da parte dell’opinione pubblica e della stampa.

La potenza di quella stentorea battuta finale, “non intendo vendere niente”, cozza, oggi come allora, con l’idea che l’uomo comune ha di chi usa ed espone il proprio corpo-volto-voce per rappresentare la realtà attraverso la finzione: nell’immaginario generale, l’artista che “non vende niente” pare un ossimoro. Difatti, nella affiliazione emotiva ed identificativa che si crea tra spettatore ed attore, sembra che il primo, tramite meccanismi psicologici narcisistici ed onnipotenti quasi infantili, pretenda di ‘comprare’, di possedere il secondo tanto da voler sapere tutto di lui: è il meccanismo del divismo su cui, per decenni, ha proliferato l’industria dello spettacolo mondiale, da Hollywood a Cinecittà. Ma Gian Maria Volonté, nella galassia della recitazione, è sempre stato un pianeta a sé stante, sfuggente a tutte le regole della diffusa e spesso malcelata triade ‘compromesso-conformismo-clientelismo’, basilare cocktail da manuale del ‘venditore’ ma, decisamente, formula killer di ogni creatività inventiva.

Pertanto, in quella puntata di “Bontà Loro”, Volonté, per l’ennesima volta nella sua esistenza, non scese a compromessi: non avendolo mai fatto sui set con i più grandi registi, avrebbe mai potuto cedere alle lusinghe di uno studio televisivo? Il conflitto dialettico, anche aspro, fu la sua linfa esistenziale tanto nella vita che nella carriera; e anche quella sera, sul piccolo schermo, egli diede forma ad una lotta all’ultimo ‘sudore’ (Costanzo commenterà: “…quando non eravamo inquadrati…Volonté ed io ci scambiavamo fazzoletti di carta utili per rinfrancarci”) su un ring per lui nuovo, quello di un salotto televisivo, progenitore dei futuri, dilaganti, ‘talk show’.

Con l’elettrodomestico dal tubo catodico, d’altronde, l’attore, nato a Milano ma cresciuto a Torino, aveva mantenuto sempre un rapporto di sana equidistanza, se si eccettuano le sue numerose apparizioni, tra gli anni ’50 e ’60, in storici sceneggiati Rai di spessore e di successo: in primis “L’idiota” di Dostoevskij con Giorgio Albertazzi, poi “Vita di Michelangelo” e “Caravaggio”, entrambi diretti da Silverio Blasi, fino alla fulminante partecipazione alla puntata in tre episodi “Una vita in gioco” nel popolarissimo “Le inchieste del Commissario Maigret” con Gino Cervi. Fu con il coinvolgimento – d’eccezione – negli show di intrattenimento “Diamoci del tu” di Giorgio Gaber e “Incontro con Joan Baez” (quest’ultimo da lui co-condotto insieme a Sergio Fantoni con testi di Giorgio Calabrese e regia di Enzo Trapani), entrambi del 1967, che Volonté mise una temporanea parola fine, per un decennio, al rapporto con la TV di Stato, in coerenza con quanto da lui stesso espresso in un’intervista a Lina Coletti pubblicata su “L’Europeo” nel 1972 in cui affermava, lapidario: “La TV è un grande stomaco, digerisce Fellini, Rossellini, digerirà Visconti, prima o poi digerirà anche noi”, peraltro in sintonia intellettuale con quanto dichiarato nello stesso momento storico da Pier Paolo Pasolini il quale, ai microfoni di Enzo Biagi, denunciava lo spudorato potere manipolativo dello strumento televisivo.

Volonté – Costanzo. Il match di stasera”, titolava quindi “La Stampa” il giorno della messa in onda della fatidica puntata di “Bontà Loro”.

Quell’intervista fece notizia all’epoca perché si rivelò un incontro-scontro tra due mondi opposti: da un lato, la propensione di Costanzo a carpire dettagli dal privato e dall’intimo dell’attore; dall’altro, la scherma di Volonté nel rimandare indietro questa ‘invasione’ per tentare di trasformarla in un dialogo di interesse generale e politico.

Quel ‘match’ fu uno dei più rilevanti momenti mediatici, simbolo di un punto di svolta (il famoso “cosa c’è dietro l’angolo” di Costanzo?) che, in quella fase storica, stava prendendo piede sull’onda del cosiddetto ‘riflusso’: il travasamento del privato nel pubblico che, a partire dagli anni ‘70, avrebbe progressivamente investito la nostra società, soprattutto grazie alla televisione, fino a confluire nell’edonismo degli ’80. Tutti i giornali e gli intellettuali a cavallo dei due decenni discettavano intorno a questa neo-nata metafora acquatico-ideologica, ‘riflusso’, appunto, indicante il ritiro nel privato, determinato da una delusione collettiva: da Giorgio Bocca (“riflusso è il risvolto della crisi dei miti e dei riferimenti che mancano”) al “Corriere della Sera”, che pubblicò addirittura in prima pagina la lettera di un lettore (poi rivelatasi falsa), il cui focus consisteva nel mettere in piazza la propria intimità sentimentale.

In quel contesto storico Volonté, nel braccio di ferro con Costanzo, sembrò fare inconsapevolmente ma simbolicamente da “diga” alla “inondazione” che i media stavano cominciando a mettere in atto: contro il nuovo motto “il privato è pubblico” inaugurato anche dal giornalista-conduttore, l’attore, fedele alla sua formazione intellettuale, e conforme probabilmente ad una personale ritrosia e timidezza, tentò di ribadire, all’opposto, che il personale è politico, ma non pubblico. Gian Maria venne definito spigoloso, difficile, ombroso dalla stampa dell’epoca: solo pochi intellettuali, con i loro interventi sull’argomento ‘riflusso’ incentrati, in quello scorcio del 1977, proprio sulla nuova formula inaugurata da “Bontà Loro”, colsero il rischio insito nello svelamento del vissuto personale in una cornice mediatica di per sé manipolatoria, foriera di una pseudo-cultura da ‘buco della serratura’ giocata sulla scacchiera di una informazione voyeuristica al prezzo della perdita di un sano pudore. Tra quei pochi emerse Oreste Del Buono, il quale dichiarò che la nuova moda delle ‘confessioni in pubblico’ non era altro che un gioco tra bari che spacciano racconti menzogneri per verità, come in un passatempo da salotto. Tale tendenza generale alla mancanza di reticenza conosce una battuta d’arresto anche grazie a Volonté che, davanti a milioni di telespettatori, solo in apparenza sembra buttarsi nella fossa del leone: “Quali sono i tuoi rapporti con le donne?” esordisce a telecamera accesa il caustico Costanzo. “Mah, i miei rapporti con le donne…” replica l’attore. “Solo in generale, poi scendiamo in particolari… io mi sono un po&rs
quo; documentato…
” lo incalza il conduttore. “Sì va bene… io pretendo di avere un rapporto soprattutto …con la tematica del mondo femminile, della donna… uno degli aspetti più significanti è proprio che questo tipo di tematica si innesta oggi anche nel privato con forza, e questo mi pare un aspetto molto interessante”. Fine primo round: già in questo scambio di battute si evidenziano grammatiche sentimentali e sintassi argomentative agli antipodi. Continuano: “…ma scendendo un pochettino più nel privato, il tuo rapporto con le donne con le quali hai avuto un rapporto sentimentale… qual è il tuo bilancio?”, insiste il giornalista”. La tendenza e l’aspirazione – non sempre ci sono riuscito – è quella di un rapporto adulto, alla pari…”, concede Gian Maria.

Il padrone di casa non si lascia sfuggire la piccola apertura e, nel tentativo di ammorbidire l’ospite-avversario, lo rassicura di non voler fare “dell’autobiografia, vorrei fare un discorso più generale… tu ritieni che sia giusto soffrire se finisce una vicenda e magari non ne comincia un’altra…?”. “Beh, sì, in qualche modo sì… ma se un rapporto è lungo, certo non è facile la soluzione, perché c’è un cumulo… un patrimonio… che a un certo punto s’interrompe… certe cose rimangono come parte di noi”. Tra una sudata e l’altra, rendendosi conto che Volonté cerca di non abbandonare la gentilezza pur mantenendo una durezza di fondo per evitare di personalizzare oltre un certo limite (il suo uso dell’impersonale noi al posto dell’io è quasi costante), Costanzo sposta abilmente l’asse su “una domanda più frivola: so che tu non ami, giustamente, essere definito ‘divo’. Ma poniamo l’ipotesi di una ragazza (che) ti chieda un autografo? Cosa fai? Eviti di essere Volonté, arrossisci?”. L’equilibrio tra il tono colloquiale e la riservatezza viene mantenuto dall’attore con un laconico “No, no, semplicemente dico che forse l’autografo non ha molto senso e che forse è meglio conoscerci così, ci diamo la mano… buonanotte”. Il ‘leone’-Costanzo, pronto per una zampata che azzoppi la sua presunta preda, cerca di affondare il colpo con un insinuoso “magari anche un appuntamento. O no?”.

Non mi è mai capitato”, lo gela, roccioso, Gian Maria, consapevolizzando pian piano che, sebbene avesse promesso di non chiedergli “dell’autobiografia”, il giornalista sta, sottilmente, facendo esattamente l’opposto per arrivare infine a tendergli una trappola tendenziosa quando gli domanda se è vero che lui abiti in una località di mare vicino Roma, “a Fregene se non sbaglio… da solo, è vero? Insomma, non vivi al centro di una città, che sarebbe, forse, un antidoto contro la solitudine… perché hai operato questa scelta?”.

A quel punto Volonté sferra, placidamente, un colpo da k.o., rispondendo, ma con un’altra domanda: “Ma tu dove vivi?”.

Si perde così il confine tra chi guarda e chi viene guardato, tra chi fa domande e chi risponde; i ruoli si confondono, chi osserva il quadro è anch’egli risucchiato nel dipinto. Il conduttore, trovandosi d’improvviso a farsi, suo malgrado, condurre, inciampa in un “Io a Roma, nel centro…”, allorché l’attore lo incalza: “Escludi di andare al mare?”, “No”, rilancia un ormai disorientato Costanzo, “non lo escludo, ma voglio dire, io vivo al centro…”. Da quel momento il dialogo si spezza dipanandosi in due rivoli inconciliabili, l’uno che pare avvilupparsi intorno ad una rotonda da traffico cittadino, l’altro che sfocia ineluttabilmente nella libertà del mare aperto: “Io vivo lì perché mi piace molto il mare, sono anche un appassionato velista, sto bene lì…” ribadisce Gian Maria, mentre Costanzo insiste su una presunta lettura psicologica in negativo della scelta del mare come avente un “significato di non voglia di stare con gli altri, di bisogno di chiudersi… o no?”. E Volonté: “Te l’ho spiegato, a me piace molto stare al mare… se poi vuoi un’interpretazione…”. Il round finale è definitivamente dirimente: “No”, insiste il giornalista, “io voglio la verità, quindi non chiedo…”, ma l’attore lo blocca: “Non c’è una sola verità. Il mare a me piace molto… questo non vuol dire che io non veda gli altri, perché è vicinissimo a Roma…”. Non c’è tempo di riprendere fiato agli angoli del ring, e allora Costanzo ripreme lo stesso tasto con un “si avrebbe, o almeno si ha, l’impressione di questo tuo bisogno di chiusura, invece non è vero evidentemente…”.

“Chissà…”, lo smonta Volonté, “forse tutti hanno bisogno qualche volta di stare con se stessi”.

Questa ultima frase segna il confine tra ciò che il mondo dell’apparire, in base a proprie leggi, considera una chiusura, e l’universo dell’essere che si espande invece su percorsi di diritti di intimità non omologata.

Una dinamica comunicativa di tale fatta deve essere stata la stessa sviluppata interiormente dall’attore Volonté nella costruzione dei suoi personaggi: quando gli chiedevano come entrava nei ruoli, rispondeva laconico “non entro e non esco”. Da ‘attore-scultore’ cresciuto nel Teatro ambulante dei Carri di Tespi, lui scansava l’eccesso e lavorava per sottrazione, scalpellando il marmo narcisistico e opprimente dell’Io per dare forma e spazio all’essere identitario – il personaggio – che da lì doveva nascere. Tutto l’opposto, quindi, del linguaggio televisivo già in nuce in quello scorcio temporale, rispetto al quale “Bontà Loro”, tutto sommato, era ancora su un crinale di possibile e decente differenziazione tra realtà e rappresentazione. Ma quella finestra finta che Costanzo apriva nello studio ad ogni inizio puntata, già si affacciava su un mondo di dilagante esasperazione dell’Io televisivo, una identità posticcia fatta passare per vera: da lì alla tv della rissa e del turpiloquio, sdoganata spesso anche dalle sue stesse trasmissioni-epigone, il passo sarà breve. La TV diventerà, a differenza del Cinema e del Teatro, l’unico mezzo usato per creare finzione spacciata per realtà.

Nei giorni seguenti alla messa in onda del ‘match’, le reazioni furono in sintonia con il tono del titolo scelto da “La Stampa”: “Volonté ha resistito”. Una ‘resistenza’ alla spersonalizzazione televisiva infilata sotto le mentite spoglie di una presunta “confessione” personale in pubblico: “Volonté era chiuso” chiosava l’articolista del quotidiano torinese, “Costanzo macinava le sue domande, l’attore le respingeva come un muro. Con una punta di ironia maligna: <<Certo che sono in difficoltà, non sei il personaggio televisivo dell’anno?>>. Costanzo incassa freddamente, Volont
é torna alla carica…<<Senti Costanzo, che ne pensi dei giovani?>>. Costanzo risponde ruvidamente <<Mi pagano per far domande>>. Costanzo non ha sedotto Volonté. Peccato”.
Quella seduzione, qualora fosse riuscita, forse sarebbe stata percepita dall’artista come una forma di prostituzione del proprio vissuto. Lo intuì probabilmente lo stesso Costanzo quando, nello stilare la pagella stagionale dei suoi ospiti del programma, riservando a Volonté un prevedibile 4, si contraddisse però nel giudizio motivazionale in cui, dopo avere ammesso che l’attore aveva “dato di se stesso un’immagine abbastanza silenziosa, abbastanza interessante”, confessò di essersi irrigidito “con deplorevole petulanza” nella conduzione di quell’intervista. Mentre il giornalista si avviava, sul finire degli anni ’70, a fondare e dirigere un nuovo quotidiano stile tabloid inglese dalla breve vita, chiamato eloquentemente “L’Occhio”, Volonté si ritraeva progressivamente per proteggere l’intimità di un Io non narcisistico, e non in overdose di se stesso: l’Io di un Artista della parola e del corpo che sperimenterà, suo malgrado, un graduale isolamento personale e professionale ed un allontanamento da un mondo esasperato dall’apparire che fagocita l’essere, ben rappresentato, dagli anni ’80 in poi, dalle tv dell’epoca berlusconiana. Dalla fine del decennio ’70, dopo aver regalato al mondo altre monumentali ‘sculture’ cinematografiche, da “Cristo si è fermato a Eboli” a “Il Caso Moro” per arrivare alla consacrazione con “Porte Aperte” di Gianni Amelio, candidato all’Oscar, Gian Maria Volonté dovrà spesso recarsi all’estero per trovare copioni, sceneggiature e personaggi degni della statura del suo talento.

E proprio fuori dai confini del suo Paese, concluderà la sua parabola di vita su un set cinematografico, quello de “Lo sguardo di Ulisse”, girato al confine tra la Bosnia e la Grecia settentrionale. L’ultima sua “statua” identitaria, esule, rimasta incompiuta.

* Psicoterapeuta e docente di Filosofia e Psicologia, è autore di diversi articoli e libri tra cui il saggio biografico “Gian Maria Volonté. Recito dunque sono”, pubblicato da Edizioni Clichy nel 2018.
(6 dicembre 2020)



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