La “crisi dei rifugiati” è crisi dell’Europa. Anche dei suoi pensatori

Annamaria Rivera

La chiamano “crisi dei rifugiati”, quando invece si tratta di una grave crisi dell’Europa. Tale da far temere che le spinte centrifughe, i meschini egoismi nazionali, le pulsioni nazionaliste, la crescita progressiva delle formazioni di estrema destra, la tendenza delle élite politiche nazionali a compiacere gli umori più intolleranti del proprio elettorato non solo conducano alla scomposizione dell’unità europea, ma possano concorrere ad aprire scenari ancor più inquietanti.

Di fronte alla “crisi dei rifugiati”, le misure adottate dall’Unione europea e da singoli Stati appaiono tanto ciniche, irrispettose dei diritti umani più basilari, guidate da “un’indifferenza di natura criminosa verso la sorte dei rifugiati”, per citare Barbara Spinelli; quanto incoerenti, contraddittorie, spesso controproducenti. A tal punto da sembrare il frutto di una mente collettiva delirante, se è vero che il delirio è anzitutto un disturbo della percezione e dell’interpretazione della realtà.

A sua volta, il delirio ha a che fare con la rimozione, troppo a lungo covata, del cattivo passato europeo nonché delle gravi responsabilità politiche odierne: è quasi banale ricordare che la fase attuale di esodi forzati (tali anche nel caso dei migranti detti economici) è effetto secondario del neocolonialismo occidentale e del suo interventismo armato, quindi dell’opera di destabilizzazione di vaste aree, dall’Africa al Medio Oriente, nonché della predazione economica e della devastazione anche ambientale compiute dal capitalismo globale.

Delirante, oltre che illegale, meschino, immorale, è l’accordo siglato, in forma di Statement, tra l’Ue e la Turchia il 18 marzo scorso, in violazione di convenzioni internazionali, carte e trattati, anche europei: perfino del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, in particolare dell’art. 218 che regola gli accordi tra l’Unione e i Paesi terzi, come osserva Mauro Gatti.

Deplorato da quasi tutte le organizzazioni umanitarie e dallo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, esso legittima e dà avvio alla deportazione di massa dei “migranti irregolari”, bambini compresi, che dal 20 marzo sono approdati nelle isole greche partendo dalla Turchia. Paese terzo tutt’altro che sicuro, dominato da un regime a dir poco autoritario, la Turchia, che primeggia per violazioni del diritto internazionale e della stessa Convenzione europea dei diritti umani, non garantisce alcuna protezione ai richiedenti-asilo e ai rifugiati: basta dire che, secondo Amnesty International, da gennaio a oggi ha rimpatriato in Siria un migliaio di rifugiati. E’ dunque alto il rischio che i profughi barattati con Ankara –“per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia”, recita lo Statement– siano prima o poi ri-deportati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti.

L’insensatezza di questo accordo è del tutto palese: non servirà affatto, come si pretende, a scoraggiare gli esodi verso l’Europa e a smantellare “il business dei trafficanti”, bensì a costringere le moltitudini in fuga a intraprendere rotte e viaggi sempre più rischiosi. Il suo coté paradossale è che la Grecia di Tsipras, da taluni eletta a nuovo faro del socialismo, sia costretta essa stessa a violare il diritto internazionale, praticando espulsioni collettive e altre gravi infrazioni, nonché riconoscendo la Turchia come paese terzo sicuro.

Mentre scrivo, apprendo che di tutt’altro parere è il “nostro” Matteo Renzi, al quale l’accordo è piaciuto tanto da ispirargli l’idea geniale di offrire all’UE un contributo di pensiero, raccolto in un non-paper (cito alla lettera: dunque l’ossimoro non è mio), in cui propone di estenderne il modello ad altri Paesi terzi, di partenza o di transito, sicuri o non sicuri. Ai quali elargire congrui finanziamenti e forniture tecniche e militari onde ottenere che collaborino attivamente a contrastare “i flussi di migranti”. Tusk e Junker, presidenti rispettivamente del Consiglio europeo e della Commissione europea, se ne sono a tal punto entusiasmati da sottoporre subito il non-paper al Consiglio dei ministri degli Esteri e della Difesa dei Ventotto.

Altrettanto insensata è la corsa a barricarsi dietro le frontiere nazionali, erigende barriere di filo spinato e perfino schierando gli eserciti: a ottobre del 2015 il parlamento sloveno ha approvato, quasi all’unanimità, una legge che conferisce all’esercito poteri straordinari, anzitutto quello di limitare la libertà di movimento delle persone; più tardi, a febbraio del 2016, sarà quello bulgaro ad approvare una norma che autorizza l’esercito a schierarsi ai confini per contribuire ad arginare la moltitudine di profughi dalla rotta balcanica.

Ricordo che tra il 2015 e il 2016 a ripristinare i controlli alle frontiere sono stati, tra i Paesi membri dell’Unione europea, l’Austria, la Danimarca, la Germania, la Svezia, l’Ungheria; tra i non membri, la Norvegia e la Macedonia, che pure è candidata all’ingresso nell’Ue. Dunque, per quanto scandalosa, perfino autolesionista –destinata com’è a provocare anche danni economici, e non solo all’Italia –, la più recente trovata austriaca della barriera anti-profughi al Brennero non è che un’ulteriore tappa della dilagante pulsione sovranista, se non nazionalista nel senso più deteriore, che attraversa l’Europa.

Che la crisi europea sia non solo economica, ma anche politica e ideologica, ce lo aveva ripetuto più volte Slavoy Žižek, dando prova di acume e lungimiranza. Perciò è alquanto sorprendente che da un po’ di tempo, uno scritto dopo l’altro, egli si erga a strenuo difensore dello “stile di vita dell’Europa occidentale”, ovvero, per i rifugiati, “il prezzo da pagare per l’ospitalità europea”: così scrive in un lungo articolo del 9 settembre 2015 per la London Review of Books, che pure contiene un’analisi condivisibile dei fattori geo-politici degli esodi.

Tra una citazione di Stalin e un richiamo al comunismo, tra una metafora idraulica e l’altra (“flusso”, ondata”…), qui egli non fa che bacchettare la sinistra liberal, tutta impegnata a praticare tolleranza e solidarietà, perfino a rivendicare l’apertura delle frontiere: ipocrite “anime belle che si sentono superiori al mondo corrotto del quale invece fanno parte”. E, mentre evoca l’utopia del comunismo, deride la piccola utopia dei rifugiati: i quali “esigono dalle autorità europee non solo cibo adeguato e cure mediche”, ma perfino la possibilità di raggiungere Paesi europei “di loro scelta”. Un’utopia, quest’ultima, che egli definisce “assoluta” e “paradossale”: essi, che “sono in condizioni di povertà, disagio e pericolo”, dovrebbero accontentarsi di “un minimo di sicurezza e benessere”, &ldq
uo;censurare i loro sogni”, “accettare il posto […] assegnato loro dalle autorità europee”.

Žižek ribadirà sostanzialmente il suo orientamento in un pezzo, pletorico e farraginoso, pubblicato il 16 novembre 2015 su In These Times, con un titolo più che esplicito – “Dopo gli attacchi di Parigi, la sinistra deve abbracciare le sue radici occidentali radicali”– e volto in parte a rispondere alle critiche (di elitismo, paternalismo, spirito reazionario) indirizzate all’articolo precedente da parte di nomi anche illustri.

Qui il richiamo rituale alla lotta di classe e all’internazionalismo proletario convive con alcune affermazioni sconcertanti. Ne cito solo alcune. Poiché siamo di fronte a uno stato d’emergenza di fatto – sostiene Žižek – l’esercito è “il solo agente” che possa organizzare e coordinare su larga scala così da regolare “il caos” dei rifugiati. Inoltre, il fatto che essi vivano una situazione disperata “non esclude in alcun modo che il loro flusso verso l’Europa faccia parte di un progetto ben pianificato”. Infine: “Nonostante la (parziale) responsabilità dell’Europa rispetto alla situazione dalla quale fuggono i rifugiati, è giunto il tempo di abbandonare i mantra sinistroidi che criticano l’eurocentrismo” e persuadersi che la massima parte di loro “proviene da una cultura incompatibile con le nozioni di diritti umani proprie dell’Europa occidentale”.

Quest’apparente digressione sul pensiero più recente del filosofo sloveno è utile ad avanzare un interrogativo: il barricarsi dietro “i nostri valori” e “il nostro stile di vita” non è forse una tendenza simmetrica a quella che induce a rafforzare le frontiere esterne, chiudere quelle interne, erigere muri, reali e simbolici? Non è forse, anch’esso, indizio della profonda crisi dell’Europa?

Una versione breve di questo articolo è comparsa sul manifesto del 17 aprile 2016, col titolo “Il delirio dell’Europa”.

(18 aprile 2016)



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