La cultura islamica non esiste più

Navid Kermani

Padre Paolo Dall’Oglio, padre Jacques Mourad e la comunità di cristiani e musulmani di al-Qaryatayn sono la dimostrazione che l’amore è in grado di superare i confini etnici, religiosi, ideologici. Una comunità che aveva vissuto in pace e in reciproco rispetto fino all’arrivo dell’Is pochi mesi fa e di cui oggi rimangono macerie: padre Mourad, dopo essere stato ostaggio dell’Is, è riuscito a fuggire, di padre Dall’Oglio ormai da diversi mesi si sono perse le tracce, la sorte dei duecento cristiani rapiti insieme a padre Mourad è appesa a un filo, mentre il monastero di Mar Elian è stato distrutto. Navid Kermani, scrittore tedesco di origini iraniane, musulmano, in questo discorso pronunciato il 18 ottobre 2015 – qualche settimana prima degli attentati di Parigi del 13 novembre – presso la Paulskirche di Francoforte in occasione del conferimento del Premio per la pace dei librai tedeschi, ricorda il suo incontro con padre Mourad, esorta i musulmani a fare i conti con quel che la loro cultura è diventata e l’Occidente a non girarsi dall’altra parte.

Il testo è un’anticipazione dal di MicroMega in edicola dal 17 dicembre



Nel giorno in cui ricevevo la notizia di essere stato insignito del Premio per la pace dei librai tedeschi, in quello stesso giorno veniva rapito in Siria Jacques Mourad. Due uomini armati sono entrati nel monastero di Mar Elian alla periferia della cittadina di al-Qaryatayn chiedendo di padre Jacques. Lo hanno trovato nel suo piccolo, misero ufficio, che fungeva allo stesso tempo da soggiorno e camera da letto, lo hanno preso e portato via. Il 21 maggio 2015 Jacques Mourad è diventato un ostaggio del sedicente «Stato islamico».

Ho conosciuto padre Jacques nell’autunno del 2012, mentre attraversavo per un reportage una Siria già scossa dalla guerra. Si occupava della comunità cattolica di al-Qaryatayn e allo stesso tempo faceva parte dell’ordine di Mar Musa, fondato agli inizi degli anni Ottanta sulle rovine di un antico monastero paleocristiano. Si tratta di una comunità cristiana particolare, certamente unica, che si è dedicata all’incontro con l’islam e all’amore per i musulmani. Le suore e i monaci osservano scrupolosamente i precetti e i riti della propria Chiesa cattolica, e con altrettanta abnegazione si dedicano all’islam, partecipando alle tradizioni musulmane fino al punto di prendere parte al Ramadan. Suona folle, da pazzi: cristiani che, stando alle loro stesse parole, si sono innamorati dell’islam. Eppure questo amore cristiano-musulmano è stato fino a non molto tempo fa realtà in Siria ed è rimasto ancora nei cuori di molti siriani. Con il lavoro delle loro mani, con la bontà del loro cuore e le preghiere della loro anima, le suore e i monaci di Mar Musa avevano creato un luogo che a me pareva utopico e che per loro rappresentava niente di meno che l’imminente – loro non avrebbero detto anticipata, ma certamente vissuta in anticipo – riconciliazione escatologica. Un convento di pietra del VII secolo nel mezzo della travolgente solitudine delle montagne nel deserto siriano, visitato da cristiani provenienti da ogni parte del mondo, ma al quale ogni giorno dozzine, centinaia di musulmani arabi bussavano per incontrare le loro sorelle e i loro fratelli cristiani, parlare con loro, cantare, stare in silenzio e anche per pregare secondo il loro rito islamico in un angolo della chiesa privo di immagini.

All’epoca della mia visita a padre Jacques nel 2012, il fondatore della comunità, il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio, era appena stato espulso dal paese. A voce troppo alta padre Paolo aveva criticato il governo di al-Asad che, alla richiesta di democrazia e libertà da parte del popolo siriano – richiesta rimasta per nove mesi pacifica – aveva risposto con arresti e torture, manganelli e fucili d’assalto e infine anche con mostruosi massacri e persino gas tossici, finché il paese non è sprofondato nella guerra civile. Ma padre Paolo si era opposto anche alla leadership della Chiesa ufficiale siriana, che di fronte alla violenza del governo taceva. Invano aveva cercato di ottenere sostegno in Europa al movimento per la democrazia siriano, invano si era appellato alle Nazioni Unite per creare una no fly zone o perlomeno per inviare degli osservatori. Invano aveva messo in guardia dal rischio di una guerra di religione, mentre i gruppi laici e moderati venivano abbandonati a se stessi e gli jihadisti ottenevano sostegno dall’estero. Invano aveva tentato di spezzare il muro della nostra apatia. Nell’estate del 2013 il fondatore della comunità di Mar Musa tornò nuovamente in segreto in Siria per darsi da fare per alcuni amici musulmani che erano nelle mani dello Stato islamico, e infine è stato egli stesso rapito da quello stesso Stato islamico. Dal 28 luglio 2013 di padre Paolo Dall’Oglio si è persa ogni traccia.

Padre Jacques, rimasto il solo responsabile del monastero di Mar Elian, ha un’indole molto diversa: non è un oratore particolarmente dotato, non è un italiano carismatico ed esuberante ma, come molti siriani che ho conosciuto, un uomo altero, riflessivo, estremamente cortese, piuttosto alto, il volto largo, i capelli corti ancora scuri. Non ho avuto ovviamente modo di conoscerlo approfonditamente. Ho partecipato alla messa, che come in tutte le chiese orientali consisteva in canti meravigliosi e soavi, e ho osservato come volentieri scambiava quattro chiacchiere con i fedeli e i notabili locali al pranzo dopo la messa. Quando gli ospiti si furono congedati, mi portò per una mezz’ora nella sua minuscola stanza e accostò una sedia al suo piccolo letto, sul quale egli stesso prese posto per l’intervista.

A colpirmi non furono solo le sue parole: il coraggio con cui criticava il governo, la franchezza con cui parlava anche dell’arroccamento della sua stessa comunità cristiana. A imprimersi ancora più profondamente nella mia mente fu il suo contegno: un servitore di Dio – questa la mia percezione – taciturno, molto zelante, introverso e persino ascetico che, adesso che Dio lo aveva chiamato alla cura delle anime della difficile comunità cristiana di al-Qaryatayn e alla guida della comunità monastica, metteva tutto il suo impegno anche in questo ruolo pubblico. Gli occhi perlopiù chiusi, parlava a voce bassa e molto lentamente, come se stesse consapevolmente rallentando le pulsazioni e usando quell’intervista come pausa tra due incombenze ben più faticose. Allo stesso tempo parlava con grande ponderazione, usando frasi perfettamente compiute e ciò che andava dicendo era di una tale chiarezza e politicamente di una tale durezza che più volte gli ho chiesto se non fosse troppo pericoloso riferire tutto testualmente. Al che lui apriva i suoi gentili occhi scuri e faceva stancamente un cenno col capo: certo che potevo pubblicare tutto, se no semplicemente non avrebbe detto quel che aveva detto; il mondo deve sapere quel che accade in Siria.

Questa stanchezza – un altro aspetto potente, forse il più potente, dell’immagine che mi ero fatto di padre Jacques – era la stanchezza di un uomo che non solo ha compreso, ma ha anche accettato che per lui ci sarà pace forse solo nell’altra vita, la stanchezza di un medico o di un pompiere ch
e risparmia le proprie forze per quando la necessità prenderà il sopravvento. E padre Jacques, in quanto prete in mezzo alla guerra, era davvero anche un medico e un pompiere, non solo per le anime della gente impaurita, ma anche per i corpi degli indigenti, a cui egli nella sua chiesa offriva cibo, protezione, vestiti, dimora e soprattutto cura a prescindere dalla loro fede. Centinaia, se non migliaia sono stati i rifugiati, per la maggior parte musulmani, accolti nel convento e assistiti fino alla fine dalla comunità di Mar Musa. Non solo: padre Jacques riuscì a mantenere la pace, anche la pace religiosa, per lo meno ad al-Qaryatayn. In particolare è grazie a lui, al taciturno, serio padre Jacques, che i diversi gruppi e milizie – alcuni filogovernativi, altri d’opposizione – si misero d’accordo per mettere al bando dalla cittadina le armi pesanti. E questo prete critico con la Chiesa riuscì anche a persuadere quasi tutti cristiani della sua comunità a rimanere. «Noi cristiani», mi disse padre Jacques, «apparteniamo a questo paese, anche se i fondamentalisti, tanto qui quanto in Europa, non amano sentirlo dire. La cultura araba è la nostra cultura».

Gli appelli di taluni politici occidentali ad accogliere solo gli arabi cristiani gli lasciavano l’amaro in bocca. Quell’Occidente che ha ignorato milioni di siriani di tutte le confessioni che manifestavano pacificamente per la democrazia e i diritti umani, quell’Occidente che ha rovinato l’Iraq e che procurato ad al-Asad il gas tossico, quell’Occidente alleato dell’Arabia Saudita e, in quanto tale, anche principale sponsor del jihadismo, quello stesso Occidente si preoccupa adesso dei cristiani arabi? Ci sarebbe da ridere, commentò padre Jacques rimanendo però impassibile. E, richiudendo gli occhi, proseguì: «Questi politici con le loro dichiarazioni irresponsabili promuovono esattamente quel confessionalismo che minaccia noi cristiani».
Le responsabilità che gravavano su padre Jacques, e che egli ha continuato ad assumersi come sempre senza lamentarsi, crescevano continuamente. I membri stranieri della comunità erano stati costretti a lasciare la Siria e a trovare rifugio nell’Iraq del Nord. Erano rimasti solo sette fra suore e monaci siriani, che si dividevano fra i due monasteri di Mar Musa e Mar Elian. Il fronte di guerra si spostava in continuazione e al-Qaryatayn si trovava ora sotto il controllo dello Stato ora sotto quello delle milizie. Come il resto della cittadinanza, i monaci e le suore dovevano adeguarsi ora all’una ora all’altra delle parti in guerra e in più tentare di sopravvivere agli attacchi aerei, quando la cittadina si trovava nelle mani dell’opposizione. Nel frattempo lo Stato islamico avanzava sempre di più verso il cuore della Siria. Pochi giorni prima di essere rapito, padre Jacques scriveva ad un’amica francese: «La minaccia dell’Is, una setta di terroristi che dà un’immagine terrificante dell’islam, è arrivata nella nostra regione. È difficile decidere cosa fare: dovremmo forse lasciare le nostre case? Sarebbe per noi difficile. È terribile rendersi conto che siamo stati abbandonati, soprattutto da quel mondo cristiano che ha deciso di mantenersi a distanza nella speranza di tenere lontano da sé il pericolo. Per loro non significhiamo niente».

In queste poche righe di una semplice mail, per di più scritta certamente di fretta, si incontrano due frasi caratteristiche di padre Jacques che sono allo stesso tempo un metro di paragone per ogni pensiero razionale. La prima è: «La minaccia dell’Is, una setta di terroristi che dà un’immagine terrificante dell’islam…»; la seconda è quella sul mondo cristiano: «Per loro non significhiamo niente». Difendeva la comunità altrui e criticava la propria. Fino a pochi giorni prima del suo rapimento, quando il gruppo che si richiama all’islam e pretende di applicare la legge del Corano minacciava già fisicamente lui e la sua comunità, padre Jacques insisteva ancora sul fatto che questi terroristi deformavano il vero volto dell’islam. A un musulmano a cui, di fronte allo Stato islamico, l’unica cosa che viene in mente da dire è la frase retorica che la violenza non ha a che fare con l’islam, non potrei che controbattere. Ma un cristiano, un prete cristiano, che potrebbe essere cacciato, umiliato, rapito o ucciso da fedeli di un’altra religione e che nonostante tutto si ostina a difenderla, un tale servitore di Dio mostra una grandezza che ho incontrato solo nelle vite dei santi.

Uno come me non può difendere l’islam con questi argomenti. Non deve. L’amore verso se stessi – la propria cultura, il proprio paese e anche la propria stessa persona – si mostra nell’autocritica. L’amore verso gli altri – un’altra persona, un’altra cultura e anche un’altra religione – può permettersi di essere più appassionato, incondizionato. Certo, l’amore per gli altri presuppone l’amore per sé. Ma innamorati si può essere solo degli altri, proprio come padre Paolo e padre Jacques lo sono dell’islam. L’amore per se stessi, invece, deve essere tormentato, dubbioso, sempre pronto a porsi delle domande, se non vuole soccombere sotto il peso del narcisismo, dell’autoincensamento, della vanità. Quanto vale oggi questo discorso per l’islam! Chi da musulmano non lotta con l’islam, non lo mette in dubbio, non lo interroga criticamente, non ama l’islam.

Non parliamo solo delle terribili notizie e delle ancor più terribili immagini che provengono dalla Siria e dall’Iraq, dove a ogni atto di barbarie viene sventolato il Corano e a ogni decapitazione viene urlato «Allahu akbar». Anche in molti altri paesi del mondo islamico, se non nella maggior parte, quando si tratta di opprimere il popolo, discriminare le donne, perseguitare, cacciare, massacrare dissidenti, i fedeli di altre religioni, chiunque viva in modo diverso, le autorità statali, le istituzioni filogovernative, le scuole teologiche o i gruppi ribelli si appellano all’islam. In nome dell’islam, in Afghanistan le donne vengono lapidate, in Pakistan intere classi di studenti uccise, in Nigeria centinaia di ragazze rese schiave, in Libia i cristiani decapitati, in Bangladesh i blogger fucilati, in Somalia vengono messe bombe nei mercati, in Mali i sufi e i musicisti uccisi, in Arabia Saudita i dissidenti crocifissi, in Iran le più importanti opere della letteratura contemporanea vietate, in Bahrein gli sciiti oppressi, in Yemen i sunniti e gli sciiti aizzati gli uni contro gli altri.

Non c’è dubbio che la maggior parte dei musulmani rifiuti il terrore, la violenza e la repressione. Non si tratta solo di un’affermazione retorica, ma ne ho fatto esperienza diretta nel corso dei miei viaggi: coloro per i quali la libertà non è affatto scontata ne comprendono a maggior ragione il valore. Tutte le rivolte di massa degli scorsi anni nel mondo islamico erano rivolte per la democrazia e i diritti umani: non solo le rivoluzioni – tentate, anche se per la maggior parte fallite – in quasi tutti i paesi arabi, ma anche le proteste in Turchia, Iran, Pakistan e non ultima la rivolta nelle urne alle scorse elezioni presidenziali in Indonesia. Allo stesso modo i flussi di rifugiati mostrano dov’è che molti musulmani sperano di poter avere una vita migliore che nel loro paese: certamente non in dittature confessionali. E ancora: le notizie che ci giungono da Mosul o da al-Raqqa ci raccontano non dell’entusiasmo ma del panico e della disperazione della popolazione. Le principali
autorità del mondo islamico hanno respinto la pretesa dell’Is di parlare in nome dell’islam e hanno sviscerato in dettaglio in che modo il suo agire e la sua ideologia contraddica il Corano e gli insegnamenti fondamentali della teologia islamica. E non dimentichiamo che sono musulmani quelli che combattono in prima linea contro l’Is: curdi, sciiti, persino alcuni gruppi sunniti e i soldati dell’esercito iracheno.

È necessario ribadirlo per non cadere nell’inganno – a cui ricorrono, usando le stesse parole, islamisti e critici dall’islam – secondo il quale l’islam sta conducendo una guerra contro l’Occidente. In verità bisognerebbe dire che l’islam sta conducendo una guerra contro se stesso: il mondo islamico è sconvolto da un conflitto interno, le cui conseguenze sulla cartografia politica ed etnica potrebbero uguagliare le fratture della prima guerra mondiale. L’Oriente multietnico, multireligioso e multiculturale che ho studiato sulle testimonianze letterarie medievali e che ho imparato ad amare come una realtà certamente mai perfetta, anzi continuamente minacciata, ma comunque vivacissima durante i miei lunghi soggiorni al Cairo e a Beirut, durante le vacanze estive da bambino a Isfahan e come reporter nel monastero di Mar Musa, questo Oriente esiste ormai tanto poco quanto il mondo di ieri, cui Stefan Zweig negli anni Venti guardava colmo di malinconia e tristezza.

Cos’è accaduto? Lo Stato islamico non è nato oggi e neanche con la guerra civile in Iraq e in Siria. I suoi metodi vengono respinti, ma la sua ideologia è il wahhabismo, che oggi dispiega i suoi effetti fino al più remoto angolo del mondo islamico e che, nella sua versione salafita, è diventato attraente anche per i giovani in Europa. Quando si scopre che i libri di testo e i piani di studi nello Stato islamico coincidono per il 95 per cento con quelli usati in Arabia Saudita, allora si scopre anche che il mondo è diviso in vietato e permesso e le persone in fedeli e infedeli non solo in Iraq e in Siria. Sponsorizzato dai miliardi derivanti dal petrolio, negli ultimi decenni nelle moschee, nei libri, in televisione si è andato diffondendo un pensiero che definisce tutti i fedeli di altre religioni senza eccezioni eretici, li oltraggia, li terrorizza, li denigra e li offende. Quando giorno per giorno altri essere umani vengono sistematicamente sminuiti, la logica conseguenza è che alla fine anche la loro stessa vita diventa priva di valore. E noi tedeschi, con la nostra storia, lo sappiamo bene. Che un tale fascismo religioso sia anche semplicemente pensabile, che l’Is trovi così tanti combattenti e ancora più simpatizzanti, che possa travolgere interi paesi e conquistare quasi senza combattere intere metropoli, non è l’inizio ma al contrario il punto di arrivo provvisorio di un lungo declino, un declino anche e soprattutto del pensiero religioso.

Ho iniziato a studiare orientalistica, e in particolare il Corano e la poesia, nel 1988. Credo che chi abbia studiato questa materia nella sua versione classica giunge al punto in cui non riesce più a tenere insieme passato e presente. Perde la speranza e diventa irrimedia-bilmente sentimentale. Ovviamente il passato non è stato tutto rose e fiori. Ma come filologo ho avuto a che fare soprattutto con gli scritti dei mistici, dei filosofi, dei retori e anche dei teologi. E io, anzi, noi studenti rimanevamo e rimaniamo meravigliati dall’originalità, l’apertura mentale, la forza estetica e anche la grandezza umana che incontriamo nella spiritualità di Ibn Arabi, nella poesia di Rumi, nella storiografia di Ibn Khaldun, nella teologia poetica di Abdulqaher al-Dschurdschani, nella filosofia di Averroè, nelle descrizioni di viaggi di Ibn Battuta e ancora nelle storie di Le mille e una notte, storie profane – sì, proprio profane – ed erotiche e per di più persino femministe e allo stesso tempo permeate in ogni singola pagina dello spirito e della poesia del Corano. Non si tratta certo di notizie di giornali, no. La realtà sociale di questa civiltà avanzata era più grigia e violenta. Eppure queste testimonianze raccontano di qualcosa che un tempo era pensabile, se non addirittura ovvio, nell’islam. Nella cultura religiosa dell’islam moderno non c’è niente, assolutamente niente che possa essere anche solo lontanamente paragonato – in termini di fascino e profondità – agli scritti in cui mi sono imbattuto nel corso dei miei studi. Per non parlare dell’architettura islamica, dell’arte islamica, della musica islamica: tutto questo non esiste più.

Porto come esempio la perdita di creatività e libertà nel mio ambito. Una volta era pensabile, se non addirittura ovvio, che il Corano fosse un testo poetico, nient’altro che poesia, che poteva essere compreso esclusivamente con gli strumenti e i metodi della poetologia. Era pensabile, se non addirittura ovvio, che un teologo fosse allo stesso tempo uno studioso di letteratura e un esperto di poesia, in molti casi persino poeta egli stesso. Oggi il mio professore al Cairo Nasr Hamid Abu Zayd è stato accusato di eresia, allontanato dalla sua cattedra e costretto persino al divorzio, perché intende lo studio del Corano come uno studio letterario. Ciò significa che oggi un simile approccio al Corano, che era un tempo ovvio e per il quale Nasr Abu Zayd poteva ricorrere ai migliori studiosi di teologia islamica classica, è diventato semplicemente impensabile. Un simile approccio al Corano viene oggi perseguito, punito e tacciato di eresia. Per di più il Corano è un testo non solo scritto in versi, ma che parla attraverso immagini sconcertanti, ambigue, misteriose. Non è neanche un vero e proprio libro, ma una messa in scena, lo spartito di un canto che commuove gli ascoltatori arabi con la sua ritmica, il suo andamento onomatopeico, la sua melodia. La teologia islamica non solo ha apprezzato le peculiarità estetiche del Corano, ma ha anche interpretato la bellezza della lingua alla stregua del miracolo autenticatore dell’islam. Oggi ovunque nel mondo islamico vediamo cosa accade quando la struttura linguistica di un testo non viene tenuta in alcun conto, non viene più compresa adeguatamente o semplicemente non se ne prende atto. Il Corano viene degradato a un vademecum da interrogare con un motore di ricerca su questa o quella parola d’ordine. La potenza linguistica del Corano si trasforma in dinamite politica.

Si legge spesso che l’islam dovrebbe attraversare le fiamme dell’illuminismo o che dovrebbe contrapporre la modernità alla tradizione. Ma forse si tratta di una semplificazione, visto che il passato dell’islam è stato molto più illuministico e la letteratura tradizionale talvolta pare più moderna del discorso teologico odierno. Goethe e Proust, Lessing e Joyce erano affascinati dalla cultura islamica, e certamente non soffrivano di disturbi mentali. Nei suoi libri e nei suoi monumenti essi hanno visto qualcosa che noi, costretti a confrontarci in maniera spesso brutale con il presente dell’islam, facciamo fatica a vedere. Il problema dell’islam forse non è tanto la tradizione quanto la rottura pressoché totale con questa tradizione, la perdita di memoria culturale, l’amnesia della sua civiltà.

Tutti i popoli dell’Oriente hanno conosciuto, con il colonialismo e le dittature laiciste, una modernizzazione brutale, imposta dall’alto. Per fare un esempio, le donne iraniane non hanno tolto il velo gradualmente, ma i soldati sciamavano per le strade e, per un ordine dello scià del 1936, glielo strappavano dalla testa con violenza. Diversamente che in Europa – dove la modernità,
con tutti i suoi contraccolpi e crimini, è stata comunque vissuta come un processo di emancipazione compiuto nel corso di decenni e di secoli – in Medio Oriente essa è stata principalmente un’esperienza di violenza. La modernità è associata non con la libertà ma con lo sfruttamento e il dispotismo. Provate a immaginare un presidente italiano che entra con la macchina nella basilica di San Pietro, sale sull’altare con gli stivali lerci e colpisce sul volto il papa con la frusta: ecco, così potete avere più o meno un’idea di cosa significò quando Reza Shah nel 1928 con i suoi stivali da cavallerizzo attraversò marciando il tempio sacro di Qom e, quando l’imam lo invitò a togliersi le scarpe come tutti gli altri fedeli, lo colpì al volto con la frusta. E potete trovare simili episodi e momenti chiave in molti altri paesi del Medio Oriente, episodi che invece di aiutare a emanciparsi lentamente dal passato, questo passato lo hanno distrutto e hanno tentato di cancellarlo dalla memoria.

Si poteva pensare che i fondamentalisti religiosi che, dopo il fallimento del nazionalismo, hanno avuto un’influenza sempre crescente nel mondo islamico, tenessero almeno in gran conto la propria cultura. E invece è stato esattamente il contrario: nel voler tornare indietro alle presunte origini, essi non hanno semplicemente trascurato la tradizione, ma le hanno fatto decisamente la guerra. Ci sorprendiamo oggi dell’iconoclastia dello Stato islamico solo perché non abbiamo realizzato che in Arabia Saudita praticamente non esistono più resti dell’antica civiltà. Alla Mecca i wahhabiti hanno distrutto le tombe e le moschee dei parenti del profeta, e persino la sua casa natale. La storica moschea del profeta a Medina è stata sostituita da un gigantesco edificio moderno e là dove fino a pochi anni fa si trovava la casa dove Maometto aveva vissuto con la moglie Khadija, oggi c’è un bagno pubblico.

Oltre che del Corano, nel corso dei miei studi mi sono occupato anche della mistica islamica, il sufismo. «Mistica» sembra qualcosa di marginale, di esoterico, una sorta di cultura clandestina. In relazione all’islam niente può essere più falso. Fino al XX secolo il sufismo rappresentava la base della religiosità popolare in quasi tutto il mondo islamico. Nell’islam asiatico lo è ancora oggi. Allo stesso modo anche l’alta cultura – specialmente la poesia, l’arte figurativa e l’architettura – era permeata dello spirito della mistica. In quanto era la forma più comune di religiosità, il sufismo rappresentava il contrappeso etico ed estetico all’ortodossia degli esperti della legge. Dando rilievo soprattutto alla misericordia di Dio, scorgendola dietro ogni singola lettera del Corano, cercando sempre nella religione la bellezza, riconoscendo la verità anche nelle altre religioni e prendendo esplicitamente dal cristianesimo il comandamento «Ama il tuo nemico», il sufismo permeò le società islamiche di valori, storie e suoni che non sarebbero potuti derivare da una semplice devozione letterale al Corano. Il sufismo in quanto islam vissuto non depotenziava l’islam della Legge ma lo integrava, lo rendeva nella quotidianità più morbido, ambivalente, permeabile, tollerante e soprattutto, grazie alla musica, alla danza, alla poesia, lo trasformava in un’esperienza sensoriale.

Di tutto ciò non rimane quasi nulla. Ovunque mettano piede gli islamisti – a cominciare dall’Arabia Saudita già nel XIX secolo fino al Mali solo di recente – pongono innanzitutto fine alle feste sufite, vietano gli scritti mistici, distruggono le tombe dei santi, tagliano i capelli alle guide spirituali sufite o le uccidono. In verità non solo gli islamisti, ma anche i riformatori e i religiosi illuministi del XIX e XX secolo consideravano le tradizioni e i costumi dell’islam popolare arretrati e obsoleti. Costoro non hanno mai preso sul serio la letteratura sufita. Furono invece studiosi occidentali, come Annemarie Schimmel (che ricevette il Premio per la pace nel 1995), a pubblicare i manoscritti, salvandoli così dalla distruzione. E ancora oggi sono pochissimi gli intellettuali islamici che si occupano della ricchezza della loro stessa tradizione. Ovunque nel mondo islamico le antiche città distrutte, dimenticate, trasformate in discariche con le rovine dei loro monumenti architettonici assurgono a simbolo della decadenza dello spirito islamico esattamente come il più grande centro commerciale del mondo costruito alla Mecca proprio di fianco alla Ka‘ba. Provate a visualizzare davanti agli occhi l’immagine che si può vedere anche dalle foto: il luogo più sacro dell’islam, questa sobria e meravigliosa costruzione, nella quale il profeta in persona pregava, è letteralmente sovrastato da Gucci ed Apple. Forse avremmo dovuto prestare più attenzione all’islam delle nostre nonne piuttosto che a quello dei nostri eruditi.

Certamente in alcuni paesi si è cominciato a restaurare edifici e moschee, ma sono dovuti venire storici dell’arte occidentali o anche musulmani occidentalizzati come me per riconoscere il valore della tradizione. E purtroppo siamo arrivati con un secolo di ritardo, quando gli edifici erano già caduti a pezzi, le tecniche edili dimenticate e i libri cancellati dalla memoria. Credevamo di avere tempo per studiare le cose approfonditamente, e invece all’improvviso, in quanto lettore, mi sono sentito quasi come un archeologo in territorio di guerra che, sempre con grande attenzione anche se di corsa, raccoglie reperti, in modo che le future generazioni possano almeno osservarli nei musei. Non c’è dubbio che i paesi islamici producano ancora oggi opere eccellenti, come si vede in occasione delle biennali, dei festival cinematografici e anche di recente alla Fiera del libro di Francoforte, ma questa cultura non ha quasi nulla a che fare con l’islam. Una cultura islamica, perlomeno una di qualità, non esiste più. Ad aleggiare intorno a noi oggi sono le macerie di una gigantesca implosione spirituale.

C’è ancora speranza? Come ci insegna il fondatore della comunità di Mar Musa, padre Paolo, fino all’ultimo respiro c’è speranza. La speranza è il tema centrale dei suoi scritti. Il giorno dopo il rapimento del suo discepolo e sostituto, i musulmani di al-Qaryatayn affluirono in massa nella chiesa e pregarono per il loro padre Jacques. È questo a darci la speranza: che l’amore supera le barriere delle religioni, delle etnie e delle culture. Lo shock provocato dalle notizie e dalle immagini provenienti dallo Stato islamico è enorme e ha scatenato le forze antagoniste. Finalmente persino nell’ambito dell’ortodossia islamica si è formata una resistenza contro l’uso della violenza in nome della religione. E già da qualche anno assistiamo allo sviluppo di un nuovo pensiero religioso, forse meno nel cuore arabo dell’islam e più alla sua periferia – in Asia, in Sudafrica, in Iran, in Turchia e non ultimo tra i musulmani d’Occidente. Anche l’Europa dopo le due guerre mondiali si è dovuta reinventare. E di fronte alla sventatezza, alla sottovalutazione e all’aperto disprezzo che, non solo i nostri politici, ma anche noi come società da qualche anno mostriamo nei confronti del progetto politicamente più prezioso che questo continente abbia mai prodotto – il progetto di un’Unione europea – forse è il caso che io da questo podio faccia menzione di quante volte nel corso dei miei viaggi l’Europa mi sia stata indicata come modello, quasi come un’utopia. Chi ha dimen
ticato il motivo per cui abbiamo bisogno dell’Europa guardi i volti sfiniti, spossati, impauriti dei rifugiati che hanno abbandonato tutto dietro di sé e hanno rischiato la vita per quello che ancora l’Europa rappresenta per loro: una promessa.

E questo mi riconduce alla seconda frase di padre Jacques che mi aveva colpito, quella sul mondo cristiano: «Per loro non significhiamo niente». Non sta a me, da musulmano, rimproverare ai cristiani del mondo di disinteressarsi non solo del popolo siriano o iracheno, ma anche dei propri stessi fratelli e sorelle cristiani. Eppure è proprio quello che penso spesso di fronte al disinteresse della nostra opinione pubblica nei confronti dell’apocalittica catastrofe di quell’Oriente che tentiamo di tenere lontano con filo spinato, navi da guerra, fantasmi e paraocchi mentali. A poche ore di volo da qui interi popoli vengono sterminati o perseguitati, ragazze rese schiave, molti dei più importanti monumenti dell’umanità fatti saltare per aria, intere culture – e con esse un’originaria varietà etnica, religiosa e linguistica che, contrariamente all’Europa, si era conservata ancora fino al XXI secolo – si inabissano, eppure noi ci raduniamo e ci ribelliamo solo quando le bombe di questa guerra ci colpiscono direttamente come il 7 e 8 gennaio a Parigi o quando le persone che da questa guerra fuggono bussano alle nostre porte.

È un bene che le nostre società, diversamente da quanto avvenuto dopo l’11 settembre, al terrore abbiano contrapposto la nostra libertà. Ci rende felici vedere quante persone in Europa e in particolare in Germania si danno da fare per i rifugiati. Ma questa protesta e questa solidarietà rimangono troppo spesso su un terreno impolitico. Non c’è nessun dibattito pubblico ampio sulle cause del terrorismo e del flusso di rifugiati e su come la nostra stessa politica abbia forse addirittura favorito la catastrofe che si compie ai nostri confini. Non ci chiediamo perché il nostro partner più stretto in Medio Oriente sia proprio l’Arabia Saudita. Non impariamo dai nostri errori quando stendiamo un tappeto rosso a un dittatore come il generale al-Sisi. O impariamo la lezione sbagliata quando dalle disastrose guerre in Iraq o in Libia traiamo la conclusione che sia meglio tenersi fuori dai genocidi. Non ci è venuta in mente nessuna buona idea per evitare l’uccisione del suo stesso popolo perpetrata da quattro anni dal regime siriano. E allo stesso modo ci siamo rassegnati all’esistenza di un nuovo fascismo religioso, il cui territorio è grande circa quanto la Gran Bretagna e che si estende dai confini dell’Iran fino quasi al Mediterraneo. Non che ci sia una risposta facile alla domanda su come liberare una città di un milione di abitanti come Mosul. Ma noi non ci poniamo neanche seriamente la domanda. Un’organizzazione come lo Stato islamico i cui combattenti si possono stimare in circa 30 mila unità non è invincibile per la comunità mondiale. Non deve esserlo. «Oggi sono da noi», ha detto il vescovo di Mosul, Yohanna Petros Mouche, invocando l’aiuto dell’Occidente e delle altre potenze mondiali, «domani saranno da voi».

Non voglio neanche immaginare a cosa dobbiamo ancora assistere prima di dare ragione al vescovo di Mosul, visto che fa parte della logica della propaganda dello Stato islamico creare con le sue immagini un livello di orrore sempre superiore, in modo da penetrare nelle nostre coscienze. Quando l’uccisione di un singolo ostaggio cristiano che, mentre veniva decapitato, pregava il rosario, ci ha lasciato indifferenti, l’Is ha iniziato a decapitare interi gruppi di cristiani. Quando noi abbiamo messo al bando le decapitazioni dai nostri schermi, l’Is ha iniziato a bruciare i dipinti del museo nazionale di Mosul. Quando noi ci siamo abituati alle statue distrutte, l’Is ha iniziato a radere al suolo intere città antiche come Nimrud e Ninive. Quando non ci siamo più occupati della persecuzione degli yazidi, siamo stati scossi dalle notizie degli stupri di gruppo. Quando credevamo che l’orrore fosse confinato a Iraq e Siria, sono cominciati ad arrivare video di torture e uccisioni dalla Libia e dall’Egitto. Quando ci siamo abituati alle decapitazioni e alle crocifissioni, le vittime hanno cominciato ad essere dapprima decapitate e poi crocifisse, da ultimo in Libia. Palmira non è stata fatta saltare in aria tutta in una volta, ma edificio per edificio, nel corso di settimane, in modo da creare ogni volta una nuova notizia. E tutto ciò non avrà fine, l’Is continuerà a produrre orrore finché noi in Europa nella nostra quotidianità non avremo visto, sentito e percepito che questo orrore non avrà da sé una fine. Parigi sarà stato solo l’inizio e Lione non rimarrà a lungo l’ultima decapitazione. E più attendiamo, minori possibilità ci rimangono. Detto in altri termini: è già troppo tardi.

Può un Premio per la pace esortare alla guerra? Io non esorto alla guerra. Io faccio notare che una guerra c’è già e che noi in quanto i vicini più prossimi dobbiamo agire, forse anche militarmente, sì, ma soprattutto sul piano diplomatico molto più risolutamente di come si sia fatto finora, e anche a livello di società civile. Questa è una guerra che non può trovare una soluzione solo in Siria e in Iraq. Solo le potenze mondiali che stanno dietro agli eserciti e alle milizie in lotta – l’Iran, la Turchia, gli Stati del Golfo Persico, la Russia e anche l’Occidente – vi possono porre fine. Ma i governi si muoveranno solo quando le nostre società civili non accetteranno più la follia. Qualunque cosa faremo probabilmente commetteremo degli errori. Ma l’errore più grande che possiamo compiere è continuare a non fare nulla o quasi contro i genocidi che lo Stato islamico da una parte e al-Asad dall’altro perpetrano davanti l’uscio della nostra porta europea.

«Torno adesso da Aleppo», scriveva padre Jacques nella mail che scrisse il 21 maggio, pochi giorni prima di essere rapito, «una città che dorme sulle rive dell’orgoglio, che sorge al centro dell’Oriente. Una città che oggi appare come una donna divorata dal cancro. Tutti fuggono da Aleppo, per primi i poveri cristiani, sebbene questo massacro non riguardi solo i cristiani ma l’intero popolo siriano. I nostri propositi sono difficili da realizzare, specialmente dopo che padre Paolo, il maestro e il fondatore del dialogo nel XXI secolo, è sparito. In questi giorni noi viviamo il dialogo come sofferenza comune, comunitaria. Siamo tristi in questo mondo ingiusto, che porta una parte di responsabilità per le vittime di questa guerra. Il mondo del dollaro e dell’euro, che guarda solo ai propri popoli, al proprio benessere, alla propria sicurezza, mentre il resto del mondo muore per la fame, per le malattie, per le guerre. Sembra che il suo unico obiettivo sia quello di trovare zone dove poter portare la guerra per accrescere ancora il commercio di armi, di aerei. Che giustificazioni forniscono questi governi che potrebbero mettere fine ai massacri e invece non fanno nulla? Io non temo per la mia fede, temo per il mondo. La domanda che ci facciamo è: abbiamo o no il diritto di vivere? La risposta ce l’abbiamo davanti agli occhi, perché questa guerra è una risposta chiara, chiara come la luce del sole. Quello che viviamo oggi è il vero dialogo, il dialogo della misericordia. Coraggio, mia cara, sono con te e ti abbraccio forte, Jacques».

Il 28 luglio 2015, due mesi dopo il rapimento di padre Jacques, lo Stato islamico ha co
nquistato la cittadina di al-Qaryatayn. La maggior parte degli abitanti è riuscita a scappare appena in tempo, duecento cristiani però sono stati sequestrati dall’Is. Dopo un mese, il 21 agosto, il monastero di Mar Elian è stato raso al suolo con i bulldozer. Non una delle millenarie pietre è rimasta in piedi, come si può vedere dalle immagini messe online dall’Is. Dopo altre tre settimane, il 3 settembre, da un sito dello Stato islamico sono venute fuori delle foto che mostrano alcuni dei cristiani di al-Qaryatayn seduti in prima fila in una grande sala, forse un’aula magna di una scuola, completamente rasati, alcuni smagriti al punto da vederne le ossa, lo sguardo vuoto, tutti portano i segni della prigionia. Tra i prigionieri si riconosce anche padre Jacques in abiti civili, anch’egli completamente rasato ed emaciato, con lo sguardo colmo di sgomento, la mano davanti alla bocca, come a non voler ammettere ciò che vede. Sul palco dell’aula siede un uomo in uniforme, barba lunga e spalle larghe, che firma un contratto. Si tratta di un cosiddetto contratto dhimmi, che assoggetta i cristiani al dominio dei musulmani, impedendo loro di costruire chiese e monasteri, di portare con sé un croce o una Bibbia. Secondo questo contratto, ai preti cristiani è fatto divieto di indossare i loro abiti religiosi, ai musulmani di ascoltare le preghiere, di leggere gli scritti e di mettere piede nelle chiese dei cristiani. Questi ultimi non possono portare armi e devono ubbidire incondizionatamente alle disposizioni date dallo Stato islamico. Devono piegarsi, sopportare in silenzio qualunque ingiustizia e persino pagare una tassa pro capite per poter vivere. Ci si sente male a leggere questo tipo di contratti, che divide molto chiaramente le creature di Dio in esseri umani di prima e di seconda classe e non lascia dubbi sul fatto che ci sia anche una terza classe di esseri umani, la cui vita vale ancora meno.

Lo sguardo di padre Jacques mentre tiene la mano davanti alla bocca è calmo, ma profondamente sconfortato e inerme. Aveva messo in conto il proprio martirio, ma che la sua comunità – i bambini che egli aveva battezzato, gli innamorati che aveva sposato, i vecchi a cui aveva promesso l’estrema unzione – finisse in prigionia era una cosa che doveva far impazzire persino un uomo così riflessivo, dotato di una così grande forza interiore, pronto ad accogliere la volontà di Dio come padre Jacques. In fondo è stato per amor suo che coloro che erano stati fatti prigionieri erano rimasti ad al-Qaryatayn invece di fuggire dalla Siria come hanno fatto molti altri cristiani. Senza dubbio padre Jacques pensa di portarne la colpa. Ma io so che il giudizio di Dio sarà diverso.

C’è speranza? Sì, c’è speranza, c’è sempre una speranza. Avevo appena finito di scrivere questo discorso quando, cinque giorni fa, martedì, ho ricevuto la notizia che padre Jacques era libero. Alcuni abitanti della cittadina di al-Qaryatayn lo hanno aiutato a fuggire dalla propria cella, lo hanno vestito in modo da camuffarlo e con l’aiuto di alcuni beduini sono riusciti a portarlo fuori dal territorio dello Stato islamico. Successivamente egli è tornato dai suoi fratelli e dalle sue sorelle della comunità di Mar Musa. Sono state chiaramente molte le persone che hanno preso parte alla liberazione di padre Jacques e ciascuna di esse, tutte musulmane, ha rischiato la propria vita per un prete cristiano. L’amore ha superato i confini delle religioni, delle etnie e delle culture. Questa notizia è splendida, letteralmente meravigliosa. Eppure prevale la preoccupazione, e in maniera più cocente proprio in padre Jacques, perché dopo la sua liberazione la vita degli altri duecento cristiani di al-Qaryatayn è più che mai in pericolo. E poi c’è anche padre Paolo, suo maestro e fondatore di quella comunità cristiana che ama l’islam, di cui continuano a non esserci tracce. Ma fino all’ultimo respiro c’è speranza.

Un Premio per la pace non può esortare alla guerra. Può però invitare alla preghiera. Signore e signori, so di chiedervi qualcosa di insolito – anche se così insolito non è trovandoci in una chiesa. Vi prego alla fine di questo discorso di non applaudire ma di pregare per padre Paolo e per i duecento cristiani di al-Qaryatayn che sono ancora prigionieri, per i bambini che padre Jacques ha battezzato, per gli innamorati che egli ha sposato, per i vecchi a cui ha promesso l’estrema unzione. E se non siete religiosi, vi prego di rivolgere le vostre speranze agli ostaggi e anche a padre Jacques, che se la prende con se stesso perché è l’unico a essere stato liberato. Cos’altro sono infatti le preghiere se non speranze rivolte a Dio? Io credo alle speranze e credo che esse – con o senza Dio – possano operare nel nostro mondo. Senza speranze l’umanità non avrebbe posto una pietra sull’altra, quelle stesse pietre che in guerra con tanta leggerezza vengono distrutte. E dunque, signore e signori, pregate per padre Jacques Mourad, pregate per padre Paolo Dall’Oglio, pregate per i cristiani di al-Qaryatayn, pregate o rivolgete le vostre speranze alla liberazione di tutti gli ostaggi e per la libertà in Siria e in Iraq. Vi invito anche ad alzarvi in piedi, in modo da contrapporre ai barbari video dei terroristi l’immagine della nostra fratellanza.
Vi ringrazio.

(traduzione di Cinzia Sciuto)

(19 dicembre 2015)



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