La democrazia ha un prezzo? Finanziamento dei partiti e rappresentanza dei lavoratori

Nicolò Bellanca


In democrazia, l’eguaglianza dei cittadini poggia su varie condizioni, tra cui spiccano due criteri: una testa, un voto, per il quale tutti contano alla pari davanti alle urne; l’equa rappresentanza delle preferenze, per cui la voce di ciascuno ha la stessa incidenza sulle decisioni pubbliche. Si tratta, ovviamente, di criteri soltanto approssimabili dai regimi democratici reali. Negli ultimi decenni, tuttavia, lo scollamento tra questi ideali e l’empiria è diventato talmente vasto e sistematico da stravolgere il funzionamento delle democrazie e da suscitare una crescente disaffezione di ampie fasce della popolazione.

Una radice di questo scollamento riguarda i nessi tra il denaro e la politica. Le campagne elettorali e gli apparati dei partiti politici richiedono grandi finanziamenti. I soldi arrivano in prevalenza da imprese private e ricchi donatori, che il più delle volte godono di esenzioni fiscali rilevanti. Sono dunque i soldi a condizionare la scelta dei candidati alle cariche politiche e il loro orientamento programmatico. Ciò riproduce a livello politico le diseguaglianze sociali, perché attribuisce una influenza sproporzionata alla minoranza con i redditi e i patrimoni più elevati: «questo finanziamento si riflette nelle politiche pubbliche dei governi (di destra come di sinistra), che invece dovrebbero tener conto delle preferenze della maggioranza» (p.185).

Un’altra radice del problema concerne la provenienza sociale dei nostri rappresentanti: gli operai, gli impiegati e i nuovi precari costituiscono quasi ovunque la metà della popolazione attiva, ma sono presenti in Parlamento con percentuali irrisorie. Ovviamente, i due versanti si tengono per mano: se i soldi di provenienza privata fanno la differenza, in molti casi un candidato entra in lizza sulla base della sua capacità di raccogliere fondi, che di solito è ridotta per i membri delle classi lavoratrici.

Nei riguardi del finanziamento pubblico della politica, Julia Cagé argomenta nel suo ultimo libro[1] una proposta, i “buoni per l’uguaglianza democratica”, consistente «nel dare a ogni cittadino un buono di uguale valore, per esempio 5 euro all’anno, che l’elettore assegnerà al movimento politico o al partito di suo gradimento. La scelta verrà effettuata online, per esempio al momento di trasmettere la propria dichiarazione dei redditi. Solo i movimenti o i partiti che ottengono il sostegno di una percentuale minima della popolazione (che potrebbe essere fissata all’1%) saranno inseriti nelle liste elettorali. I buoni di chi non ha indicato nessun movimento o partito politico (o quelli di chi ne ha indicato uno che non raggiunge la quota minima di adesioni) saranno assegnati in proporzione alle scelte fatte dagli altri cittadini. […] Il sistema dei buoni sarebbe inoltre associato non solo a un divieto rigoroso, per le società e per altre persone giuridiche, di effettuare donazioni a movimenti politici (come è avvenuto in molti paesi europei, per esempio in Francia, fin dal 1995), ma anche a un limite drastico alle donazioni e ai contributi da parte dei privati (che Julia Cagé propone di limitare a 200 euro all’anno). Questo nuovo sistema di finanziamento della politica comporterebbe infine obblighi rigorosi imposti ai partiti e ai movimenti politici che presentano i propri candidati alle elezioni: quello di rendere pubblici i propri conti e quello di garantire la trasparenza dei propri statuti e delle regole di governance interna, elementi che non di rado risultano estremamente opachi»[2].

Si tratterebbe di un meccanismo di ripartizione dei finanziamenti che assegnerebbe alle preferenze espresse dai singoli cittadini un peso uguale, invece che un peso dipendente dalla capacità contributiva di ciascuno. Quest’ultimo caso si verifica in Italia, dove ciascun contribuente può destinare a un partito il 2 per mille dell’imposta sul reddito. Così «ogni cittadino vota due volte. La prima nelle urne: una persona, un voto. E la seconda sul modulo della dichiarazione dei redditi: un euro, un voto, [dato che] lo Stato versa ai partiti una somma proporzionale al reddito di ciascun cittadino che abbia espresso le proprie preferenze politiche» (p.16 e p.14)[3].

Una proposta alternativa largamente discussa, sebbene non ricordata da Cagé, fu avanzata da Bruce Ackerman e Ian Ayres nel 2002[4]. A ciascun cittadino sia assegnato un buono in valuta corrente con cui finanziare la campagna elettorale di qualche candidato. Egli può decidere a chi destinare il buono presso apposite macchine automatiche, collocate in sedi pubbliche. D’altra parte, i contributi privati alle campagne elettorali siano rigorosamente anonimi, mediante un meccanismo di blind trust per il quale il cittadino eroga il finanziamento ad un organismo pubblico, indicando a chi vuole destinarlo; a sua volta, l’organismo trasmette al destinatario le somme complessive, senza comunicargli i nominativi dei donatori. Infine ciascun candidato debba scegliere tra il finanziamento pubblico e quello privato, cosicché se uno si rivolge ai donatori privati lascia un maggiore ammontare di buoni a disposizione dei rivali che optano per i contributi dei cittadini. Poiché in un territorio popoloso i votanti sono decine di milioni, i candidati hanno da spendere svariati milioni, rendendo conveniente abbandonare il finanziamento dei privati, per provare a drenare ai propri rivali politici il finanziamento pubblico.

Un tratto che accomuna questa proposta a quella di Cagé riguarda il prelievo dei fondi per il finanziamento della politica dalla fiscalità generale: è lo Stato che procura ai cittadini una somma uguale per tutti. A differenza di Cagé, Ackerman e Ayres non razionano o eliminano direttamente le donazioni private; delineano un ingegnoso meccanismo che le rende poco convenienti per i candidati. In questo, la loro idea appare meno dirigistica. D’altra parte, il suggerimento di Cagé presenta un punto di superiorità. Mentre Ackerman e Ayres si concentrano sul finanziamento delle campagne elettorali, Cagé è «dell’avviso che i partiti abbiano un ruolo importante tra un’elezione e l’altra: esprimere le preferenze di chi li sostiene, immaginare il futuro, elaborare programmi e piattaforme elettorali» (p.486). In base a questa concezione più ampia della vita politica, la proposta di Cagé verte su una forma complessiva di finanziamento della politica, che possa da un anno all’altro cambiare destinatario, favorendo l’emergere di nuovi movimenti.

Collocando la questione del costo della politica entro quella più ampia delle disuguaglianze, Cagé passa alla sua seconda proposta: occorrerebbe riservare una parte dei seggi del Parlamento a rappresentanti delle classi popolari. Un terzo dei seggi nell’assemblea legislativa dovrebbe essere garantito a deputati eletti all’interno di liste che riflettano la composizione della società, ad esempio destinando il 50% delle nomine a operai, impiegati e nuovi precari. In tal modo avremmo un sistema rappresentativo misto, che assicuri anche una rappresentanza socio-professionale della popolazione. «Con il declino generalizzato dei sindacati – per decenni vettori del progresso sociale – le classi popolari, già molto spesso assenti dal Parlamento e le cui preferenze sono ignorate dagli eletti, sono diventate una volta di più invisibili. Bisogna restituire loro una rappresentanza, facendole entrare direttamente all’Assemblea» (p.526)[5].

A mio parere i regimi democratici possono temporaneamente accet
tare regole che violano il requisito di non discriminazione. In democrazie polietniche, ad esempio, possono stabilirsi “diritti di rappresentanza speciale” quando gli svantaggi dovuti all’appartenenza a un gruppo minoritario siano ritenuti sistematici; possono inoltre prevedersi regole – i cosiddetti metodi di power sharing – volte alla formazione di un sistema di governo nel quale tutti i gruppi “politicamente rilevanti” della società detengano stabilmente una parte del potere[6]. Analogamente, in democrazie connotate da spiccate e persistenti distorsioni di genere e di razza, possono introdursi “quote rosa” e “azioni affermative”[7]. Siamo tuttavia davanti a stati di eccezione, giustificati dall’esigenza di attenuare grandi asimmetrie di potere. Come per ogni stato di eccezione, l’aspetto decisivo non riguarda tanto la regola che esso applica, quanto le basi su cui esso è inaugurato e quelle che vi pongono termine. Più rigoroso è il suo carattere provvisorio e contingente, più accettabili sono le deroghe alla non discriminazione.

L’esatto contrario si verifica, ad esempio, nell’esperimento venezuelano, che nel 2017 ha istituito un’Assemblea costituente in cui una parte rappresenta i territori, mentre l’altra parte rappresenta i gruppi sociali e le minoranze. Poiché una quota dei deputati sono scelti tra i rappresentanti delle diverse categorie (contadini, operai, studenti, persone con disabilità, e così via) e delle comunità indigene, ogni elettore vota due volte: in base al suo luogo di residenza e a seconda del gruppo sociale di appartenenza. Il maggiore problema di un simile meccanismo deriva dalla cristallizzazione: ad esempio, nelle economie moderne, la quota dei contadini nella popolazione attiva tende di solito a contrarsi nel tempo e non ha senso fissarne per sempre una quota tra i rappresentanti; se inoltre le asimmetrie di potere tra i gruppi si riducono, in base ai riscontri di indicatori pubblici condivisi, la discriminazione positiva può via via perdere senso.

Un’altra difficoltà si lega all’idea dei collegi elettorali separati. Esprimere un voto non come cittadini, bensì per la propria estrazione sociale, equivale a negare l’universalità dei diritti politici. In effetti Cagé, nella sua proposta, respinge tale aspetto: tutti cittadini voteranno due volte, ma sulle stesse schede. Una scheda per il suffragio basato sulle circoscrizioni territoriali, mentre l’altra riguarderà liste proporzionali in cui almeno metà dei candidati siano espressione delle classi popolari. La logica è la stessa delle quote rosa: ogni lista dovrà rispettare un numero minimo di candidati che siano operai, impiegati o nuovi precari; nulla impedisce però che un domani tale logica possa essere aggiornata o abbandonata.

Ulteriori insidie scaturiscono dal concetto stesso di rappresentanza. I cittadini-deleganti sono meglio rappresentati da un delegato della stessa condizione sociale, oppure da uno che, indipendentemente dalla sua origine personale, sappia adeguatamente registrare le loro preferenze? E ancora: un operaio che diventa deputato, continua a comportarsi come un operaio, oppure comincia progressivamente ad agire come membro di una casta professionalizzata? Cagé non sottovaluta queste insidie e non sembra disporre di antidoti decisivi. Al riguardo il suo argomento suona così: è auspicabile che in democrazia tutti i gruppi sociali abbiano voce; senza dubbio le classi lavoratrici sono diventate quasi àfone; le ragioni sono tante e i rimedi non dipendono unicamente dall’ingegneria istituzionale; ammesso tutto ciò, e riconosciute le difficoltà poco sopra richiamate, possiamo comunque ritenere positivo che esponenti dei gruppi marginalizzati accedano al Parlamento. Sarebbe, se non altro, un’apertura sociale da parte di un regime che, lasciato a sé stesso, tende a riprodursi endogamicamente.


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Il libro di Julia Cagé testimonia come una rigorosa ricerca di economia empirica possa documentare e discutere grandi idee. Il peso degli interessi privati e l’assenza di un’effettiva rappresentanza delle classi popolari, costituiscono alcune delle maggiori difficoltà delle odierne democrazie. L’autrice mostra come «la crescita delle disuguaglianze economiche non fa che alimentare le disuguaglianze politiche; e [come] maggiori sono le disuguaglianze politiche, più numerose sono le politiche che porteranno a loro volta ad un ulteriore aumento delle disuguaglianze economiche» (p.370). Questo circuito perverso viene da lei affrontato con proposte incisivamente semplici e pragmatiche. Nessuno s’illude, nemmeno l’autrice, che tali proposte siano un colpo di bacchetta magica. Esse hanno però il merito di porsi all’altezza dei problemi individuati, diventando un riferimento per i dibattiti successivi.
NOTE
[1] Julia Cagé, Il prezzo della democrazia. Soldi, potere e rappresentanza (2018), traduzione di Stefano Travagli, Baldini+Castoldi, Milano, 2020. Quando riporto nel testo citazioni seguite da un numero di pagina, esse sono tratte dal libro di Cagé.

[2] Thomas Piketty, Capitale e ideologia (2019), La Nave di Teseo, Milano, 2020, pp.1150-1151.

[3] La sfiducia generalizzata degli italiani nei confronti dei partiti, ha comportato che «in media, nel periodo 2015-2017, solo il 2,7% dei contribuenti (ovvero poco più di 1,1 milione di individui) hanno sbarrato la famosa casella che permette di finanziare un partito» (p.117).

[4] Bruce Ackerman e Ian Ayres, Voting with dollars: a new paradigm for campaign finance, Yale University Press, New Haven, 2002.

[5] «In Francia, operai e impiegati costituiscono oggi poco più del 48% della popolazione attiva. Tra i deputati, questa percentuale scende al 3%: poco più che negli Stati Uniti (2%) e poco meno che nel Regno Unito (5%)» (p.528).

[6] Vedi Anna K. Jarstad, “Sharing power to build states”, in David Chandler e Timothy D. Sisk, a cura di, Routledge handbook of international statebuilding, Routledge, London, 2013, pp.246-256.

[7] Sulle quote di genere, vedi Anne Phillips, The politics of presence, Clarendon Press, Oxford, 1995, cap.3; sull’azione affermativa, vedi Terry H. Anderson, The pursuit of fairness. A history of affirmative action, Oxford University Press, Oxford, 2004.

(30 ottobre 2020)





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