“La fine della vita” di Bernard Kouchner

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Non amo la parola «eutanasia»: finisce troppo male, e ho già detto tutto. Preferisco «accompagnamento», «fine della vita» o «morte dolce». Quella che si sceglie per andarsene circondati dai propri cari, nel migliore dei casi; rifiutando l’ineluttabile degradazione. Sì, penso che si possa, che si abbia il diritto di scegliere la fine della propria vita, la propria morte. Questo tema solleva molte questioni, passioni, dibattiti qui in Francia. Il caso Marie Humbert è esemplare (ma forse dovrei dire il caso Vincent Humbert).
Ogni storia è unica. Quella di Vincent Humbert era eccezionale. Tetraplegico a seguito di un incidente, Vincent sapeva di non avere alcuna speranza di miglioramento e che la sua vita sarebbe stata sempre quale era. Restare inchiodato ad un letto, immobile, cieco, sordo e muto non lo interessava più. Ne aveva abbastanza, voleva morire ma non poteva farlo fisicamente lui stesso e domandava di essere aiutato. Ha scritto, più esattamente ha fatto scrivere da sua madre, dettando ogni carattere grazie al movimento di un solo dito, una lettera al presidente della Repubblica perché lo autorizzasse all’eutanasia. La risposta di Chirac fu ambigua ma… negò l’autorizzazione. Ci sono voluti la determinazione di questo giovane uomo, l’amore di una madre, il coraggio di un medico, i rischi legali che essi si sono assunti, perché la scelta di Vincent venisse rispettata. Il caso fece molto rumore all’epoca e il dottor Chaussoy fu «abbandonato» dal consesso dei medici.
Poco più di un anno più tardi, ecco che viene emanata un’ordinanza di non luogo a procedere nei confronti della madre e del medico.
Sì, per il medico, questa è un’eccellente decisione in quanto gli permette di continuare a esercitare la professione. Questo «non luogo» la dice però lunga sull’ipocrisia della nostra società e ancor più della nostra giustizia. È come se niente avesse avuto luogo! La mediatizzazione del caso all’epoca aveva suscitato un forte movimento di simpatia nei confronti del giovane – certo – ma anche della madre e del medico. Sarebbe stato ben difficile condannare la madre e il medico senza avere l’opinione pubblica addosso. D’altra parte, non condannarli avrebbe significato riconoscere l’eutanasia e non più sanzionarla. E allora ecco, si è trovato di meglio, il caso non ha avuto luogo, «il non luogo a». Come ha detto Marie Humbert «si va così a insabbiare la questione, ed è come se mio figlio e la sua lotta non fossero esistiti».
Ecco riassunte in una storia drammatica, ma tutto sommato banale, l’insieme delle questioni – etiche, morali, religiose, sociali, legali – che pone la «fine della vita», ovvero la scelta della propria morte dolce, in una società – la nostra – che, se per se stessa è, complessivamente, pronta, deve però confrontarsi con il «passatismo», con il conformismo del diritto e della medicina.
Quando ero ministro della Salute, organizzammo due giornate di riflessione dedicate alla questione della «fine della vita». Vi parteciparono filosofi, medici, sociologi, rappresentanti delle quattro grandi religioni, rappresentanti delle associazioni di pazienti. I dibattiti, gli scambi d’opinione furono appassionati, appassionanti, contraddittori e complementari, opposti, ma ricchi di insegnamento; tutte le opinioni sono rispettabili e tutte devono essere rispettate. Dopo ore e ore di discussione, ci scontrammo con una questione semplice: «A chi appartiene la vita?». A Dio, dicevano gli uni, all’uomo, rispondevano gli altri. Poi nacque un malinteso: «Voler scegliere la propria morte non implica che la si scelga per gli altri». Le due posizioni sono entrambe rispettabili. Tutti così restano liberi. Nella legge del 4 marzo del 2002 (data della legge dei diritti del malato) noi abbiamo auspicato che fosse chiaramente riaffermato il diritto al rifiuto delle cure, al rifiuto di ogni accanimento terapeutico.
Ma non è sufficiente.
A che punto siamo oggi in Francia ?
La Commissione d’inchiesta parlamentare Leonetti (dal nome di chi la dirigeva) ha compiuto un grande sforzo di concertazione, fondato su 75 audizioni. Tiene conto dell’evoluzione del ruolo della morte nella nostra società, sul piano teorico, filosofico, medico e sociale. È un progresso.
Non di meno la soggettività del medico continua a essere preponderante. La legge tiene più conto dell’opinione del medico che di quella del paziente o della sua famiglia. È sempre la medicina ad avere l’ultima parola. La volontà del paziente – sia essa espressa da sue indicazioni preventive o per il tramite di una persona di sua fiducia – ha solo un valore indicativo: il medico non è tenuto a rispettarla.
Dopo anni di riflessione come «medico senza frontiere», come medico ospedaliero e come ministro della Salute mi pongo tra gli altri il problema della rianimazione neonatale obbligatoria anche quando inutile: non basta fermare i trattamenti perché la morte arrivi, bisogna invece accompagnarla con un gesto attivo, se non si vuole lasciare agonizzare il bambino per delle ore, per dei giorni. Poi, mi interrogo sul problema delle persone colpite dalla malattia di Alzheimer, le persone dementi che abbiano lasciato indicazioni preventive di cui non si tiene conto perché troppo datate o perché affidate a un’altra persona, possibilità che, in Francia, non è ancora riconosciuta. Nel diritto francese infatti «nessuno può esprimere un consenso in nome o in vece d’altri» e quindi ogni volontà affidata da una persona sana di mente non è più valida nel momento in cui essa venga a essere demente, perché si considera la possibilità che la persona avrebbe potuto cambiare opinione.
L’ipocrisia continua a stabilire un confine tra lasciarsi morire e darsi la morte. La questione del­l’interruzione dell’alimentazione resta irrisolta, sia che si tratti dell’alimentazione per via enterale sia dell’interruzione di idratazione – pratica frequente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, per i pazienti in fin di vita o in coma persistente; la continuazione dell’idratazione è considerata infatti in questi casi come un trattamento, allo stesso titolo delle cure mediche, e può dunque venire assimilata all’accanimento terapeutico.
Ma di che cosa stiamo parlando? Perché si tratta della dignità, della libertà, della sofferenza. Il confine tra eutanasia attiva e passiva è caduco. Di che cosa stiamo parlando? Perché si tratta della dignità della persona riguardo all’affermazione della propria stessa dignità e non di una dignità che apparterrebbe alla collettività; si tratta di una libertà individuale che deve essere rispettata dalla società; si tratta della sofferenza del paziente, ed è forse su questo tema che la società è più pronta ad aiutare e accompagnare coloro che soffrono.
Sì, io penso che si possa, caso per caso, autorizzare l’aiuto medico al suicidio di coloro che non hanno i mezzi fisici per suicidarsi.
Infine, non dovremmo dimenticare che il medico è, in ogni circostanza, colui che ha la posizione migliore per conoscere ciò che pensava e pensa il proprio paziente.
È senza dubbio difficile legiferare, ma bisogna cessare di condannare, e studiare ogni situazione caso per caso. È questo che si chiama «etica clinica»: scienza nuova, dipartiment
o necessario in ogni istituto ospedaliero.

(da MicroMega-La primavera n. 5/2006)



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