La politica e il virus: due lezioni che potremmo apprendere dal dramma della pandemia

Fabio Armao



La pandemia di COVID-19 sta mettendo a dura prova i governi in ogni parte del pianeta e le loro rispettive capacità di affrontare il diffondersi della malattia. Tra le democrazie, non a caso, serpeggia una qualche invidia nei confronti di quei paesi autoritari (leggi Cina), che possono rispondere alla minaccia semplicemente militarizzando il territorio, senza dover destreggiarsi tra gli ostacoli generati dall’obbligo costituzionale di rispettare i diritti civili e le proteste dei cittadini che rivendicano le proprie libertà individuali.

Ora, sarebbe facile osservare come in Italia abbiamo il coraggio di riscoprire e rivendicare le nostre libertà (e quali poi: quella di uscire, passeggiare o correre o dare l’assalto ai centri commerciali) quando ci viene chiesto soltanto di rispettare la virtù civica essenziale di operare per il bene comune: ad esempio, pagando le tasse o, oggi, evitando la diffusione del contagio (anche nostro) – obiettivo che sarebbe, in realtà, facilmente raggiungibile senza evocare i massimi princìpi, limitandoci a mostrare (meglio, “provare”) rispetto e riconoscenza nei confronti di coloro che, per salvare anche noi, mettono loro sì davvero a rischio la propria vita, correndo per i corridoi degli ospedali e non dei supermercati.

Lo scopo di queste poche righe, tuttavia, non è entrare nel merito delle strategie adottate dai diversi governi; ma di provare a riflettere su quello che i drammatici eventi in corso ci stanno rivelando sul concetto stesso di politica.

Una prima considerazione riguarda una delle categorie che, almeno da Carl Schmitt in poi, è stata ritenuta fondante dell’idea stessa di politica: la diade amico-nemico. La pandemia vanifica, ridicolizza persino, qualunque tentativo di ridurre il discorso politico all’esistenza di una minaccia esterna che giustifichi e legittimi l’adozione di misure estreme, dalla chiusura dei confini alla guerra. Da che mondo è mondo, le élite del potere hanno tanto più prefigurato l’esistenza di pericoli esterni, quanto più si dimostravano incapaci di affrontare e risolvere i conflitti interni (di classe, si sarebbe detto nel Novecento) generati dalle ineguaglianze sociali e dai rapporti di sfruttamento. Questo è stato nel secolo scorso il segreto del successo della realpolitik delle grandi potenze europee, foriera peraltro di ben due guerre mondiali, come lo è dei più dozzinali retori populisti dei nostri giorni. È facile risolvere una crisi economica e sociale interna prefigurando un’invasione di migranti dall’Africa o dal Messico, per fare l’esempio più banale. Anche quando la realtà ci mostra, all’opposto, un Occidente che procede indisturbato al sistematico saccheggio delle risorse naturali dei paesi africani, impedendo loro qualunque forma di sviluppo autonomo; o che stimola i traffici illeciti dall’America latina esercitando una domanda crescente di manodopera schiava o di “beni di consumo” quali le droghe.

Il fatto è che oggi il nemico può essere il nostro migliore amico, il parente, noi stessi (la nostra faciloneria). Il coronavirus è dentro i confini del nostro stato, della nostra regione, del nostro comune, del nostro stesso organismo. Siamo noi che lo riproduciamo ed è dalle nostre risposte che dipende il successo o il fallimento delle strategie di contrasto. Non solo: la realtà del virus ci sta presentando il conto degli errori di cui noi (non un qualche soggetto alieno) siamo i diretti responsabili. Sono i politici italiani che si sono succeduti al governo negli ultimi decenni, democraticamente eletti dai cittadini italiani, che hanno scelto di ridurre i bilanci della sanità (per avvantaggiare, spesso, interessi privati tutt’altro che commendevoli), di svilire il ruolo dell’istruzione e della ricerca, di farsi vanto della propria ignoranza come captatio benevolentiae nei confronti del “popolo” (oltretutto, mediamente più acculturato di loro).

In Italia, questa radicata incapacità politica di “guardarsi dentro”, di assumersi le proprie responsabilità di governanti e di cittadini, non costituisce del resto certo una novità e ha già fatto danni gravissimi. Mi riferisco, in particolare, al problema della mafia, liquidata come una congrega di viddani facili da identificare e contrastare con normali misure repressive, propagandata come una forma ordinaria di criminalità esterna al corpo sociale “sano”, mentre invece si sviluppava al suo interno, proprio come un virus, grazie alle collusioni di politici e imprenditori, di banchieri e di liberi professionisti del Sud, del Centro e del Nord, fino al punto da assurgere a emergenza nazionale (e non solo).

Una seconda considerazione riguarda il rapporto che la politica deve intrattenere con l’economia. In questi giorni è tutto un invocare l’adozione di un’economia di guerra per affrontare le incalcolabili conseguenze sociali e finanziarie della pandemia. Nell’economia di guerra – come si può leggere su qualunque dizionario – lo stato sottopone l’economia di mercato a una regolamentazione senza sospenderla e senza abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione o la libera circolazione della manodopera. Essa si finanzia con una combinazione di misure che vanno dalla tassazione, all’aumento del debito pubblico, alle donazioni, anche a costo di generare inflazione. Tutte misure che i governi, a partire da quelli occidentali, stanno già prendendo in queste settimane.

Ma perché bisogna aspettare una “guerra” affinché la politica si riappropri del potere di esercitare una qualche forma di controllo sull’economia? E perché, oggi, definiamo “di guerra” una politica economica che, per una volta, non ha come obiettivo riconvertire gli impianti industriali alla costruzione di armamenti o rendere possibile la mobilitazione di milioni di soldati da mandare al fronte; che, caso unico nella storia, mira a salvare invece che a uccidere?

Non vogliono essere, le mie, domande retoriche dettate dalla riscoperta di una qualche forma di irenismo. Tali domande nascono, piuttosto, dalla constatazione che stiamo prefigurando nei fatti, seppure ancora in forma maldestra e inconsapevole, una vera e propria “economia cosmopolitica”, guidata cioè dalla necessità di (provare a) elaborare dei progetti di politica economica che siano in grado di salvaguardare l’umanità dai rischi di un dilagare incontrollato della pandemia che potrebbe, quella sì, portare a conflitti e guerre. Le possibilità di successo della lotta al virus, infatti, dipendono dalla capacità dei governi nazionali di sviluppare azioni coordinate, condivise e globali sul piano economico, finanziario, industriale: non si tratta soltanto di salvare l’Italia o la Francia, la Germania o gli Stati Uniti; magari dimenticandosi una volta di più dei paesi che pretendiamo di continuare a relegare alla periferia del sistema internazionale. Che ci piaccia o meno, il virus ci pone di fronte a una forma di globalizzazione che non consente fughe solitarie e che non lascia spazio a soluzioni sovraniste: da un lato, la sua capacità di mutazione non garantisce un’immunità permanente, nemmeno all’interno del proprio “gregge”; dall’altro, qualunque forma di autarchia si scontrerebbe con l’impossibilità concreta di limitare a lungo gli spostamenti di persone, di merci o di dati, per la semplice ragione che ciò equivarrebbe alla morte delle nostre società.
Una visione cosmopolitica si rivela quindi fondamentale a tutti i livelli. A partire dalle stesse politiche di distanziamento sociale e di confinamento nelle proprie abitazioni come prima e necessaria forma di contrasto: ciò che impedisce al virus di riprodursi non è certo la chiusura dei confini statali o i controlli alle frontiere; e procedere al rimpatrio, anche forzato, degli stranieri ciascuno nel proprio paese può, al contrario, contribuire al dilagare del contagio. Sarebbe molto più logico concordare protocolli universali di distanziamento sociale e la cura degli individui positivi al virus ovunque essi si trovino, a prescindere dalla propria nazionalità, prevedendo eventuali forme di compensazione dei costi sostenuti.

Per non parlare, poi, della necessità che vengano condivisi tutti i dati e le conoscenze scientifiche relative alla diffusione del virus e alle possibili terapie. Il grado di potenza di una nazione, in questo caso più che mai, dipende dalla sua capacità di dire la verità e non dal rivendicare meno contagi, magari falsificando i dati (come sembra stia facendo, ad esempio, la Russia). Né si può pretendere di affidare la ricerca sul virus e sui vaccini a mere logiche concorrenziali di mercato (come sembra intenzionato a fare Trump, quando si offre di comprare l’esclusiva dei vaccini eventualmente prodotti da una ditta tedesca). Ai tempi della pandemia, le capacità di leadership mondiale non possono basarsi sull’hard power degli armamenti e degli eserciti; e nemmeno tanto sul soft power della persuasione. Ciò che serve, piuttosto, è rivendicare e valorizzare al massimo una delle virtù più bistrattate della democrazia, la capacità di esercitare il potere pubblico in pubblico. L’open power della trasparenza è, oggi, l’arma più efficace di cui disponiamo nella lotta contro il virus.

Vale la pena aggiungere un corollario a questa seconda considerazione sul rapporto tra politica ed economia. Il vecchio secolo, dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo, si era chiuso con la conclamata (e auspicata, masochisticamente, dagli stessi governanti) fine delle ideologie “politiche”, ovvero del confronto e talvolta del conflitto tra sistemi di idee e di valori. Ciò ha lasciato via libera al dilagare nelle istituzioni finanziarie internazionali e all’interno di molti governi di quel neoliberismo che rivendicava con orgoglio (e arroganza) la propria natura di scienza, scevra quindi da qualunque afflato normativo, oggettiva nelle proprie premesse e del tutto neutrale negli esiti decisionali, a differenza proprio delle vecchie e divisive ideologie. L’uso che i totalitarismi, nel secolo scorso, avevano fatto del darwinismo sociale o della genetica avrebbe dovuto allertarci sui rischi dello scientismo. E così pure avrebbe dovuto insospettirci il fatto che il neoliberismo come pratica di governo venisse immancabilmente messo in atto da gruppi conservatori o reazionari (talvolta, in particolare negli Usa, persino fondamentalisti). Così, però, non è stato; e abbiamo preferito illuderci (almeno le maggioranze che hanno portato quelle forze al governo nei paesi democratici) che la politica si fosse davvero emancipata dalle ideologie e che fosse sufficiente affidarsi alle forze del libero mercato per riuscire a garantire il perseguimento del bene comune. La crescita esponenziale delle diseguaglianze tra gli stati e all’interno anche di quelli più sviluppati è l’evidente dimostrazione del fatto che la politica implica sempre scelte tra valori che possono anche entrare in conflitto tra loro – e che l’eguaglianza è tra i meno frequentati, persino nelle democrazie.

La speranza è che l’intervento odierno, massiccio e dovuto, da parte dei governi nel campo dell’economia possa avere anche un effetto di disvelamento finale della natura ideologica e reazionaria del neoliberismo; del fatto che la pretesa illegittimità o impossibilità di alterare le dinamiche spontanee del mercato costituisce soltanto l’alibi posto a difesa degli interessi privati più retrivi del capitalismo. Perché, tuttavia, una politica economica davvero democratica possa sperare di avere successo è necessario che si affermi al di fuori di qualunque logica statalistica, e salvaguardando, comunque, la sopravvivenza della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Per esser ancora più espliciti: non si sta rivendicando in alcun modo il principio dell’autonomia dei singoli stati di accrescere il proprio debito pubblico e magari di restaurare la libertà di conio di valute nazionali (prospettiva, questa, cara a tanti movimenti sovranisti), né si invoca la nazionalizzazione delle risorse e delle imprese. Al contrario, ciò che si propone è un “ritorno a Bretton Woods”, ma avendo il coraggio di riscoprirne lo spirito originario così come era stato espresso dal pensiero di Keynes, magari persino recuperando la sua proposta di creare una nuova valuta internazionale da utilizzare come puro e semplice sistema di compensazione multilaterale dei debiti esteri di ciascun paese (il bancor)[1].

Lo stato di necessità generato dalla lotta per la sopravvivenza alla pandemia, in altri termini, ci pone di fronte a un’opportunità senza precedenti: dar vita appunto a un’economia cosmopolitica basata sull’interesse di tutti gli stati a collaborare per combattere un nemico che non si trova al di là dei loro confini, ma si è già incistato all’interno di ciascuno di essi. Sta a noi coglierla o lasciarcela sfuggire di mano. Adesso, in effetti, è il momento del “rally round the flag”; purché la bandiera non sia la nostra, ma quella dell’intera umanità. La vittoria, poi, potrebbe costituire un precedente: una volta sconfitto il virus, perché non dovremmo poter lanciare una seconda campagna per salvare il pianeta dal disastro ecologico?

[1] Negli ultimi anni, il dibattito su questo particolare aspetto del progetto di Keynes è stato rinfocolato dal fatto che a riproporlo sia stata la Cina, ovvero il massimo paese creditore al mondo. Si veda L. Fantacci. Why Not Bancor? Keynes’s Currency Plan as a Solution to Global Imbalances, in T. Hirai, M. C. Marcuzzo e P. Mehrling (a cura di), Keynesian Reflections: Effective Demand, Money, Finance, and Policies in the Crisis, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 172-195.
(26 marzo 2020)





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