La rivoluzione, la piazza, la politica. Note sulla transizione tunisina

Annamaria Rivera

A ridosso del 14 gennaio, terzo anniversario della caduta del regime dittatoriale di Ben Ali, riproponiamo questo articolo pubblicato su MicroMega 7/2013, la cui analisi resta attuale, sebbene bisognosa delle informazioni aggiornate che vi proponiamo.

La Tunisia resta il solo, tra i paesi coinvolti nella “primavera araba”, a sperimentare il cammino, per quanto accidentato, di una transizione democratica. Almeno per ora, infatti, sembra sventato il rischio di uno sbocco all’egiziana della crisi che ha paralizzato il Paese per alcuni mesi.

Attraverso l’ambiguo e travagliato “dialogo nazionale”, mediato da quattro organizzazioni, tra cui l’associazione padronale e l’Ugtt, la potente centrale sindacale -vero ago della bilancia-, si è infine pervenuti a una soluzione istituzionale condivisa. Il governo provvisorio della Troika, diretto da Ennahda, il partito islamista, cederà il posto a un gabinetto tecnico incaricato di condurre a nuove elezioni. L’Assemblea nazionale costituente si avvia a licenziare il testo della nuova Costituzione, che sembra profilarsi come la più avanzata del mondo arabo, nonostante le acute controversie e i molti limiti. Fra questi, il mantenimento dell’esordio “In nome di Dio, Clemente e Misericordioso”, lo Stato definito quale “protettore del sacro”, la “sacralità” del diritto alla vita che però non arriva a cancellare la pena di morte, l’insistenza sull’identità arabo-musulmana, che lascia ben poco spazio al riconoscimento delle minoranze. Tuttavia, la parte finora approvata contiene qualche articolo innovativo. Per esempio, per la prima volta è reso esplicito, negli articoli 20 e 45, il riconoscimento della parità di genere. E’ certo un avanzamento rispetto al rischio che passasse il concetto di complementarità tra i sessi auspicato da Ennahda, ma non una novità clamorosa, se si tiene conto della tradizione modernizzatrice bourguibista, del Codice dello statuto personale del ’56, della Costituzione del ’59…

L’anno III della rivoluzione tunisina cade in un contesto segnato da un’acuta polarizzazione politica, ben rappresentata dalle manifestazioni varie e contrapposte che si sono svolte il 14 gennaio, e dalla contestazione della stessa data celebrativa: per molti, soprattutto per i diseredati delle aree marginalizzate in cui scoppiò la rivolta contro il regime, la data giusta è il 17 dicembre 2010, quando Mohamed Bouazizi si fece “scintilla della Rivoluzione”. Si aggiungano la nuova offensiva del terrorismo jihadista, che ha già fatto un numero rilevante di vittime tra le forze dell’ordine; i tumulti ricorrenti nei quartieri popolari e nelle aree più povere; la disastrosa situazione economica e sociale che abbiamo tratteggiato nell’articolo; la disillusione conseguente, soprattutto fra quei giovani delle classi subalterne che sono stati i veri protagonisti dell’insurrezione popolare; infine, l’inesorabile catena di auto-immolazioni di protesta, espressione di una disperazione sociale tuttora non sopita.

Se poi si considera che restano ancora ignoti i mandanti e gli esecutori degli omicidi politici dei due dirigenti di sinistra, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, e che, nonostante le promesse presidenziali, dal 28 marzo 2012 tuttora langue nelle patrie galere Jabeur Mejri, condannato a ben sette anni e mezzo di carcere per un reato di opinione, si può cogliere ancor meglio quanto lungo e tortuoso si delinei il cammino della transizione democratica tunisina. Ma, come abbiamo scritto nell’articolo, i processi rivoluzionari non si misurano secondo i tempi corti dell’attualità, bensì secondo quelli lunghi della storia. (An. Ri.)

TUNISIA: LA RIVOLUZIONE INCOMPIUTA

, da MicroMega 7/2013

Un processo instabile ma ancora aperto

A dispetto del sarcasmo, in uso fra osservatori occidentali, sulle primavere arabe che volgerebbero ormai verso un inverno incupito dalla bruma islamista, è indubbio che il periodo inaugurato dalla caduta del regime di Zine El-Abidine Ben Ali rappresenti una rottura drastica nella storia dei regimi autoritari arabi (Geisser, 2012).

La metafora dell’inverno di solito si accompagna con la riproposizione del teorema dell’eccezione araba e del pregiudizio secondo il quale gli «arabi» sarebbero inadatti alla democrazia, in continuità con la vecchia tesi razzista che voleva che essi fossero «immaturi» per l’indipendenza. Questa metafora in realtà è simmetrica alle narrative che hanno rappresentato le insorgenze popolari in paesi del Maghreb e del Mashrek come «primavere», probabilmente per analogia con quella di Praga 1; oppure come Twitter revolutions o Facebook revolutions 2; perfino, nel caso della Tunisia, come «rivoluzione dei gelsomini»: rappresentazioni tendenti a semplificare, addomesticare, ricondurre a matrice occidentale processi variegati, complessi, anche fortemente radicati nelle storie nazionali, a loro volta caratterizzate, fra l’altro, da una conflittualità sociale mai domata.

A proposito della Tunisia occorre dire che, sebbene la transizione sia attualmente segnata, come poi dirò, da una crisi politica che si accompagna a una grave crisi economica e sociale, sarebbe un errore dare per fallita la «rivoluzione del 14 gennaio» 3. I processi rivoluzionari, infatti, non si misurano secondo i tempi corti dell’attualità, bensì secondo quelli lunghi della storia. Ciò vale anche per i più spontanei, come quello tunisino. Privo di leader, avanguardie, organizzazione, ideologia, esso è scaturito dalle regioni più povere e abbandonate, marcate da un’endemica tendenza alla rivolta collettiva spontanea, talvolta violenta, spesso priva di strategia e di direzione politica e perfino sindacale (Rollinde, 1999).

L’insorgenza, scoppiata nel governatorato di Sidi Bouzid in modo del tutto spontaneo come reazione al suicidio pubblico per fuoco di Mohamed Bouazizi 4, sostenuta poi dalle strutture locali dell’Ugtt 5, la principale centrale sindacale, presto si generalizzerà – anche grazie ai «nuovi media» – ad altre regioni e alle più varie classi e categorie sociali, fino a guadagnare il cuore della capitale. Nondimeno, nella fase nascente essa ha avuto come protagonista quel sottoproletariato escluso e umiliato che ben poteva identificarsi con l’umile venditore ambulante e comprendere le ragioni del suo tragico atto di protesta.
Non per caso la rivolta ha avuto, all’inizio, quale spinta largamente condivisa, l’avversione per le forze dell’ordine, avvezze a malmenare, brutalizzare, umiliare la racaille 6. È anzitutto come risposta al disprezzo subito quotidianamente che nasce la rivendicazione della dignità che poi – insieme con la richiesta di lavoro e libertà – sarà fra gli slogan principali della rivoluzione del 14 gennaio. La parola d’ordine della dignità, che già aveva contraddistinto la lotta anticoloniale e più tardi contro il sottosviluppo, coniugandosi infine col famoso Dégage!, sarà risemantizzata nel senso della dignità collettiva mortificata e offesa dal regime di Ben Ali e del suo clan mafioso (Béchir-Ayari, 2011).

La conflittualità sociale permanente, la dimensione generazionale e culturale

In definitiva, la sollevazione popolare che condurrà all’affossamento del regime benalista è nata dapprima c
ome insorgenza dei «rifiuti della società»: i disperati, gli esclusi, i marginali, gli scampati alle traversate mortali del Mediterraneo, coloro che avevano ricevuto come uniche forme di attenzione da parte dello Stato il disprezzo, la repressione, il carcere, la tortura. Questo versante si coniugherà poi con la dimensione generazionale e culturale: qualcosa che ricorda il movimento del Sessantotto, a parere di Béchir-Ayari e Geisser (2011).

La lezione tunisina ci mette in guardia dagli schematismi sociologici, quelli che, per esempio, distinguono nettamente le varie categorie di protesta e mobilitazione di massa: tumulto, rivolta, sollevazione, movimento… E ci invita ad analizzare gli eventi collocandoli nella lunga durata.

È in tal modo che si può comprendere, fra l’altro, come la sollevazione popolare tunisina (se non vogliamo chiamarla rivoluzione) sia figlia, se pur inattesa, di un lungo ciclo di tensioni sociali, proteste, lotte e conseguente erosione della legittimità del potere benalista e della sua capacità di presa simbolica sulla popolazione. Questo ciclo ha conosciuto una tappa rilevante col movimento di lotta per il lavoro, contro la precarietà e la corruzione – d’importanza e radicalità considerevoli – sorto nel 2008 nell’area del bacino minerario di Gafsa, nel Sud-Ovest tunisino, culla della lotta anticoloniale e vecchio bastione sindacale. Ciò dimostra che «la forza dell’obbedienza», per citare il titolo dell’opera di Béatrice Hibou (2006) 7, ha avuto quasi sempre come contraltare la forza dell’insubordinazione e del conflitto sociale.

Certo, oltre alla conflittualità sociale endemica, si deve sottolineare l’importanza dei flussi cultural-politici provenienti dai movimenti altermondialisti nonché delle culture, stili e mode giovanili circolanti su scala quasi planetaria: gli uni e gli altri hanno contribuito a demolire la trascendenza politica del regime, già logorato dalla guerra intestina tra i vari clan mafiosi che ne erano parte e dagli eccessi di voracità, arroganza, corruzione. Questa causalità ibrida, tra locale e globale, è ben mostrata dalla simbologia che ha contraddistinto soprattutto la prima fase post-rivoluzione: sui muri di città e villaggi, nelle assemblee, nei cortei, nei sit-in, le immagini di Che Guevara e Bob Marley dominavano accanto all’icona di Bouzizi, sullo sfondo della bandiera e dell’inno nazionali.

Nel contempo, tali flussi cultural-politici, nonché la liberazione della parola conquistata con l’affossamento del regime, hanno favorito anche l’emersione di un protagonismo femminile di massa e della soggettività delle minoranze, un tempo ridotte al silenzio o a puro folklore. Quanto al primo, è palese il ruolo importante che tante donne tunisine hanno svolto nel corso della sollevazione popolare e tuttora svolgono nella fase di transizione. Quanto alla seconda, si consideri che oggi la questione della pluralità «etnica», religiosa e culturale della società tunisina – composta, fra gli altri, da amazigh 8, neri, ebrei – sta poco a poco entrando nello spazio e nel dibattito pubblici (Pouessel, 2012).

Basta dire che per la prima volta dopo la rivoluzione del 14 gennaio e forse nella storia della Tunisia indipendente, una festa del Primo maggio, quello del 2013, ha visto a Tunisi non solo la consueta manifestazione sindacale, ma anche un corteo costituito da cittadini/e tunisini/e neri/e che protestavano contro discriminazione e segregazione, reclamando strumenti legislativi (in primis la Costituzione) che li riconoscano e li proteggano in quanto minoranza. Quel corteo ha infranto il tabù del razzismo: profondamente radicato nella società eppure innominabile, interdetto, soprattutto a causa di una storia nazionale che ha esaltato l’unità del popolo contro il colonialismo. Le retoriche nazionaliste conseguenti avevano finora rappresentato la Tunisia come culla della tolleranza, della convivenza, del pluralismo; e il razzismo come un fenomeno che riguarderebbe solo i paesi del Nord del mondo, quelli verso cui si emigra (Rivera, 2013).

La crisi politica dopo gli omicidi di Belaïd e Brahmi

Lo «sguardo lungo» permette anche di collocare la crisi politica attuale entro un processo di transizione che, come tutti i processi simili, non può che essere instabile, contraddittorio, disomogeneo, comportante una certa quota di reversibilità (Geisser, 2012).

Nel momento in cui scrivo, la crisi, apertasi dopo l’omicidio politico di Chokri Belaïd e divenuta assai acuta dopo quello di Mohamed Brahmi (dei quali dirò più avanti), non sembra ancora in via di risoluzione, malgrado il progetto di «dialogo nazionale» lanciato dall’Ugtt. Il punto centrale della piattaforma proposta dalla centrale sindacale e dagli altri tre soggetti negoziatori 9 è costituito dalle dimissioni dell’esecutivo provvisorio a maggioranza islamista, in favore di un governo tecnico con l’incarico di condurre alle elezioni 10. Finora Ennahda 11, divisa al suo interno, cerca di guadagnare tempo rilasciando dichiarazioni ambigue e/o contraddittorie, sicché fino al momento in cui scrivo il paese resta privo di istituzioni definitive e di un calendario elettorale 12. E ciò a quasi tre anni dalla caduta del regime e a due dalle elezioni del 23 ottobre 2011, le prime libere nella storia della Tunisia indipendente.

Tuttavia, non si può parlare di una situazione di stallo. Di fronte all’atteggiamento sfuggente e ondivago del partito islamista, l’Ugtt si è affrettata a lanciare una campagna di mobilitazione di massa per indurlo ad accettare il piano per l’uscita dalla crisi. Ha ricevuto subito l’appoggio del Fronte di salvezza nazionale, ampia alleanza, alquanto eterogenea, tra forze di opposizione. Le sue componenti principali, infatti, sono il Fronte popolare, che raggruppa dodici fra partiti e associazioni della sinistra radicale, e l’Unione per la Tunisia, a sua volta coalizione tra diversi soggetti, il più importante dei quali è Nidaa Tounes, il maggior partito di opposizione – laico, centrista, neo-bourguibista, neoliberale – guidato da Béji Caïd Essebsi, più volte ministro sotto la presidenza di Habib Bourguiba e capo del secondo governo provvisorio post-rivoluzione.
Questo appello alla mobilitazione fa dire a qualcuno che lo scenario va somigliando sempre di più a quello che condusse alla fine di Ben Ali. Per cogliere la quota, per quanto esigua, di plausibilità di una tale affermazione, si deve considerare il peso enorme che la centrale sindacale ha nella società tunisina. Nel corso della storia della Tunisia indipendente, l’Ugtt ha svolto ruoli sia di «doppio potere» sia di contropotere, comportandosi, secondo le fasi e le circostanze, come una sorta di appendice del potere centrale oppure come un potere autonomo, concorrente o decisamente in contrasto col partito-Stato. In ogni caso, il sindacato ha sempre svolto un ruolo decisivo, anche politico, tanto nei momenti di crisi e di emergenza quanto nella vita pubblica quotidiana.

Le correnti controrivoluzionarie

Ciò che ho riferito finora avvalora ancor di più l’affermazione circa il carattere instabile, contraddittorio, disomogeneo della transizione tunisina e tuttavia ancora aperto a soluzioni che non tradiscano del tutto lo spirito della rivoluzione del 14 gennaio, le rivendicazioni e le aspettative dei tanti e tante che vi hanno partecipato e/o l’hanno sostenuta. Come in anni lontani scriveva lucidamente nelle sue memorie Victor Serge (1951, p. 141), «
una rivoluzione non può essere considerata come un blocco se non da lontano; vissuta, essa può paragonarsi a un torrente che trascina via mescolati, violentemente, il meglio e il peggio e porta con sé per forza delle vere correnti di controrivoluzione».

Le correnti controrivoluzionarie sono visibilmente all’opera nella Tunisia del 2013. Anno difficile, segnato dall’ostinata occupazione del potere da parte di Ennahda e dei suoi alleati ben oltre la scadenza fissata dal calendario istituzionale 13; dal susseguirsi di attacchi terroristici di stampo alqaidista sul Monte Chaambi, vicino alla frontiera algerina; dalla scoperta quasi quotidiana di depositi di armi o campi di addestramento jihadista in varie regioni del paese; dall’incremento degli episodi di violenza ad opera di gruppi detti salafiti 14; soprattutto dai due omicidi politici nella forma dell’esecuzione premeditata e attuata da sicari: un fenomeno inedito, quest’ultimo, nella storia della Tunisia indipendente.

Il 6 febbraio 2013 è assassinato a colpi di pistola l’avvocato Chokri Belaïd, figura carismatica dell’opposizione di sinistra, segretario generale del partito El Watad 15 e coordinatore del Fronte popolare. Pochi mesi dopo, il 25 luglio 2013, con modalità identiche è ucciso Mohamed Brahmi, deputato dell’Assemblea costituente, leader di una formazione d’ispirazione nasseriana, anch’essa facente parte del Fronte popolare. Si verrà poi a sapere che ben undici giorni prima i servizi d’intelligence statunitensi avevano informato il ministero dell’Interno tunisino che formazioni salafite avevano pianificato l’esecuzione di Brahmi. Dopo la rivelazione, il ministro, Lofti Ben Jeddou, un ex magistrato, ammetterà di non aver mai ricevuto questa informazione e tenterà di riscattarsi sostenendo di aver sventato un piano terroristico articolato: attentati, omicidi di numerose personalità politiche e la divisione del paese in tre emirati.

I due omicidi si consumano nel contesto di una violenza politica crescente, che va dagli atti di vandalismo contro i più vari ambiti, luoghi, protagonisti della vita culturale all’attacco contro l’ambasciata degli Stati Uniti, il 14 settembre 2012; dagli assalti a sedi di partiti politici e dell’Ugtt, alle minacce e aggressioni ai danni di docenti universitari, politici, intellettuali, sindacalisti, giornalisti, femministe, artisti, blogger. Questa serie di azioni è riconducibile, secondo i casi, a formazioni appartenenti alla nebulosa salafita o alle Leghe per la protezione della rivoluzione 16. Una tappa di questa escalation era stata l’assassinio di Lotfi Naqdh, anziano sindacalista e dirigente locale di Nidaa Tunes: il 18 ottobre 2012, a Tataouine, egli era stato linciato a morte a colpi di spranga e martello da un gruppo appartenente alle famigerate Leghe.

Le risposte di piazza e la repressione

Le risposte di piazza agli assassini di Belaïd e Brahmi, caratterizzate da grande partecipazione popolare e da uno spirito di netta opposizione contro Ennahda – accusata da compagni, familiari e avvocati dei due «martiri» di essere stata il grembo che ha partorito o almeno protetto i mandanti – hanno confermato quanto ancor vivo sia lo spirito della rivoluzione del 14 gennaio. Nonostante tutto, c’è un versante progressivo della transizione che si esprime nella presa di parola pubblica e collettiva, nell’effervescenza del mondo della cultura, delle arti e dell’informazione, nella vivacità e reattività della «società civile» 17 e dell’opposizione politica, infine nelle rivendicazioni e nei conflitti sociali che attraversano il paese, sotto forma di lotte spontanee o scioperi organizzati, le une e gli altri spesso repressi duramente dalle forze dell’ordine, nondimeno irriducibili.

Non potrebbe essere altrimenti. Da una parte, infatti, i problemi economici e sociali all’origine della sollevazione popolare sono ben lontani dall’essersi risolti o attenuati, anche per l’incompetenza di cui ha dato prova Ennahda, in ciò simile al suo omologo egiziano. Si sono anzi aggravati per effetto secondario della crisi economica che ha colpito l’Europa e per le prevedibili ripercussioni che la caduta del regime e poi l’instabilità politica e sicuritaria hanno avuto sul piano delle attività produttive, anche del turismo, e su quello dei conti pubblici e dell’inflazione.

Dall’altra parte, occorre considerare che tutt’oggi le forze dell’ordine si comportano come se niente fosse cambiato, sicché alquanto frequenti sono la repressione violenta anche di manifestazioni pacifiche, gli arresti illegali, perfino la pratica dello stupro e della tortura ai danni di persone fermate. Per giunta, gli apparati di sicurezza e, come sembra, lo stesso ministero dell’Interno sono tuttora infiltrati dall’ex partito unico, l’Rcd (Rassemblement constitutionnel démocratique), il quale resta insediato anche in reti mediatiche, sistemi finanziari e organizzazioni politiche; e non è da escludere che sia implicato nei tentativi di destabilizzazione del paese per mezzo di atti terroristici. Per non parlare della magistratura, che spesso mostra un atteggiamento tanto compiacente verso salafiti e personaggi del vecchio regime quanto severo e molte volte improntato a puro arbitrio nei confronti di manifestanti, attivisti/e, artisti/e, rapper, blogger, giornalisti/e e chiunque eserciti liberamente il diritto di espressione, comunicazione, informazione.

Il ricatto del Fondo monetario internazionale

La miseria, la precarietà, la disoccupazione, soprattutto giovanile – anche di giovani con un livello alto d’istruzione – nonché la ricostituzione di reti di corruzione e il permanere del profondo fossato economico-sociale che separa le regioni costiere da quelle interne (Ghariani, 2013): tutto questo continua ad affliggere buona parte della popolazione, specialmente nelle aree e nei quartieri urbani più emarginati.
Inoltre, neanche è stato messo in discussione l’impianto che caratterizzava la politica economica e sociale del vecchio regime, ultraliberista e nel contempo protezionista, sia pure in senso assai peculiare 18.

Con la compiacenza della trojka governativa, il Fondo monetario internazionale sta imponendo il suo Piano di aggiustamento strutturale, in cambio di un «prestito» di 1,78 miliardi di dollari al tasso d’interesse reale superiore al 3,58 per cento. Un piano che esige l’aumento di tasse e imposte, il blocco dei salari, la «riforma» della protezione sociale, il congelamento per tre anni della Cassa di compensazione (che ha il compito di stabilizzare i prezzi dei prodotti di base) 19. Di recente, su ricatto dell’Fmi, il ministro delle Finanze, Elyes Fakhfakh, del partito Ettakatol, socialdemocratico e neoliberista, ha annunciato una severa politica di austerità: nessun aumento salariale per tutto il 2014, blocco delle assunzioni nel settore pubblico, diminuzione delle già modeste pensioni, incentivazione dei licenziamenti e riduzione delle relative indennità.

Come denunciano da mesi gli attivisti del collettivo Magaloulnech, tutto ciò avrà come effetti un netto peggioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne, in particolare dei giovani, l’impoverimento della classe media, l’ulteriore precarizzazione degli anziani, e favorirà nettamente gli investitori stranieri a scapito dei settori produttivi nazionali, pubblici e privati (Rebhi, 2013).

La racaille ribelle e i salafiti

A proposito della condizione dei giovani reietti tunisini (spesso
tali anche se possiedono un diploma o una laurea), v’è una battuta amarissima che circola tra loro: «L’Italia o Ben Arous», dal nome del governatorato in cui ha sede il Centro di traumatologia per grandi ustionati ove è morto Bouazizi, poi ribattezzato con il suo nome 20. In realtà, l’alternativa tra il suicidio di protesta per fuoco, tuttora alquanto diffuso (Rivera, 2012), e l’emigrazione «clandestina» verso Lampedusa (che in fondo è un’altra forma di tentato suicidio) conosce una terza opzione possibile: unirsi a uno dei tanti gruppi salafiti, presenti nelle località e nei quartieri urbani più diseredati.

È qui che tali gruppi, ben insediati, svolgono sia forme di beneficenza, assistenza e mediazione sociale, sia aggressioni violente ai danni di sedi e persone dell’opposizione politica o del maggiore sindacato, sia azioni di vigilanza sui costumi: minacce e attacchi contro venditori d’alcol e chiunque non si conformi alle «vere pratiche musulmane»; chiusura violenta di esercizi commerciali durante il mese del Ramadan; profanazione e distruzione di tombe e mausolei di tradizione sufi.
Come conferma il Rapporto dell’International Crisis Group (2013, p. 7), dal punto di vista sociologico i giovani salafiti appartengono grosso modo alla stessa «gioventù rivoluzionaria che ha combattuto le forze dell’ordine durante la sollevazione di dicembre 2010-gennaio 2011 e che, inoccupata e sovente disorientata, nel salafismo trova un’identità e un utile sfogo». È pleonastico aggiungere che le varie formazioni salafite reclutano soprattutto nell’area costituita da giovani marginali profondamente delusi per il tradimento delle promesse della rivoluzione.

In definitiva, anche la questione dell’islamismo radicale e violento – uno dei gravi problemi della transizione tunisina – ha profonde radici economico-sociali e perciò non può essere affrontata con le sole armi della repressione o della messa fuori legge 21, né soltanto attraverso il corpo a corpo politico fra islamisti e laici. Anch’essa, dunque, potrebbe risolversi, almeno parzialmente, se la conflittualità sociale – estesa, quotidiana, spontanea – trovasse chi sia in grado di guidarla e rappresentarla politicamente. Ma finora fra i vertici del sindacato e dell’opposizione politica ufficiale sembrano prevalere piuttosto i giochi di potere e i vecchi vizi politicisti.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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NOTE

1 Anche la cosiddetta Primavera di Praga fu inaugurata da un suicidio di protesta per fuoco: quello, celeberrimo, di Jan Palach.
2 Non intendo negare il ruolo svolto dalle reti sociali nel corso della crescita della mobilitazione popolare fra dicembre 2010 e gennaio 2011, bensì criticare la riduzione delle insurrezioni «arabe», di quella tunisina in specie, a «rivoluzioni 2.0». Conviene ricordare che la Tunisia è stato il primo paese africano a disporre di connessione a Internet e che oggi almeno 4 milioni di tunisini, su una popolazione di 10.673.800 di abitanti, «sono internauti in gradi diversi» (Touati, 2012).
3 Va segnalato che questa formula è controversa. Per esempio, la popolazione di Sidi Bouzid si rifiuta di commemorare il 14 gennaio 2011 e chiede che sia sostituito con il 17 dicembre 2010, il giorno in cui Mohamed Bouazizi si diede fuoco in pubblico.
4 Per i nomi arabi ho per lo più usato la traslitterazione alla francese.
5 Union Générale Tunisienne du Travail.
6 Racaille (traducibile come «feccia», «plebaglia» o «marmaglia») è un termine peggiorativo che conobbe notorietà in Francia soprattutto a partire dal 25 ottobre 2005, quando fu utilizzato da Nicolas Sarkozy, allora ministro dell’Interno, in una dichiarazione sprezzante nei confronti dei giovani dei «quartieri difficili». Nel gergo delle periferie urbane designa – per rovesciamento dello stigma, quindi senza alcuna connotazione negativa – piccoli teppisti e membri di bande giovanili.
7 Secondo Hibou (2006), a spiegare la durata del regime di Ben Ali e la sua solidità relativa sono soprattutto le politiche economiche e lo Stato sociale, che avevano prodotto una diffusa accettazione od obbedienza volontaria. Queste, a suo parere, sarebbero state l’esito non già di un controllo totale, assoluto e coerente da parte del potere centrale, bensì di un sistema complesso di r
elazioni, anche interpersonali, di accordi e dipendenze reciproche fra attori molteplici. In effetti, attraverso le più varie organizzazioni e associazioni nazionali e locali, comitati di quartiere, strutture di assistenza sociale, il regime era riuscito a coinvolgere e a inquadrare gli individui, e nel contempo a sorvegliarli. Perciò Hibou nega che quella di Ben Ali possa qualificarsi come dittatura. In realtà, almeno per gli aspetti analizzati da lei stessa, il benalismo presenta qualche analogia con i regimi mussoliniano e hitleriano, i quali avevano ottenuto il consenso di buona parte delle popolazioni proprio grazie a politiche sociali complesse e articolate, al coinvolgimento degli individui in associazioni di ogni sorta e per tutte le età, alla garanzia di un certo benessere materiale per le classi medie (Rivera, 2011 e 2012).
8 Amazigh (plur. imazighen) è il termine col quale i berberi dei paesi del Maghreb designano se stessi.
9 Accanto all’Ugtt, che di fatto ne è l’attore principale, vi sono l’Ordine degli avvocati, la Lega tunisina dei diritti dell’uomo e l’Utica, l’associazione degli imprenditori tunisini.
10 La piattaforma prevede anche lo scioglimento dell’Assemblea costituente, dopo l’approvazione di una nuova legge elettorale e il licenziamento del testo della nuova Costituzione.
11 Il nome arabo del partito islamista, detto moderato, che domina la coalizione governativa e ha la maggioranza nell’Assemblea costituente, è Hizb al-Harakat an-Nahda, cioè Partito del movimento della rinascita.
12 Fino al 30 settembre 2013, mentre Ennhada e il suo leader Rached Ghan­nouchi sembravano finalmente accettare la proposta dei quattro negoziatori, Ali Laârayedh, capo dell’ultimo esecutivo provvisorio, e altri membri del governo rifiutavano di dimettersi.
13 Mentre scrivo – a quasi due anni dalle elezioni dell’Assemblea nazionale costituente, svoltesi il 23 ottobre 2011, e dall’insediamento del governo provvisorio della trojka, dominato da Ennahda – non è stato ancora licenziato il testo costituzionale definitivo né fissata la data delle elezioni legislative (cui dovrebbero seguire le presidenziali). Entrambi gli obblighi avrebbero dovuto essere soddisfatti entro un anno da quelle prime elezioni libere.
14 Il termine «salafita» è molto generico. Del movimento di riforma d’ambito sunnita che va sotto il nome di al-salafiyya occorre distinguere almeno fra la tendenza detta scientifica (letteralista, quietista, di solito pacifica) e la tendenza jihadista e/o takfirista, cioè quella che sostiene che il jihad vada condotto non solo contro l’Occidente e gli «infedeli», ma anche contro regimi, poteri e gruppi interni ai paesi a maggioranza musulmana considerati apostati. In Tunisia il movimento detto salafita comprende sia alcuni partiti che sono stati legalizzati dopo la caduta del regime, sia gruppi strutturati quale Ansar al-Šari‘a, fondato nel maggio 2012 e considerato fra i più importanti e pericolosi.
15 Detto anche Partito unificato dei patrioti democratici.
16 Sotto questo nome ingannevole si nascondono milizie armate costituite, come sembra, da ex militanti del disciolto Rcd, il partito benalista, nonché da salafiti e delinquenti comuni, e sostenute da due partiti della coalizione di governo, il laico Cpr (Congresso per la Repubblica) e soprattutto Ennahda (o una sua fazione).
17 In Tunisia si fa un certo abuso di questa formula, che viene adoperata per indicare ogni aggregazione di cittadini attivi e rivendicanti qualche diritto. Data la problematicità del concetto, preferiamo usare la formula tra virgolette.
18 Si trattava di un protezionismo sui generis, a vantaggio delle pratiche di corruzione, appropriazione e rapina esercitate dal famelico clan benalista.
19 Come è ben noto, le «riforme» prescritte dall’Fmi per «consolidare» le economie nazionali sono state sempre una iattura per le economie dei paesi dipendenti, compresi quelli del Maghreb, e soprattutto per le condizioni di vita delle classi subalterne.
20 Devo al dottor Amen Allah Messadi, che dirige il servizio di rianimazione del Centro, la conferma di questo modo di dire.
21 Dopo molte collusioni e oscillazioni da parte di Ennahda, dal 27 agosto 2013 Ansar al-Šari‘a è classificata come organizzazione terroristica, per l’assalto all’ambasciata statunitense, per la responsabilità negli assassinî di Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, per gli attacchi a caserme di polizia e dell’esercito, per i legami con al-Qa‘ida del Maghreb islamico.



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