L’attentatore solitario e la disperazione di massa

Annamaria Rivera



Più volte mi è capitato, nel corso d’interviste o presentazioni del mio libro sui suicidi di protesta per fuoco (Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa, Dedalo 2012), che qualcuno – giornalista o semplice interlocutore – mi chiedesse: “Ma perché mai non rivolgono la rabbia e l’aggressività contro chi è responsabile di tanta disperazione sociale?”.

Domanda ingenua o ideologica: non considera che colui o colei che s’immola in pubblico poiché privato/a di beni e diritti primari, quindi della dignità, compie un atto di protesta e di accusa contro i poteri pubblici, il quale è, sì, implicitamente politico, ma anche nonviolento. L’aggressività, infatti, è deviata verso se stessi, verso il proprio corpo che, vissuto come simbolo e ricettacolo dell’umiliazione patita, va distrutto nel modo più radicale onde riaffermarla in extremis, la propria dignità.

La domanda è malposta anche perché nelle condizioni date – soggettive, sociali, storiche – non v’è la probabilità di partecipare a sommosse popolari o alla presa della Bastiglia, all’assalto dei forni o del Palazzo d’Inverno. Sicché la disperazione sociale si esprime in atti come quelli che si moltiplicano ogni giorno: dalle rapine compiute da anziane casalinghe indigenti, armate d’improbabili pistole, ai suicidi “economici”, per fuoco o con altri mezzi, fino al gesto estremo e violento di Luigi Preiti. Gesto altrettanto solitario e disperato, dall’intento altrettanto suicida, ma dagli effetti ben più nefasti, soprattutto verso gli altri: i due poveri carabinieri, bersagli di ripiego di un perdente radicale che manca perfino i bersagli intenzionali – “i politici”, come dichiarerà ai magistrati che l’interrogano – e neppure riesce a concludere l’azione togliendosi la vita.

Può darsi che Preiti sapesse che neanche il farsi torce umane in pubblico vale a scuotere le coscienze. Ancor meno serve a richiamare l’attenzione dei decisori politici o di qualche autorità su un dolore sociale talmente acuto, vasto, disseminato nelle pieghe più nascoste della società da non essere per ora rappresentabile interamente da alcuno: non dai sindacati, non dai residui della sinistra-sinistra, non dai movimenti, neppure da quello a 5 stelle.

Forse egli aveva cognizione che il più delle volte, specialmente in Italia, il grido estremo di protesta della torcia umana è destinato a cadere nel vuoto, perfino quando il suicidante scelga il luogo più pubblico e il modo più simbolico. E’ accaduto nella maggior parte dei casi, due dei quali esemplari. La notte fra il 10 e l’11 agosto 2012, Angelo Di Carlo, operaio disoccupato e attivista assai impegnato, sceglie piazza Montecitorio per compiere il suo atto di “lucida e militante disperazione”, come lo ha definito qualcuno. Il 18 ottobre 2012, Florin Damian, autista di origine romena, licenziato dopo aver subito discriminazioni, mobbing e abituali insulti razzisti, si dà fuoco davanti al Quirinale. Le aveva tentate tutte per avere giustizia o solo ascolto: vertenze sindacali, uno sciopero della fame, una protesta incatenato davanti alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo, uno struggente video-appello messo in rete e rivolto al presidente della Repubblica.

Chissà, forse è anche per questo che Luigi Preiti ha deciso di “alzare il tiro”, in senso proprio e figurato. Si sentiva privato, come sappiamo, di ogni residuo di dignità a causa di una catena di disgrazie: la perdita del lavoro, la fine del suo matrimonio, l’impossibilità di provvedere al figlio, quindi il fallimento del “progetto migratorio”, l’umiliazione del ritorno in Calabria, per giunta vivendo a carico dei genitori. Disperato, depresso, prigioniero della sfida compulsiva della sorte – l’unica che resta agli sconfitti, cioè i giochi d’azzardo per poveri – compie quell’assurdo attentato, da vero perdente radicale: un atto singolare, in tutti i sensi, il quale tuttavia, per quanto criminale ed esecrabile, è sintomo di una disperazione e depressione di massa ormai insostenibili.

Lo ha espresso bene la presidente della Camera in una dichiarazione pacata, lucida, umana: “Bisogna sempre condannare la violenza – ha detto Laura Boldrini – ma vanno capite e comprese le ragioni che stanno alla base di questi gesti […]. E la politica deve dare risposte adeguate”. Lo ha colto anche il cardinale Bagnasco, il quale ha parlato di “un fatto tragico” che deve essere “un monito per il mondo della politica”, posta di fronte “alla disperazione di tanti che cresce”. E lo ha detto, con spontanea lungimiranza, il carabiniere intervistato da Angela Mauro per l’Huffington Post: “E’ una guerra fra poveri […]. Si capiva che era un gesto di rabbia, ma loro non lo sanno, vivono in un mondo loro, non capiscono che poi la gente se la prende con noi che facciamo servizio in strada”. Ben più acuto, il nostro carabiniere, di tanti politici, governanti e altri rappresentanti di poteri e istituzioni; ben più libero di tanta informazione mainstream che, sulla scia dei ringalluzziti cacciatori di streghe della destra, già ha assunto stile e accenti da compromesso storico in versione farsesca.

Versione aggiornata dell’articolo “Il gesto politico di un perdente radicale”, pubblicato dal manifesto il 30 aprile 2013

(30 aprile 2013)



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