Nasce la rete italiana post-keynesiana contro il conformismo del dibattito economico

Daniele Nalbone


intervista a Marco Veronese Passarella e Daniele Tori

Partono da un approccio critico allo studio dei fenomeni economici e sociali, sulla scia dei contributi di Karl Marx, Rosa Luxembourg, John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter, Michal Kalecki, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, Piero Sraffa. La decisione di dar vita a una rete di studi post-keynesiani in Italia nasce dal clima di conformismo scientifico e conservatorismo metodologico che da alcuni decenni caratterizza il dibattito economico italiano.

Oggi, 27 novembre, quello che ufficialmente si chiama IPKN – Italian Post-Keynesian Network – si presenterà in Italia con un primo workshop in streaming (dalle 13.30 sulla pagina Facebook della rete).

Significativi i temi al centro dei panel che saranno introdotti da Claudia Fontanari, dell’università Roma Tre, e Eugenio Caverzasi, dell’università dell’Insubria: dopo i saluti di Engelbert Stockhammer, presidente della Post-Keynesian Economics Society (PKES) si discuterà di “Distribuzione e crescita”, “Transizione energetica e piani di lavoro garantiti” e di “Un modello ad agenti per la stagnazione secolare negli Usa”.

Dalle 16.30 alle 18 ci sarà la tavola rotonda “Economia e pandemia: quale contributo può offrire la teoria economica post-keynesiana” (che sarà trasmessa anche da MicroMega, su Facebook) con Emiliano Brancaccio, Annamaria Simonazzi e Andrea Terzi.

Per farci spiegare cosa ha portato un gruppo di giovani economisti a dar vita alla rete italiana post-keynesiana abbiamo intervistato due dei fondatori, Marco Veronese Passarella della Leeds University e Daniele Tori della Open University Business School

Cosa vi ha spinti a partecipare alla creazione di una rete di studi “post-keynesiani” in Italia?

Daniele Tori: In primo luogo, vogliamo favorire il confronto e l’emersione di posizioni teoriche alternative, sia all’interno del mondo accademico che al suo esterno. Secondo obiettivo: mettere in connessione studentesse e studenti, dottorande e dottorandi, e giovani ricercatrici e ricercatori che in questi anni hanno dedicato i propri sforzi allo sviluppo di idee e metodi post-keynesiani. Terzo: contribuire a rompere la condizione di isolamento e di precarietà lavorativa in cui si trovano a operare tutte le ricercatrici e i ricercatori che si impegnano in programmi di indagine critici del paradigma dominante nella scienza economica. Marco Veronese Passarella: Il grosso dei contatti è stato preso nel corso di un convegno della European Association Evolutionary Economy che si è tenuto a Varsavia a settembre del 2019. Da lì è stato un percorso abbastanza veloce che ha visto come protagonista una nuova generazione di economisti che vive una condizione di precarietà molto forte. Tra i nostri obiettivi c’è quello di fare massa per cercare di cambiare il sistema accademico, anche se, c’è da dire che negli ultimi anni molti giovani e bravi economisti eterodossi sono riusciti a farsi spazio.

Il programma vede temi, da non addetto ai lavori, molto innovativi. Però la pandemia, in questo momento, non poteva essere lasciata in un angolo e sarà al centro della tavola rotonda di oggi con Emiliano Brancaccio.

DT: Assolutamente. Nello stendere il programma abbiamo voluto dare spazio alla presentazione di alcuni giovani ricercatori. Nella seconda parte del workshop, però, non potevamo non analizzare il tema, obbligato, della pandemia. Crediamo che il nostro modo di vedere le cose possa essere uno spunto interessante che, soprattutto, manca nel dibattito economico italiano. L’economia è rimasta per troppo tempo una disciplina “non discussa”, soprattutto in Italia. O meglio, non dibattuta. Questa tavola rotonda vuole essere l’occasione per mettere in luce la ricchezza delle idee di questa tradizione poliedrica iniziata negli anni Trenta. Vogliamo sostenerla e darle spazio.

MVP: Brancaccio è uno studioso a metà strada tra due generazioni e avrà, sono certo, un piglio critico nei confronti dell’iniziativa e anche verso l’utilizzo di questo aggettivo, “post-keynesiano”. Noi intendiamo questo aggettivo come una sorta di ombrello per dare, diciamo così, una casa a tutti coloro che non si riconoscono nel pensiero dominante. Puntiamo a mettere in discussione l’impostazione dominante di politica economica, per proporre una via di sviluppo sociale ed economico che non è necessariamente da intendere come crescita del Pil. Oggi è il momento di ripensare l’intero modello di sviluppo basato sulle esportazioni, oltre che su un rapporto non equilibrato con l’ecosistema.

Più volte avete fatto riferimento a due schieramenti in campo. Vi chiederei di spiegare quali sono.

MVP: Pensiamo alla necessità di studiare l’attuale situazione, la crisi legata all’emergenza sanitaria. Secondo l’approccio dominante, per dirla in maniera brutale, la gran parte dei problemi economici, è riferibile al lato dell’offerta: ogni volta che un’economia vive un momento di crisi o ci sono dei problemi, questi sono solitamente ascritti a qualche frizione dal lato dell’offerta. E il principale indiziato è sempre il mercato del lavoro: lavoratori poco produttivi, agenzie interinali che non collocano, sindacati che si oppongono alle riforme ovvero scioperano in momenti poco consoni. Per questo, ogni volta che si tratta di trovare ricette il tutto si limita a cercare di rendere il mercato della forza lavoro più flessibile. Al più, si invocano interventi sul sistema pensionistico. L’obiettivo è chiaro: tagliare dove possibile l’intervento pubblico in modo da restituire al settore privato spazi di investimento e profittabilità. Storicamente, invece, le scuole eterodosse – con la parziale eccezione di alcune correnti marxiste – sostengono che i problemi risiedano prevalentemente dal lato della domanda. Quando la domanda langue e l’attività economica ristagna si ha disoccupazione prolungata. Se le persone rimangono a casa, ci sono meno redditi. Se ci sono meno redditi, la domanda tende a ridursi ulteriormente. Se la domanda tende a ridursi, le imprese fanno meno investimenti, il che precipita l’economia in un circolo vizioso. Le crisi “da pandemia” e ancora di più le crisi ambientali che probabilmente ci attendono nei prossimi decenni potrebbero effettivamente porre problemi seri anche dal lato dell’offerta. Una “scarsità” che non riguarda la forza lavoro, come tradizionalmente vuole il pensiero dominante. Riguarda, invece, la disponibilità di risorse naturali e soprattutto l’impatto che i cambiamenti climatici o le pandemie potrebbero avere in termini di danni sul sistema produttivo. Per farla breve, i post-keynesiani si concentrano sulla produzione e sul lato della domanda. Quando guardano al lato dell’offerta, come stanno facendo in modo crescente negli ultimi anni, è per concentrarsi sugli effetti dell’interazione tra ecosistema ed economia e non tanto sulla scarsità di manodopera o di denaro – che è un invece un po’ l’ossessione degli economisti che afferiscono al pensiero dominante.

Come approcciate alla crisi in atto? DT: Non c’è nessuna c
risi in atto. O meglio, stiamo passando di crisi in crisi: quella del 2007-2008 quando sarebbe finita? Oggi c’è una sola strada percorribile: ripensare l’intervento pubblico, sia in termini di “quantità” che di “qualità”. Questa che stiamo vivendo dobbiamo leggerla come “normalità”. Questo è il mondo in cui ci dovremmo abituare a vivere, di pandemia in pandemia, di crisi ambientale in crisi ambientale. La crisi da Covid non è assolutamente un fattore esogeno: il virus non è arrivato dallo spazio ma è il risultato della struttura delle relazioni socioeconomiche che abbiamo costruito. L’unico modo per uscire da questa situazione è mettere in discussione radicalmente quelle che sono state le cause strutturali che ci hanno portato qui. Mi riferisco soprattutto al rapporto tra produzione, scambio, ed ecosistema. MVP: L’esperienza di questa crisi ci mostra non solo che non è vero, come diceva Margaret Thatcher, che “la società non esiste”, ma che, laddove esiste una società organizzata, anche problemi come questi sono gestiti meglio. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui le società asiatiche hanno affrontato meglio questa emergenza. Ovviamente i dati andranno analizzati alla fine, ma – sia pure con molte riserve – oggi possiamo dire che in Asia l’organizzazione, la coesione sociale, il rispetto di alcune regole base abbiano mostrato l’importanza di una società che non è la semplice somma di individui atomizzati. Va aggiunto che in quei paesi avevano già dovuto fronteggiare l’emergenza SARS negli anni scorsi, e quindi erano certamente più allenati a fronteggiare queste situazioni. Resta il fatto che quelle società sembrano essere maggiormente attrezzate per il futuro.


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Soluzioni?

DT: A mio avviso c’è un elemento non più rimandabile: dobbiamo riscoprire il ruolo del pubblico. Dovremmo girarci indietro e scoprire cosa c’è stato di buono nel periodo che ha preceduto le disastrose privatizzazioni degli anni Ottanta. Via la retorica, via la mistificazione, non concentriamoci su ruberie ed episodi di corruzione, ai quali nemmeno il privato è immune. In questa pandemia abbiamo visto che il pubblico ha un ruolo essenziale: ora è arrivato il momento di dirigersi verso un modello di progresso che superi la categoria del profitto e quindi dello sfruttamento della forza lavoro, e si ponga obiettivi di lungo periodo, poco cambia se si tratta di “piena occupazione” o di “reddito incondizionato”. Il privato ha invece dimostrato di non poter rispondere alle sfide imposte dal sistema capitalistico stesso. MVP: Sono d’accordo con Daniele: serve un intervento pubblico pervasivo. Bisogna poi reintrodurre controlli sui movimenti di capitali e, in alcuni casi, di merci. Ci sono scuole da mettere in sicurezza, un’edilizia pubblica da rifare completamente. Ci sono strade da costruire e un sistema ferroviario da ripristinare. C’è da fare un grosso investimento nelle tecnologie del futuro e in quelle verdi. Tutte queste cose può farle solo un settore pubblico efficiente e dotato delle risorse necessarie. Poi, tra di noi, c’è chi come Mariana Mazzuccato ritiene che il pubblico debba, in qualche modo, accendere la miccia e poi lasciare intervenire il privato e chi, come me, ritiene che solo il settore pubblico debba svolgere un ruolo di vera e propria pianificazione della produzione. Infine, ma forse è il primo punto da mettere sul tavolo, serve un forte intervento sulla tassazione, aumentando non tanto la pressione fiscale quanto la progressività delle imposte. Il problema principale, ciò che va fermato, è l’accumulo di ricchezza in poche mani.

(27 novembre 2020)




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