Negazionismo e antinegazionismo: se nella notte tutte le vacche sono nere

Michele Martelli

Il «negazionismo da Covid-19» è riducibile a «demenza», come ha suggerito dalla tv con innocenza la biologa antinegazionista Gavallotti? O a moda da «Covidiots», come ha ironicamente affermato, in modo un po’ più soft, l’antinegazionista tedesco Saskia Esken, membro dell’Spd? L’assunto di fondo di questi giudizi, condivisibile, è che chi nega l’esistenza del virus lo fa perché semplicemente si rifiuta a priori di cercare di capirne la natura, le cause e i modi di diffusione, respingendo a priori qualunque misura politico-sociale il governo prenda allo scopo di limitarlo e sconfiggerlo. Ma tale rifiuto non va spiegato con strane analisi psico-patologiche. Credo che su questa materia occorra molta cautela, e per due motivi. Primo, perché in democrazia non bisogna trattare problemi politici con metodi psichiatrici. Secondo, perché negazionismo e antinegazionismo sono in realtà categorie molto sfumate e labili, facilmente convertibili l’una nell’altra. Infatti, l’antinegazionismo di chi, invece di cercare di capire le ragioni del negazionismo, lo riduce ad altro (demenza, idiozia), non è a sua volta che negazionismo sotto altra forma.

Le ragioni del negazionismo in senso proprio sono molte e aggrovigliate. Innanzitutto la paura, – che può sfociare nel panico, – per la possibile malattia, sofferenza e morte, propria e dei propri cari, o per la perdita di lavoro e salario, cioè dei mezzi basilari di sussistenza, resa più drammatica dalla durata, che inizialmente appare indefinita, dei lockdown. Inoltre, la sfiducia nella prontezza ed efficienza delle strutture sanitarie e ospedaliere pubbliche, devastate da decenni di tagli al welfare, nonché la diffidenza pregiudiziale, spesso motivata da ideologie e appartenenze politiche, nella volontà e capacità del governo in carica di risolvere i problemi legati al Covid. Infine, le ingenue credenze in medicine e forme di terapie alternative, spesso fantascientifiche (vedi i no-vax), per non dire dell’irrazionalismo superstizioso di chi ricorre ad amuleti e ciondoli magici per difendersi dall’aggressione virale, o è disposto a sottoporsi persino a pratiche varie di esorcismo (non ha detto Radio Maria che «il Covid è un progetto criminale di Satana»?). Questo è, in parte, il groviglio di ragioni e motivazioni che l’antinegazionista deve cercare di sbrogliare e analizzare, per comprenderle e, se necessario, criticarle in modo razionalmente argomentato.

Del negazionismo da web, spesso rozzo, ipocrita e strumentale, non metterebbe conto parlarne, se non fosse che per certi aspetti è pericolosamente contiguo a ideologie e forze di destra e di estrema destra. Non mi riferisco tanto a fenomeni folkloristici come il videoclip su instagram di Angela da Mondello («Non ce n’è non ce n’è di Coviddi»), quanto, per esempio, a documentari complottisti come il francese HoldUp, di tre ore, che denuncia un presunto piano segreto dei «poteri forti» (i soliti Soros, Bill Gates, Clinton, ecc., più Jaques Attali) per imporre una criminale dittatura mondiale. O alla presenza sui social del movimento statunitense dei QAnon (= Q anonymus), attiguo al trumpismo, che da alcuni anni farnetica di Deep State, una presunta organizzazione segreta internazionale (la stessa di HoldUp, meno Attali) da smascherare a difesa del «popolo». Si tratta di una replica farsesca, ma tuttavia inquietante, di uno dei più famigerati falsi storici moderni, i Protocolli di Sion, principale leva ideologica dell’antisemitismo nazista. Slogan dei QAnon sono risuonati anche a Berlino, in una recente manifestazione di «no mask», dove un gruppetto di neonazi ha inscenato un ridicolo velleitario tentativo di assalto al palazzo del Reichstag, sede del Parlamento, con l’accusa al governo Merkel di essere complice di quel piano segreto. Al quale oggi allude sempre più chiaramente anche Trump, arroccatosi nella Casa Bianca, e sulle labbra la giaculatoria cospirazionista delle elezioni truccate dai Dem per rubargli la presidenza. Lo stesso Covid-19 è stato, per Trump, «un’invenzione dei Dem» atto a quel fine. E qui il negazionismo complottista non è affatto né demenza né idiozia.

Che le due categorie di negazionismo e antinegazionismo siano convertibili, in date circostanze, l’una nell’altra, quindi inadatte, se assolutizzate, a comprendere la realtà, basta riflettere sui repentini capovolgimenti di fronte, a cui si è assistito dall’inizio della pandemia, di larghi settori di società civile e ambienti politici italiani. Mi riferisco innanzitutto ai grandi gruppi confindustriali, oggi rappresentate dal neo-presidente Carlo Bonomi: prima nega il virus, accusando le misure restrittive emanate dal governo di violare la libertà d’impresa; poi afferma che «il governo fa più danni del Covid», per il blocco dei licenziamenti e per i bonus a pioggia; infine, ammette che sì il Covid esiste, ma solo per definirlo subito, in vista dei miliardi del Recovery Fund, «un’occasione di rilancio per l’economia», cioè per le imprese: la chiave di volta, manco a dirlo, è sempre il dio-profitto. La stessa usata dai grandi colossi farmaceutici che annunciano anzitempo i vaccini, senza produrre i dati necessari e senza la previa autorizzazione delle autorità sanitarie: per averlo notato, anche se in modo improprio, il microbiologo Andrea Crisanti, attivo sin dall’inizio sul fronte della lotta al Covid, ha rischiato di finire nel girone infernale dei negazionisti. Alla faccia della libertà di opinione e di espressione. Non occorre aggiungere molto sugli spericolati slalom dei giornali e dei partiti di destra, un giorno negazionisti e un giorno anti, sempre in campagna elettorale, mai insensibili alle richieste e pressioni dei grandi gruppi industriale e finanziari. Lo fa anche l’Iv di Renzi, un partitino double face, al tempo stesso, paradossalmente, forza di governo e di lotta al governo, un giorno «apriamo tutto» e l’altro «chiudiamo tutto»; le motivazioni, in questo caso lapalissianamente velleitarie, sono pressoché le stesse di Meloni e Salvini.


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Qualche parola infine sul noto filosofo italiano Giorgio Agamben, autore di un volumetto di recente pubblicato sul Covid-19, a suo modo un convinto negazionista: a febbraio parlava di «invenzione del virus» (forse non sapeva che in Cina, a Wuhan, il Covid già furoreggiava); poi si è trasformato in un acceso riduzionista o seminegazionista: il Covid fa meno morti delle malattie respiratorie e cardiocircolatorie (forse gli sfugge che, a differenza di tali patologie, il Covid è contagioso, pandemico, e se non lo fermi, il numero dei morti si moltiplica in modo tragicamente esponenziale). Nel Covid, o meglio, nello «stato di emergenza» deliberato dal governo, sembra che egli abbia trovato la conferma provvidenziale delle sue più che ventennali tesi sullo «stato di eccezione» come paradigma immutabile e transtorico di governo, dall’impero romano, o dalla Grecia antica, fino ad Auschwitz. La quaestio è appunto il rapporto tra i due «stati», che per Agamben sono indistinguibili. «Dal punto di vista della sospensione delle garanzie costituzionali, che dovrebbe essere l’unico rilevante, – argomenta il filosofo, – fra i due stati non vi è alcuna differenza»: «nei due casi», «la sospensione della legge è sostanzialmente identica» (cito dal suo blog sul sito Quodlibet, 30 luglio 2020). Ma la differenza, qualitativa e quantitativa, c’è, eccome: un conto è limitare provvisoriamente qualche libertà, restando nel quadro costituzionale democratico, un conto è sospenderle tutte, revocando o ignorando la Costituzione, e instaurando il Terrore.

Che il Potere (non solo quello politico) abbia strutturalmente un «lato demoniaco», che anche gli Stati costituzionali di diritto possano presentare momenti e spazi bui di anomia (vedi, per tutti, il caso Cucchi per l’Italia, o Guantanamo per gli Usa), o lentamente deformarsi e degenerare (prevalenza dell’esecutivo sul legislativo, riduzione dell’indipendenza della magistratura, sostituzione graduale della Costituzione formale con quella materiale, ecc.), – tutto ciò è difficilmente negabile. Che le democrazie, anche le più avanzate, in quanto comunque forme del Potere, quindi non immuni dagli effetti perversi del suo «lato demoniaco», vadano, in un certo senso tutelate e difese da se stesse, dai loro inevitabili difetti e imperfezioni e possibili processi degenerativi, – anche questo è difficilmente negabile. Ma è anche vero che le democrazie sono l’unico sistema politico in grado di auto-correggersi e auto-migliorarsi, attraverso da un lato le istituzioni di controllo e vigilanza a ciò preposte, e dall’altro i movimenti politici e riformisti di massa. Metodologicamente, vale l’avvertenza che di ogni «situazione concreta» va fatta «un’analisi concreta», e che la potenza non è l’atto, che la parte, o il singolo momento, non è il tutto, o l’intero processo. Dal furore speculativo e deduttivistico meglio guardarsi, perché non è buon consigliere. Altrimenti si rischia di precipitare nella famosa notte hegeliana «in cui tutte le vacche sono nere».

(27 novembre 2020)




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