Nella città di Barack

MicroMega

di Emiliano Sbaraglia, da Chicago

Il metrò di Chicago è organizzato in maniera particolare, e non è certo il mezzo di spostamento preferito dai suoi abitanti. Caratteristico il cosiddetto “Loop”, un quadrilatero a cielo aperto che taglia il centro della città, attraversandolo in mezzo ai grattacieli, e dal quale passano tutte le linee della underground.

Quella rossa porta a sud, nel profondo sud di Chicago. Per acquistare il biglietto chiedo a un poliziotto che mi guarda e subito dice: “Perche’ proprio a sud? Io sono del sud di Chicago, abito lì, e non c’è niente da vedere. C’è solo povertà e violenza. è un posto pericoloso. Resti qui a “Downton”, prenda l’autobus che fa il giro panoramico del centro, vada a vedere il lago, si fermi a bere un birra sul fiume, faccia shopping. Ma non vada al sud di Chicago”.
Una giovane ragazza di pelle scura lavora alla biglietteria e aiuta gli utenti a fare il biglietto giusto. “Vorrei andare verso la 95ma strada. Ma è tanto pericoloso?” Sorride e risponde: “Se sei un pò accorto e non ti allontani troppo dalla fermata dell’underground ti troverai bene”.

Verso sud l’ultima fermata del metrò di Chicago è “95 th/Dan Rayn”. Al numero 400 West della strada, una strada tanto lunga quanto larga che ribolle di bambini/e neri ai semafori pronti a chiedere spiccioli con il bicchiere Mc Donald in mano, e di macchinoni che sfrecciano sparando rap con i bassi al massimo delle capacità di qualsiasi cassa-stereo, si erge la “Trinity United Church of Christ”, vale a dire il regno di Jeremiah Wright, il reverendo che Barack Obama nel corso delle primarie dei Democratici è stato costretto a rinnegare, o almeno dal quale è stato costretto a prendere le distanze dopo alcune dichiarazioni riguardanti l’attacco alle Twin Towers (“L’America si è chiamata da sola l’11 settembre”), condite da proclami tra cui la “rivisitazione” del “God Bless America”, capovolto in “Dio maledica l’America”. Come volontario nei programmi antipovertà nella “South side” di Chicago, Obama incontrò il reverendo, un paio di decenni fa; un incontro importante soprattutto per la costruzione della formidabile arte retorica del senatore dell’Illinois, non a caso spesso paragonata ai sermoni delle chiese nere. Il reverendo Wright è inoltre colui che ha sposato Barack e Michelle Obama, e che ha battezzato le loro due figlie.

Arrivati davanti la Chiesa dopo aver percorso la 95ma, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a una cattedrale nel deserto. Grande (molto grande) e veramante imponente, circondata da giardini curatisssimi e tutt’intorno di basse e graziose case a loro volta dotate di piccoli e impeccabili angoli di verde, entrando nell’ampio atrio che sin dalla porta d’ingresso esibisce cartelli di regolamento per visitatori e “media”, l’aria ache si respire è quella della diffidenza. Molte persone intente a svolgere le più disparate e a prima vista inutili mansioni di custodia del luogo. Dopo un breve colloquio con una enorme “black woman” chiusa a fatica dentro un improbabile vestito verde pistacchio, si capisce subito che parlare con il reverendo Jermiah Wrigth sarà impresa praticamente impossibile. Prima chiede (o meglio, ordina) di attendere, poi chiede di esibire varie referenze, infine fa sapere che il reverendo non c’è, e che bisogna prenotare un appuntamento, prima data disponibile non prima di settembre. “Almeno si può visitare la chiesa?”. Neanche questo, e se fai un passo verso l’ingresso della cattedrale, ‘black man” della security altrettanto enormi ti avvertono con sorriso plastificato che il passo fatto non è quello giusto. Non resta che uscire dal retro, dove un grande parcheggio accoglie numerose macchine di grossa cilindrata. Passano due bambini in bicicletta: “Hey, uomo bianco, ti è piaciuta la chiesa?”, chiedono sorridendo. “Veramente non l’ho vista”. Il loro sguardo si fa serio. “E perchè?”. Una buona domanda.

Risalendo verso la Chicago “bene”, mentre con lo scorrere delle fermate la pelle dei passeggeri torna ad assumere altre tonalità di colore oltre a quella di un nero intenso per mille motivi, tra la 56ma e la 58ma strada si incontra come una piccola città nella città, quella della University of Chicago.
Pur essendo in un pomeriggio dei primi di agosto, le biblioteche ospitano ragazzi chini sui loro libri, e insegnanti intenti a preparare future lezioni: in pratica, rispetto alle consuetudini dell’accademia nostrana, una sorta di paesaggio lunare.

Joseph ha 25 anni, i capelli rossi, e viene dal Kentucky. Studia psicologia. Se gli chiedi chi sarà il prossimo presidente non ha esitazioni: “Vincerà Obama, perchè l’America ha bisogno di cambiare la sua amministrazione. E poi lo vuole il resto del mondo”. Va bene, però sono gli americani a votare, e nemmeno tutti. In più, lo sollecitiamo, il meccanismo elettorale statunitense resta particolare, e non vince chi raccoglie più voti, ma chi si aggiudica un maggior numero di Stati, “Vero -risponde Joseph-; ma Obama può contare su uno staff molto organizzato, che ha raccolto grosse quantità di denaro, che se utilizzato nella maniera dovuta è in grado di modificare la scelta di alcune zone del paese storicamente di impronta republicana. Perchè il nostro paese sente il bisogno di cambiamento. Anche se, purtroppo, il mio migliore amico voterà Mc Cain”.

Jane è una ragazza di ventuno anni di Miami, una quasi matricola dell’Università. Anche lei crede che vincerà Obama, e lo voterà. “Ma della politica non mi importa molto. Per noi cittadini cambia comunque sempre molto poco. E per noi studenti ancora meno: le nostre famiglie devono pagare tante tasse”. Sorride e se ne va.

Chiara Sbordoni è invece il classico “cervello in fuga”. Tre anni fa, trentenne, nel corso del suo dottorato in Letteratura italiana all’Università la Sapienza è stata mandata un mese a Chicago, dove ha sede una delle più specializzate biblioteche al mondo di testi danteschi. Ora ha un marito, un bambino di pochi mesi, e una cattedra di Letteratura italiana presso “Notre Dame University”, nello stato dell’Indiana, dove nel periodo delle lezioni si reca quattro giorni alla settimana, due ore di viaggio. “Ma ci stiamo trasferendo proprio in questi giorni”, racconta Chiara. “Un pò a malincuore, perchè a Chicago ci troviamo bene”. Meglio che in Italia? “Veramente io volevo stare nel mio paese, per fare il lavoro che mi piace e costruire il mio futuro. Ma dopo la laurea ho cominciato a capire che tutto sarebbe stato molto difficile. Arrivando qui sono riuscita ad avere tutto quello che in Italia, con tutta la buona volontà, forse sarei riuscita ad ottenere tra dieci anni. Forse”. Secondo Chiara la corsa per la vittoria presidenziale di Obama non è affatto semplice: “Ricordo che durante le primarie, con mia grande sorpresa molti miei conoscenti, soprattutto donne, non si fidavano affatto di Obama, lo giudicavano inesperto, e gli preferivano Hillary Clinton. Ora però voteranno per lui. Ma secondo me non la spunterà facilmente, perchè l’America è comunque un paese conservatore, che ancora combatte la sua storica componente razzista. Proprio pochi giorni fa in tv ho visto una cittadina della Georgia intervistata che ha detto una cosa terrificante: “Se Obama dovesse vincere spero che lo uccidano i
l giorno dopo”. Comunque vada, per Obama non prevedo un futuro semplice…”.

E che Obama non abbia la vittoria in tasca lo pensa anche il “Chicago tribune”, il più importante quotidiano della città, che attraverso la penna del suo editorialista Clarence Page sottolinea come, attraverso una meticolosa strategia elettorale, giocata su alcuni punti deboli del candidato democratico già evidenziati dallo staff di Hillary Clinton nel corso delle primarie, John Mc Cain stia recuperando consensi nel paese ogni giorno che passa.

Come ogni elezione americana che si rispetti, una battaglia senza esclusioni di colpi: naturalmente sperando che i colpi non si trasformino in pallottole. La storia Americana in questo senso, ha già offerto troppo del suo sangue. Bianco e nero.

(9 agosto 2008)



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