Offensivo? “Non credo…”. La Cassazione e il diritto di professare l’ateismo

Alessandro Esposito

, pastore valdese

In data 17 aprile 2020 la Corte di Cassazione, ribaltando i pronunciamenti effettuati dai rispettivi tribunali nei primi due gradi di giudizio, ha emanato una sentenza che sancisce il diritto inalienabile di professare pubblicamente l’ateismo e l’agnosticismo. Ad ostacolare tale diritto era stata la decisione assunta dal Comune di Verona di vietare l’affissione di dieci (dieci!) manifesti dell’Unione Atei Agnostici e Razionalisti (UAAR), il cui contenuto era stato ritenuto (a torto, secondo il giudizio della Cassazione) «potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione», secondo quanto stabilito dalla Giunta Comunale nel corso della seduta del 29 agosto 2013. Il manifesto incriminato recava la parola, a caratteri cubitali, «Dio», con la «D» in stampatello barrata da una crocetta e le successive lettere «io» in corsivo, e sotto la dicitura, a caratteri più piccoli, «10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c’è l’UAAR al loro fianco».

Assai istruttivo è leggere le motivazioni della sentenza,[1] secondo cui la Cassazione, richiamando gli articoli 19 e 21 della nostra Costituzione (relativi, rispettivamente, al diritto di libertà religiosa e a quello di libertà d’espressione e di parola) e coniugandoli con l’articolo 10 della Carta de Diritti fondamentali dell’Unione Europea,[2] nonché con l’analogo articolo 9 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo,[3] subordina il dettato legislativo al principio dell’inviolabilità della libertà di coscienza.

Chiarito, sia pure per sommi capi, il quadro giuridico, vorrei soffermarmi sulle ricadute virtuose che tale sentenza possiede, a mio giudizio, per quel che attiene al riconoscimento della piena pariteticità degli attori di un confronto che, a parere di chi scrive, non può che rivelarsi fecondo. Non soltanto, difatti, trovo infondata l’affermazione secondo cui il contenuto del manifesto pubblicato dall’UAAR possa in qualche modo risultare lesivo nei confronti di chi possiede una qualsivoglia sensibilità religiosa, ma sono dell’avviso che esso sia d’aiuto per quel che riguarda la possibilità data a chi si professa credente di addivenire ad una spiritualità più matura.

Un orientamento di fede ostinatamente cieco dinanzi all’apporto insostituibile dell’agnosticismo e dell’ateismo, difatti, non può che portare all’esito nefasto di un fondamentalismo incurvato su una visione della realtà asfittica e sulla concezione avvilente di un essere umano trattato alla stregua di “animale da recinto”, alieno ad ogni sconfinamento e nemico giurato di ogni trama variopinta che nasca dall’incontro e dal dialogo con quell’«alter» che, solamente, è capace di portare novità e trasformazione nella vita e nel pensiero.

Senza questo confronto capace di donare ad ogni cammino di ricerca un respiro più ampio, saremmo orfani di pagine straordinarie come quelle nate dal dialogo tra Helmut Gollwitzer e Wilhelm Weishedel,[4] o tra Zygmunt Bauman e Stanislaw Obirek,[5] o di quella vetta sublime della letteratura che è rappresentata dal dialogo tra Ivan e Alëša nei Fratelli Karamazov he culmina nella Leggenda del Grande Inquisitore.


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Senza che una vena di ateismo lo attraversi, il lettore delle scritture ebraico-cristiane non potrà vibrare all’unisono con pagine sconcertanti come quelle di Giobbe o del Qohelet, che fanno dell’inquietudine radicale il cuore stesso di una fede autentica perché sospesa sull’incertezza. Nessuna ricerca degna del nome può avvenire prendendo le mosse dagli angusti limiti che ogni unilateralità impone: soltanto il confronto appassionato con chi possiede una prospettiva diversa dalla propria è capace di conferire a ogni sguardo un orizzonte più ampio perché più libero. E, insieme con lo sguardo, si amplia il respiro. Lo aveva compreso in profondità Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo luterano condannato all’impiccagione dalla barbarie nazista il 9 aprile del 1945, quando, in una delle sue Lettere dal carcere,[6] scriveva:

«Spesso mi chiedo perché un “istinto cristiano” mi spinga frequentemente piuttosto verso i non religiosi che verso i religiosi (…) Mentre davanti alle persone religiose spesso mi vergogno a nominare il nome di Dio – perché in codesta situazione mi pare che esso suoni in qualche modo falso, e io stesso mi sento un po’ insincero (particolarmente brutto è quando gli altri cominciano a parlare in termini religiosi; allora ammutolisco quasi del tutto, e la faccenda diventa per me in certo modo soffocante e sgradevole) – davanti alle persone non-religiose in certe occasioni posso nominare Dio in piena tranquillità e come se fosse una cosa ovvia».[7]
NOTE

[1] Consultabili sul sito: https://www.miolegale.it/sentenze/cassazione-civile-i-7893-2020/

[2] «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti».

[3] «Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti».

[4] Gollwitzer, H.-Weishedel, W. Credere e pensare. Due prospettive a confronto, Marietti, Casale Monferrato, 1982 (originale tedesco del 1965).

[5] Bauman, Z.-Obirek, S. Conversazioni su Dio e sull’uomo, Laterza, Roma-Bari, 2016 (originale polacco del 2013).

[6] Bonhoeffer, D. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Milano, 1988.

[7] Ibidem, lettera del 30 aprile 1944.

(22 aprile 2020)





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