Quando l’eolico diventa insostenibile

Emanuela Marmo

Inizia con oggi un ciclo di approfondimenti, ciascuno dedicato a una delle tappe descritte nell’articolo .

Il primo sito oggetto della nostra messa a fuoco è Bisaccia, in provincia di Avellino. Ivano Scotti, ricercatore presso l’Università di Pisa, e Dario Minervini, ricercatore presso l’Università di Napoli, ci hanno aiutato nell’elevare la dimensione territoriale ad una scala di interesse pubblico.

Il territorio di Bisaccia è sfruttato per la produzione di energia eolica. La vicenda inizia nel 1992 con l’esproprio di 12 ettari di terreno seminativo che vengono riservati a otto aereogeneratori, poi risultati obsoleti. Da qui le cose evolvono in maniera problematica, come reso noto dalle azioni di resistenza e contrasto promosse dal comitato No eolico selvaggio e successivamente accolte anche da Stop biocidio.

Lo strumento dell’esproprio è uno dei primi fattori traumatici subiti e vale la pena precisare che fu il d.lgs 387/2003, introdotto dal governo Berlusconi, a stabilire che le opere per la realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili fossero considerate di pubblica utilità, pertanto “indifferibili ed urgenti”. Ciò ha favorito l’espropriazione ex lege degli appezzamenti terrieri, dando a investitori privati diritti prioritari sulla terra. A Bisaccia apparve subito chiaro che non erano altrettanto forti gli strumenti di contrappeso a disposizione delle amministrazioni locali, la capacità di negoziazione delle quali, attraverso lo Sblocca Italia che ha concentrato le procedure autorizzative degli impianti al M.I.S.E., è ridotta alle conferenze di servizio.

In questo scenario, come ci racconta Michele Sollazzo, attivista del comitato No eolico selvaggio, in Alta Irpinia vengono installate oltre trecento pale, la metà di quelle presenti sul territorio regionale. Le modifiche strutturali e i passaggi di proprietà che si sono susseguiti nella gestione non sono sempre stati chiari e il comitato ha più volte richiesto accertamenti, esigendo una maggiore coerenza nel rapporto tra legge e autorizzazioni.

Una deliberazione sottoscritta da 25 comuni portò la Regione Campania a dichiarare saturo il Comune di Bisaccia già nel 2016. Eppure, sebbene furono dimostrate sovrapposizioni “rilevanti e consistenti”, proprio nel 2016 fu autorizzata la costruzione del parco eolico della società Eco Power, in località Calaggio. Ci si domandava: se l’Irpinia produce quasi il 7% dell’energia eolica nazionale, perché sono ancora considerati "urgenti" ulteriori impianti eolici? In che modo la "pubblica utilità" si correla al fatto che il profitto sia privato? I comitati riposero quindi un’ultima speranza nel Piano energetico regionale. L’approvazione del Pear, avvenuta nel 2018, non ha sortito gli effetti sperati; anzi, a causa delle installazioni eoliche, lo sviluppo delle altre fonti rinnovabili, come il fotovoltaico, sono rimaste sospese.

È difficile che comunità quali Bisaccia riescano a ottenere un’allargata solidarietà. Il rumore, che stride anche di notte, gli effetti ombra-luce, la modifica rilevante del paesaggio sono evidenze solo per chi ci abita accanto. Eppure non si tratta di disagi fittizi e ce ne sono altri. Il posizionamento di una pala agisce sul suolo in profondità, non sono mancati casi in cui sono state toccate falde acquifere. In presenza di un campo eolico, la costruzione di nuove abitazioni deve considerare le distanze. Territori, a sviluppo prettamente agricolo o montano, con l’arrivo dell’eolico sono vincolati a nuovi parametri. Quasi mai le società sono del luogo. L’energia eolica prodotta a Bisaccia, ad esempio, viene esportata a sostegno di altri territori geografici. Osserva Ivano Scotti: «Le rimostranze sono spesso biasimate con esternazioni del tipo: ecco il solito piccolo paese italiano, di poche anime, che si oppone al progresso mentre città e stati europei sono tanto più avanti di noi. Ebbene, non è così. Proprio recentemente, in occasione di un convegno sulle aree fragili a Rovigo, diversi ricercatori europei hanno riportato i propri casi e tutti hanno riferito gli stessi argomenti. Una ricercatrice norvegese, ad esempio, ha raccontato di un territorio la cui economia si regge in prevalenza sulla presenza delle renne. Gli investitori dell’eolico avevano considerato quel territorio “vuoto”: non c’è niente, ci sono solo renne, poche persone e tanto spazio. Quasi sempre i territori prescelti per l’impianto di campi eolici sono descritti come luoghi dove non c’è nulla e le pale eoliche sembrano quasi dotarli di senso».

Non c’è un sentore “colonialista” in questo approccio? Ironia vuole che le società eoliche solitamente chiamino i propri impianti con i nomi dei territori e: «simbolicamente l’appropriazione del nome sancisce il possesso del luogo. Queste cose accadono a Bisaccia e accadono in Norvegia. Si ripetono ovunque. In Scozia, in Galizia, in Nuova Zelanda». Accadono anche in Germania. Anzi, vi consigliamo di dare uno sguardo a un documentario uscito nel 2017 che racconta di un villaggio frisone stravolto dal piano di costruzione di un parco eolico. Il regista dichiara: pensavo di realizzare un documentario sull’eolico, invece ho fatto un documentario sull’economia e sul potere.

Perché gli abitanti di Bisaccia non hanno pensato che l’eolico potesse rappresentare una grande opportunità per loro? Perché sono stati tanto retrogradi?

«Gli impianti eolici, da un punto di vista economico e occupazionale, non hanno un impatto positivo sull’economia locale. A meno che il territorio stesso non utilizzi l’energia prodotta- afferma Scotti – traendone un risparmio o una rendita da reinvestire in servizi, i grandi impianti non generano occupazione. L’attività edile in fase di installazione e quella manutentiva non incidono sull’economia locale in modo significativo. Nel calcolo dell’Imu, inoltre, in virtù di una legge approvata con il governo Renzi, nel calcolare l’imponibile, ovvero il costo tecnologico su cui si applica l’aliquota, non si considera la navicella con la turbina, che è la parte più consistente dell’impianto, e ciò riduce l’introito che poteva provenire dall’eolico. Non sono più ammesse le royalties: a partire dal 2008 i ricorsi al tar, con i quali le società hanno contestato l’obbligo delle royalties, hanno dato ragione ai ricorrenti: se la società di produzione energetica paga le tasse, perché dovrebbe corrispondere altro? Ha pagato l’affrancamento dei terreni, paga l’imu, produce profitto. Non c’è nulla da obiettare».

Eppure le royalties hanno avuto un ruolo positivo. Grazie ad esse, ad esempio, il comune abruzzese di Collarmele, piccolo paese montano in provincia dell’Aquila, era riuscito a produrre una quantità di energia pulita dieci volte superiore alla media nazionale, traendone benefici per il trasporto scolastico, la mensa, per allentare la pressione fiscale. In seguito al Decreto ministeriale del 2010 e alla liberalizzazione del mercato energetico, i gestori hanno potuto rinegoziare i compensi stipulati precedentemente. Nella legge di bilancio del 2019 fu stabilito c
he tutti i contratti pre 2010 avrebbero avuto validità fino al 30 dicembre 2018 ed è appunto dal gennaio 2018 che Collarmele non riceve una parte consistente delle compensazioni stabilite in precedenza.

Scotti e Minervini sono concordi nell’affermare che ci sono due prospettive prevalenti. Se la logica dello sviluppo delle rinnovabili è il mercato capitalistico, tutto ciò è incontestabile. Se la logica è puntare all’autosufficienza, alla autoproduzione, è scongiurare nuove sperequazioni, il ragionamento sulla produzione di energia dall’eolico va riaperto.

Perché lo sviluppo dell’eolico in territori come Bisaccia è “selvaggio”?

Perché ha seguito un’idea di sviluppo guidata dal mercato, risponde Scotti: «Al netto delle normative sul rispetto dell’ambiente, delle distanze dalle abitazioni e del paesaggio, il meccanismo di mercato funziona pressappoco così: uno strumento finanziario incentivate viene offerto al mercato; gli attori economici, attenendosi a una serie di vincoli, sviluppano un progetto rispondente alle necessità energetiche. Sulla carta, sembrano soddisfare diversi interessi, senza compromettere quelli dei territori che vengono ritenuti idonei appunto perché ci sono dei parametri. Nella realtà si verificano, invece, frequenti distorsioni. Un po’ il meccanismo dell’incentivo è parte di questa ambiguità perché agevola chi già possiede il capitale (ne serve tanto per sostenere i costi di installazione di un impianto eolico)»

In effetti, i circa 11 miliardi di euro di detrazioni fiscali, dal 2008 al 2018, hanno redistribuito in maniera regressiva la ricchezza: se li suddividiamo per classe di reddito, notiamo come siano state le fasce sociali più ricche ad ottenere i maggiori vantaggi: «lo stesso si può dire delle comunità energetiche. Pur rappresentando un modello positivo, sono formate dal ceto medio-alto, che semplicemente ha trovato un modo di diversificare il piano di investimenti». Siamo, cioè, ancora a un punto in cui investire nell’eolico è un modo sostenibile di fare profitto, ma non ancora uno mezzo di equità sociale.

Quanto costa questo “modo sostenibile di fare profitto”?

Una turbina eolica standard da 3 mW a terra contiene 300 tonnellate di acciaio e ferro, oltre a più di 8 tonnellate di altri metalli. La fondazione richiede 900 tonnellate di calcestruzzo. Sembrano numeri esorbitanti e invece, considerando estrazione delle materie prime, trasporto dei materiali in fabbrica, costruzione della turbina, trasporto al sito, manutenzione, demolizione, rimozione e riciclaggio, l’energia eolica davvero risulta essere una delle fonti di energia meno inquinanti. Detto ciò, dobbiamo sapere che per raggiungere la neutralità carbonica, dovremo estrarre oltre 3,5 miliardi di tonnellate di minerali per ottenere i metalli con cui realizzare i dispositivi green nei prossimi 25 anni, tireremo via dal suolo la stessa quantità di rame dei 5000 anni appena trascorsi. Dove la prendiamo? Le aziende minerarie si trovano principalmente in Asia, Sud America e Africa. Oltre ai danni ambientali, esse spesso violano i diritti umani. La Foundation for Research on Multinational Enterprises, per esempio, denuncia casi di lavoro minorile in Congo, nelle miniere estrattive di cobalto, materia prima indispensabile tanto per le turbine eoliche che per le batterie delle auto elettriche.

Allo stato attuale delle cose, l’estrazione mineraria abusa dell’ambiente biofisico, contribuendo al benessere umano in modo disomogeneo. Per ora non c’è modo di garantire che l’approvvigionamento avvenga in maniera sostenibile.

Tuttavia, come segnalano Scotti e Minervini, strade verso una gestione più equa possono essere tracciate, le cooperative, le comunità energetiche, la partecipazione pubblica sono un esempio concreto.

Se manteniamo la validità del raffronto con i casi europei, allora possiamo osservare che la transizione energetica avviata in Germania nel 2010, e che ha portato il paese a produrre più del 35% della propria elettricità da fonti rinnovabili, presenta un discrimine specifico tra una città e l’altra: la proprietà pubblica della rete elettrica. Francoforte e Monaco, che non hanno venduto le loro reti energetiche, hanno già aderito alla transizione. Amburgo e Berlino, che le avevano privatizzate, si sono trovate in difficoltà, per questo nel 2014 Amburgo ha votato per rimunicipalizzare la rete elettrica della città. Ciò è confermato, ma al rovescio, dal caso italiano: quando le municipalizzate nate al principio del secolo scorso si sono trasformare in società private, i comuni hanno perso uno straordinario strumento di intervento per la transizione ecologica. Storie diverse, anche in Italia, si hanno appunto quando è la comunità ad assumersi la responsabilità della gestione. Prendiamo il caso di Roseto Valfortore. Il comune entrò nella società che costruì l’impianto, Aria Diana, con una percentuale del 35%, prevedendo un aumento della sua quota di partecipazione nella società dell’8%, ogni cinque anni fino a raggiungere il 60%.


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La socializzazione del sistema energetico considera l’energia un bene pubblico. La disponibilità materiale delle fonti non basta: la regolamentazione che ad essa presiede incide sulla vita dei cittadini e determina il livello di responsabilità che investitori, gestori, distributori hanno verso la popolazione. È ingenuo pensare che del bene comune possano prendersi carico investitori privati che mirano ad alti rendimenti già a breve periodo. Cooperative e municipalizzate hanno un approccio diverso perché operano con requisiti di profitto inferiori. Altrettando ingenuo aspettarsi che pochi consumatori illuminati, con le proprie scelte di spesa, riescano a modificare quelle dei produttori, i quali non sono veramente preoccupati di ridurre l’emissione di CO2, ma solo che la riduzione di CO2 rappresenti un vantaggio economico.

Riconsideriamo, dunque, le richieste avanzate dal comitato No eolico selvaggio di Bisaccia: l’energia eolica è un bene comune, è legittimo esigere un piano di tutela del territorio che lo difenda dall’accaparramento e dal consumo di suolo; è legittimo puntare alla diversificazione delle fonti rinnovabili quale condizione logica e conseguente a una transizione energetica che sia diffusa e orientata principalmente all’autoproduzione e all’autoconsumo. I cittadini di Bisaccia, infine, domandano che l’Autorità Nazionale Anti Corruzione verifichi l’iter di ogni procedura.

C’è qualcuno che osa dire che tali aspettative siano contrarie al progresso?
(10 novembre 2020)




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