Più Stato assieme a più società. La teoria post-liberale e post-liberista di Acemoglu e Robinson

Nicolò Bellanca



Questo articolo prende le mosse dall’ultimo libro di Daron Acemoglu e James Robinson: La strettoia. Come le nazioni possono essere libere.[1] Gli autori sono, senza tema di smentita, tra i migliori scienziati sociali in attività: Robinson è un formidabile politologo con grandi competenze storiche, mentre Acemoglu è il più completo, rigoroso e creativo economista della sua generazione.[2] Inizierò richiamando alcune loro tesi, anche in riferimento alla monografia precedente, Perché le nazioni falliscono.[3] Proseguirò con qualche commento sul quadro concettuale che propongono, e su una sua possibile applicazione alla vicenda italiana.

Il capitale fisico, il capitale umano e la tecnologia costituiscono i fattori da cui dipende la prosperità di una nazione. Perché alcune nazioni del mondo non hanno investito adeguatamente in capitale fisico e umano, né acquisito le migliori tecnologie e organizzato in modo efficiente la loro produzione? Le tre principali risposte, nel dibattito scientifico odierno, riguardano la geografia, la cultura e le istituzioni. Secondo l’ipotesi geografica, gli aspetti legati al clima, alla topografia e al grado di endemicità delle malattie determinano se una nazione può svilupparsi economicamente. Secondo l’ipotesi culturale, sono invece i valori culturali di una nazione a favorirne o meno lo sviluppo. Infine, l’ipotesi istituzionale attribuisce alle regole formali e informali che governano una società il ruolo cruciale nella variazione del livello di prosperità. Secondo Acemoglu e Robinson, è l’approccio istituzionalista a prevalere. Mi limito qui a ricordare uno dei metodi che permettono, a loro avviso, di trarre alla luce gli effettivi nessi causali: quello degli esperimenti storici. Prendiamo il caso della Corea, una penisola divisa a metà dal trentottesimo parallelo. Mentre la parte Sud si colloca tra le aree cresciute più velocemente negli ultimi sessant’anni, nel Nord gli standard di vita sono simili a quelli dell’Africa sub-sahariana. Eppure le due Coree hanno la stessa posizione geografica, lo stesso clima, lo stesso accesso al mare, la stessa esposizione alle malattie; hanno inoltre, lungo una vicenda millenaria, la stessa composizione etnica e la stessa cultura. Le differenze di sviluppo vanno quindi, inequivocabilmente, attribuite ai diversi sistemi istituzionali, adottati con la divisione politico-militare del 1947.

Per Acemoglu e Robinson, la caratteristica dell’assetto istituzionale che tende a stimolare e mantenere lo sviluppo economico è la sua “inclusività”. L’assetto deve garantire la tutela dei diritti di proprietà, promuovere il funzionamento di un ordinamento giuridico in cui è possibile stipulare contratti ed effettuare transazioni finanziarie, non imporre barriere all’entrata nell’industria e nei mestieri. Il contrario è un assetto istituzionale “estrattivo”: pur generando meno ricchezza, esso viene scelto dai gruppi di potere per mantenere le proprie posizioni di privilegio, che sarebbero insidiate dalle nuove tecnologie e capacità imprenditoriali.

L’ultimo passaggio sta nel chiedersi come possiamo realizzare le istituzioni economiche che favoriscono la prosperità delle nazioni. Al riguardo, i nostri autori teorizzano il primato della politica sull’economia. Nella politica i gruppi sociali non competono per applicare regole date, come accade nelle restanti sfere istituzionali, bensì lottano per modificare qualsiasi regola, formale o informale. La posta in gioco del conflitto politico è quindi decisiva, in quanto consiste nel cambiare le regole sulla cui base funzionano tutte le altre istituzioni.[4] Quando le istituzioni politiche distribuiscono il potere in maniere tali che nessun gruppo ristretto possa utilizzarlo a proprio esclusivo vantaggio, allora le istituzioni economiche tendono a diventare inclusive. Al contrario, le istituzioni economiche di tipo estrattivo tendono ad associarsi con un regime politico autocratico.

Dopo avere chiarito, nel libro precedente, quale assetto delle istituzioni economiche facilita lo sviluppo, adesso Acemoglu e Robinson si chiedono come possiamo politicamente avvicinarci ad esso. Più esattamente, essi cercano di comprendere sotto quali condizioni può formarsi un assetto inclusivo delle istituzioni politiche. Nella loro risposta, iniziano riprendendo l’argomento hobbesiano, per il quale, con un governo troppo debole, la vita diventa una guerra di tutti contro tutti: è lo scenario che chiamano del Leviatano assente. D’altra parte, se ammettiamo la necessità di un governo forte per preservare la libertà, può accadere che questo si riveli talmente forte da opprimere i cittadini: è il caso del Leviatano dispotico. Occorre quindi una società civile in grado di bilanciare lo Stato e le élite che lo controllano: ogni incremento del potere governativo va accompagnato dal rafforzamento della società civile. Quando ciò si verifica, siamo dentro il “corridoio della libertà”, quell’angusto percorso in cui né lo Stato soccombe ai conflitti sociali, né i conflitti vengono repressi dall’autorità politica. È questa la condizione del Leviatano incatenato: soltanto un equilibrio dinamico tra una società civile forte e un governo forte, crea e mantiene la condizione per la libertà. Quest’ultima «dipende quasi sempre dalla mobilitazione della società e dalla sua capacità di tenere testa allo Stato e alle classi dominanti» (p.17).

I concetti di “istituzioni inclusive” e di “Leviatano incatenato”, centrali nell’elaborazioni che sto esponendo, si misurano con una delicata sfida epistemologica. Essi sembrano esaltare le caratteristiche del percorso di modernizzazione occidentale, per proiettarlo su altri Paesi. Tuttavia, a ben vedere, gli autori evitano questo tranello, perché i connotati evocati sono abbastanza astratti da mantenere significato anche in contesti storici molto diversi dal nostro.[5] Ma, soprattutto, Acemoglu e Robinson sono consapevoli che «non tutti i paesi seguiranno lo stesso percorso» (p.103) e che «nel corridoio ci sono molte vie d’accesso» (p.104).

Vi è almeno un’implicazione di questo quadro concettuale che va posta in rilievo. Nella riflessione liberale classica, che sta anche alla base del neoliberismo odierno, il solo modo per evitare che emerga un Leviatano dispotico è che la società riaffermi il proprio potere contro il dominio statale. Così procedendo, si converge verso qualche forma di Stato minimo e si soffocano le migliori potenzialità dell’attività politica: «l’applicazione delle leggi, la risoluzione dei conflitti, la regolamentazione e la tassazione delle attività economiche e la fornitura di infrastrutture e altri servizi pubblici» (p.33). Piuttosto, la libertà fiorisce quando lo Stato e la società – competendo, ma pure collaborando tra loro – sono forti entrambi. Una società vitale funziona grazie a un ordine politico, e questo funziona se viene stimolato e limitato dalla società. I due termini si muovono di concerto, con l’esito paradossale che se desideri più società devi volere anche più Stato, e viceversa. Processualmente, di fronte all’espansione della capacità dello Stato, la società può, anzic
hé soffocare il Leviatano, incatenarlo, incrementando la propria capacità e i propri strumenti di controllo. In opposizione allo slogan liberista “meno Stato, più mercato”, agli autori possiamo attribuire il motto “più Stato assieme a più società”.

Acemoglu e Robinson discutono peraltro una quarta figura del potere politico: il Leviatano di carta. Di solito, esso ha leggi aggrovigliate, vasta burocrazia, capacità di esercitare un’elevata pressione fiscale e di creare debito pubblico; ma nel contempo si rivela inefficace nel far rispettare le proprie stesse leggi, nel regolamentare l’economia e nel fornire servizi pubblici quali-quantitativamente adeguati. Il risultato è che agisce arbitrariamente, alimentando un rapporto clientelare con le élite che lo sostengono e con alcuni segmenti conniventi della società. Per sfuggire al controllo della società, esso cerca costantemente di mantenerla frammentata e disorientata; è oppressivo come il Leviatano dispotico, ma è debole come il Leviatano assente, combinando il peggio di entrambi. Mentre i casi che nel libro illustrano il Leviatano di carta sono tratti dall’America Latina e dall’Africa, è naturale estendere, pur con qualche adattamento, questa categoria alla situazione italiana.


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Come già osservato, vi sono più accessi al “corridoio della libertà”. In presenza del Leviatano dispotico, occorre incrementare il potere della società. In presenza del Leviatano assente, occorre incrementare la capacità dello Stato. Infine, in presenza del Leviatano di carta, occorre che Stato e società aumentino simultaneamente la loro forza: una diagnosi che MicroMega propone da decenni. Tuttavia, nei riguardi dell’entrata nel corridoio, la valutazione degli autori è disincantata: «non esiste alcuna tendenza naturale che spinga tutte le nazioni verso un insieme uniforme di istituzioni statali e di relazioni tra Stato e società. Il Leviatano dispotico, il Leviatano di carta e il Leviatano assente sono altrettanto solidi del Leviatano incatenato» (p.619). In breve, la loro analisi mostra le potenzialità del “corridoio della libertà”, ma anche la delicatezza delle congiunture in grado di realizzare queste potenzialità. È dunque un’analisi priva di un happy end ideologico: un aspetto che la rende ancora più potente e utile.
NOTE

[1] Daron Acemoglu e James A. Robinson, La strettoia. Come le nazioni possono essere libere (2019), Il Saggiatore, Milano, 2020, pp.792, traduzione di Fabio Galimberti e Gaia Seller. La traduzione del titolo originario (The Narrow Corridor) appare sbagliata. In italiano, la strettoia indica un tratto di strada in cui la carreggiata si va restringendo, mentre gli autori discutono di un percorso angusto, o di limitata estensione, ma che può anche allargarsi. Sarebbe stato preferibile quindi Il corridoio della libertà, l’espressione a cui ricorro nel testo.

[2] Acemoglu, turco di origine armena, è nato nel 1967.

[3] Daron Acemoglu e James A. Robinson, Perché le nazioni falliscono. Alle origini di prosperità, potenza e povertà (2012), Il Saggiatore, Milano, 2013, pp.527, traduzione di Marco Allegra e Matteo Vegetti.

[4] L’idea secondo cui è la politica, sempre animata da conflitti, che comanda tutti i giochi sociali, anche quelli economici, costituisce una posizione radicalmente eterodossa nell’economics accademica. Questa circostanza contribuisce forse a intendere la difficoltà di Acemoglu nel ricevere il premio Nobel: questo autore è, già da parecchi anni, uno dei più autorevoli candidati a quel premio, secondo qualunque indicatore di rilevanza e di impatto scientifico. Vedi ad esempio https://ideas.repec.org/top/top.person.all10.html; https://ideas.repec.org/top/top.person.all.html.

[5] «Il principio generale, cioè il fatto che affinché una nazione entri nel corridoio è necessario che esista un equilibrio fra istituzioni statali forti e accentratrici e una società mobilitata e assertiva in grado di tenere testa al potere dello Stato e incatenare le sue élite politiche, è applicabile più in generale» (p.273).
(21 luglio 2020)





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