Quale Dio? Gesù e il suo doppio

Michele Martelli

L’attuale pandemia da Covid-19 è l’ultima prova, – a dispetto di ogni inguaribile ottimismo panglossiano, così come di ogni imbe(ci)lle negazionismo e trump-salvinismo, – che il male in forme sempre identiche e diverse, attraversa inesorabile la vita e la storia dell’uomo. E perciò riguarda e tocca tutti, credenti e non credenti. È questo il tema rovente del recente volumetto prosimetrico del poeta Eugenio De Signoribus[1]. Il quale, nel suo dolente e quasi lancinante interrogarsi sulla gratuità e ingiustificabilità del male e della sofferenza umana, sembra porsi sul filo di rasoio tra fede e ragione, sempre «al bivio» tra il credere e il non-credere. Tanto, direi, da apparire un cripto-ateo per il fideista dogmatico, e un cripto-religioso per il razionalista non-credente. Provo a enuclearne, senza pretese esaustive, alcuni passaggi cruciali.

1) Innanzitutto, la specularità tra le due figure di Gesù e Giuda, la «Passione di Cristo» e «L’altra passione», quella di Giuda, – stimolata anche dalla lettura dell’apocrifo Vangelo secondo Giuda, citato in nota dal poeta. Il tradimento di Giuda, si chiede l’autore, era davvero «necessario e inevitabile»? Si dice che lo era perché profetizzato dalle Scritture, quindi dalla Parola di Dio: ma non ci sono tracce nei Testi Sacri di un Giuda traditore. Ma poi, si chiede scetticamente De Signoribus, davvero «le Scritture sono infallibili»? Se così fosse, non solo Gesù e Giuda, ma anche il Sinedrio e Pilato non sarebbero che gli incolpevoli strumenti di Dio ai fini del compimento delle profezie. Assurdo perciò aver accusato Giuda di tradimento e, aggiungerei, i Giudei di «deicidio».

Giuda era incolpevole, perché non-libero di scegliere, perché strumento inconsapevole di Satana («Satana entrò in lui»: Lc 22, 3; Gv 13, 27), a sua volta strumento di Dio. Dunque, «un sacrificio doppio» («il compimento era un fatto / che due ne conteneva», p. 43). Giuda e Gesù dunque l’uno vittima dell’altro, e ambedue vittime sacrificali del Padre. Senza considerare l’ipotesi che Gesù, in quanto Figlio di Dio, come è scritto nei Vangeli, quindi Dio egli stesso, avrebbe potuto far sì che tutto cambiasse. In questo senso, il poeta si spinge a supporre persino che Gesù, per non averlo fatto, per non aver disobbedito al Padre, avrebbe dovuto chiedere «perdono» a Giuda.

2) Poi, la riflessione critica e spregiudicata sulle stesse Scritture, sulla loro presunta indubitabilità. Che Dio è, si chiede trepidamente il poeta, quello dell’Antico Testamento? È un Dio cupo, violento, capriccioso, egoista, ingiusto, geloso, fazioso, autoritario, vendicativo, sterminatore, l’esatto opposto del Cristo evangelico. Tanti, troppi gli episodi che lo provano: dal rifiuto dell’offerta di Caino all’ordine ad Abramo di immolare Isacco, dalla strage dei primogeniti dell’Egitto faraonico all’annientamento col fuoco della città di Gerico, dal diluvio universale (tutti colpevoli, tranne Noè?) fino alla distruzione della Torre di Babele simbolo di unità e pace tra i popoli.

La gran parte della Bibbia ebraica, allo sguardo disincantato del poeta, squaderna una storia particolaristica, tribalistica, direi sfacciatamente filo-israelitica, costellata di conflitti, guerre, violenze e spietate «stragi di innocenti». Non a caso, nota De Signoribus, la sua ultima parola è «sterminio». Si potrebbe aggiungere, con Spinoza, che la storia biblica non è che la proiezione e trasfigurazione mitico-religiosa, sub specie aeternitatis, delle vicissitudini storico-reali dell’ebraismo. E che le Scritture sono state scritte da uomini.

3) Infine, la meditazione pessimistica, di tono leopardiano, sull’immane «tragedia» della vita e «della storia umana», dominata dagli autocrati «padroni della terra», «criminali» «aguzzini seriali», che hanno imbrattato impunemente la storia del sangue di tanti, troppi innocenti. Ecco, la «strage di innocenti» come cifra, si direbbe, di una storia criminale, a cui neppure la «Chiesa, Sposa di Cristo» si sottrae, e contro la quale il poeta non esita a lanciare una dura invettiva dantesca, per aver nei secoli «tradito mille volte i principi fondanti del Cristianesimo», con «la violenza, il tornaconto e il silenzio». Dunque, se il tradimento fosse un criterio infallibile per la dannazione eterna, è da supporre che tutti i traditori la meriterebbero: beffarda sarebbe una presunta giustizia divina che distinguesse tra traditori buoni e traditori cattivi.

Di fronte a tante domande irrisolte, al poeta, nella sua ostinata e residua religiosità, non resta che l’immagine angosciante del Cristo nell’ora della morte, «solo» e disperato, abbandonato da tutti, «inascoltato» anche dal Padre silente: immagine-simbolo della disperante condizione esistenziale dell’uomo. O la compassionevole raffigurazione della Madre Maria «muta e mite», sofferente e silenziosa, in lacrime ai piedi del Crocifisso. O infine la potente immaginosa invenzione poetico-religiosa dell’episodio delle due donne, Maddalena e Maria, in «visita» a Giuda giacente senza vita in un capanno, dopo il suo disperato suicidio: la Madre di Gesù si avvicina al morto, ne apre i pugni chiusi e ne estrae due chiodi. Quale il messaggio che vi è racchiuso, da decifrare? Quello del perdono offerto da Maria a Giuda che pur trattiene ancora nelle sue mani le prove del tradimento? O forse quello più dissacrante di un Giuda morto inchiodato, il «doppio» simbolico di Cristo? In ogni caso, nel sentimento misericordioso della Madre le due figure, come in una dissolvenza cinematografica, sembrano sfumare l’una nell’altra.

A questo punto, fermo restando, a mio parere, la potenza suggestiva, letteraria e stilistica delle poesie di De Signoribus, e l’acutezza e spregiudicatezza delle sue riflessioni, provo a formulare due delle possibili osservazioni sul contenuto del testo.


SOSTIENI MICROMEGA

L’informazione e gli approfondimenti di MicroMega sono possibili solo grazie all’aiuto dei nostri lettori. Se vuoi sostenere il nostro lavoro, puoi:
abbonarti alla rivista cartacea

– acquistarla in versione digitale:
| iPad
La prima è: se il rapporto tra Dio, uomo e male è insolubile, stretto nella morsa di aporie insormontabili, perché non sospendere umanamente il giudizio, perché continuare a tormentarsi, perché non lasciarsi serenamente alle spalle quel frustrante domandare, in accordo coll’argomentazione kantiana sul definitivo «fallimento di ogni teodicea»[2]? Non sarebbe preferibile valorizzare, anziché la nostra strutturale «propensione al male», la nostra, anch’essa strutturale, «predisposizione al bene» (sempre Kant)[3]? Domande che presuppongono, ovviamente, una diversa concezione, dialettica e bipolare, dell’uomo e della storia umana.

Di conseguenza, la seconda è: se il male resta inestirpabile, si può però, integrando l’etica della misericordia, combatterlo e ridurne l’efficacia, nella pratica, con la lotta politico-sociale e con l’agire comune, per il bene e la dignità di tutti e di ciascuno[4]. Penso alla prohairesis, la «prescelta» razionale, il criterio base dell’etica di Epitteto[5], ossia la distinzione «tra ciò che è in mio potere e ciò che non lo è». È un principio di saggezza. Se pretendo controllare ciò che non è in mio potere, ciò che non dipende me, mi autocondanno all’infelicità. Dunque, se all’«io» stoico si sostituisce il «noi», e all’azione solitaria e individualistica del singolo l’azione collettiva e solidaristica del «noi», politicamente e socialmente organizzata, allora il male, se non potrà mai essere totalmente estirpato, potrà certo, almeno in quelle sue forme che dipendono da noi, essere combattuto, limitato, costantemente e infaticabilmente ridimensionato.
NOTE

[1] E. De Signoribus, L’altra passione. Giuda: un tradimento necessario?, Interlinea, Novara, 2020.

[2] I. Kant, Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, in Id., Scritti sul criticismo, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 129-148.

[3] Id., La religione nei limiti della sola ragione, testo tedesco a fronte, Rusconi, Milano, 1996, pp. 84-99.

[4] P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia, 2001, pp. 47-56.

[5] Epitteto, Manuale, Bur, Milano, 2006, § 1.1-2.
(10 novembre 2020)




MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.