Recovery Fund: i tre errori da non compiere, se vogliamo diffondere l’innovazione

Paolo Costa



Quali valutazioni suggerisce il pro memoria di Pierfranco Pellizzetti (, “MicroMega”, 7 ottobre 2020) sulle prospettive dell’Italia post-covid? Il mio atteggiamento si riassume così: da un lato totale disaccordo rispetto alla sua lettura dello scenario politico attuale, dall’altro lato sostanziale sintonia con la cornice teorica nella quale egli inquadra la riflessione sul ‘che fare?’, ossia su un piano di azioni plausibile.

Il disaccordo nasce dal fatto che, nelle fasi 1 e 2 della crisi, il nostro governo non mi è apparso affatto «convincente», come invece Pellizzetti asserisce. In particolare non mi sembra di poter ascrivere a Giuseppe Conte meriti specifici, a parte la sua capacità di mantenersi in sella. Tuttavia, considerando che l’esecutivo italiano si è trovato – nei suoi tentennamenti e nelle sue contraddizioni – in compagnia della stragrande maggioranza dei governi, quantomeno di quelli europei, tanto vale occuparci dell’unico vero successo conseguito da Conte: i 127,4 miliardi di euro di prestiti e gli 81,4 miliardi di risorse a fondo perduto attribuiti all’Italia attraverso il ‘fondo per la ripresa’, più correttamente denominato Next Generation EU (fa da corollario la capacità, dimostrata dal Tesoro italiano, di reperire risorse finanziarie sul mercato attraverso una politica di emissioni iperattiva, nel momento in cui il rapporto debito/PIL ha raggiunto il suo massimo storico). Dunque si tratta di capire non già se Conte «saprà ripetersi» – uso ancora le parole di Pellizzetti – ma semmai se saprà riscattarsi nella fase 3, la quale si preannuncia non meno complicata delle precedenti. Mentre redigo queste mie note, peraltro, nulla rende scontato che sarà lo stesso Conte il protagonista di tale fase 3, anche se tutti continuano a ripeterci che andrà così perché non ci sono alternative.

Nelle brevi considerazioni che seguono mi concentro sul rapporto fra innovazione e tecnologia, che evidentemente è centrale per ogni ragionamento sul modo migliore di sfruttare Next Generation EU. La quale non a torto è indicata dal presidente Conte come una «opportunità di rilancio unica» per il Paese. La mia tesi è che siamo partiti con il piede sbagliato, a causa di una serie di equivoci legati al concetto di innovazione. Tre sono, in particolare, gli errori che rischiamo di commettere. Il primo errore consiste nel pensare all’innovazione come a un fenomeno astratto, che si manifesta indipendentemente dal contesto sociale, culturale e politico in cui dovrebbe attecchire e svilupparsi. Il secondo errore riguarda la fastidiosa confusione che continua a farsi fra innovazione e tecnologia. Il terzo errore, infine, si riferisce alla convinzione che l’innovazione costituisca una commodity, disponibile sul mercato e acquistabile un tanto al chilo.

Va detto che in questo triplice equivoco non si cade solo dalle parti di Palazzo Chigi, a Roma. Da Rue Belliard giungono segnali poco rassicuranti. Quale innovazione intende finanziare Bruxelles con il Recovery Fund? Qual è la visione che l’Europa esprime riguardo alla sua «next generation»? A me sembra che una logica ‘a sportello’, di stampo burocratico, rischi di prevalere in questa fase storica nella quale l’Europa appare priva di idee. Per meritarsi le risorse attribuitele dall’Unione Europea, si afferma, l’Italia dovrà sottoporre progetti di spesa credibili. In caso contrario, difficilmente riceverà i 208 miliardi pattuiti. Il che è vero, ma costituisce solo una parte del problema. Presentare un insieme estemporaneo di progetti burocraticamente credibili – cosa che, per gli standard italiani, risulta già una missione titanica – non è sufficiente per garantire che quei soldi contribuiranno a innovare il nostro Paese.

Primo errore: l’innovazione fantasmatica

L’innovazione è situata. Intendo dire che essa è un fatto sociale e, come tale, si incarna di volta in volta in una situazione specifica, che è al tempo stesso culturale, politica ed economica. Quindi l’innovazione non è il prodotto del genio individuale, né di un team di brillanti ‘innovatori’ (non smettono di stupirmi coloro che si attribuiscono tale titolo, certamente molto in voga nella pubblicistica corrente, per qualificarsi) e neppure di un’impresa. Anche l’innovazione di Apple, che pure deve tanto al suo fondatore e a un modello aziendale abilitante, sarebbe nulla senza il genius loci californiano. In questo senso, ci sono territori che innovano e territori che non lo fanno, o che non lo fanno altrettanto bene. Così come esistono territori che, a un certo punto della loro storia, smettono di innovare. La spinta propulsiva della Silicon Valley, per esempio, appare in una certa misura indebolita rispetto a vent’anni fa. E sarebbe interessante indagare in profondità il rapporto fra questo indebolimento e le trasformazioni recenti della società californiana, che la rendono meno attrattiva nei confronti dei talenti creativi di tutto il mondo.

Proprio perché è il prodotto di un territorio, con le sue vocazioni, le sue dinamiche e le sue capacità organizzative, l’innovazione non si importa e non si impianta. Semmai essa fiorisce all’interno di un ecosistema locale, ovviamente interconnesso con altri ecosistemi attraverso una rete globale. In Italia non mancano casi interessanti. Il Trentino accoglie da anni un ecosistema riconducibile a questo modello. C’è il ruolo dell’ente pubblico (la Provincia Autonoma) che indirizza e pianifica in senso strategico, amministrando le risorse; ci sono l’Università di Trento e i centri di ricerca; c’è tutto un tessuto di start-up, medie imprese e grandi campioni tecnologici; c’è il rapporto con gli altri hub europei, da Dublino a Helsinki. Le vocazioni territoriali sono parte integrante del modello trentino, ma questo non significa che l’unica innovazione buona sia quella che asseconda tradizioni e destini di una regione. A Rovereto, per dire, i progetti nel campo del precision likestock farming, che si innesta con il sistema alpicolturale locale e con i programmi di sviluppo rurale, convive con il polo della meccatronica: da un lato l’innovazione al servizio dell’agricoltura, per migliorare la redditività sostenibile dei processi produttivi, tutelare il benessere degli animali e accrescere la qualità delle produzioni agro-alimentari; dall’altro l’evoluzione dell’industria manifatturiera verso la fabbrica intelligente.

Peraltro credo che il ruolo di indirizzo strategico dell’ente pubblico non sia tanto riferito al ‘che cosa’, quanto al ‘come’ dell’innovazione. La tecnologia, in quanto tale, non stimola l’innovazione né contribuisce a diffonderla. Nelle maggiori economie occidentali, semmai, gli straordinari cambiamenti tecnologici degli ultimi trent’anni hanno determinato l’esito opposto, come mostrano i dati OCSE: riduzione della produttività, aumento delle diseguaglianze in termini di reddito disponibile e crescente concentrazione (si veda, in proposito, lo studio di Martin Baily e Nicholas Montalbano Why is U.S. Productivity Growth So Slow? Possible Explanations and Policy Responses, Hutchins Center Working Paper, 22, Washington DC, The Brookings Institution, 2016
). I sistemi di tutela della proprietà intellettuale dovrebbero essere meglio bilanciati, in modo da premiare l’innovazione ma anche favorire un impatto economico più ampio. Alcune ricerche suggeriscono che una maggiore protezione dei brevetti è associata a una maggiore concentrazione dei mercati, a una minore innovazione e a più ampi divari di produttività industriale. Rimando ai lavori di Dan Andrews, Chiara Criscuolo e Peter Gal (The Best Versus The Rest: The Global Productivity Slowdown, Divergence Across Firms and the Role of Public Policy, OECD Productivity Working Paper, 5, Paris, OECD Publishing, 2016) e di David Autor e altri (The Fall of the Labor Share and the Rise of Superstar Firms, NBER Working Paper Series, 23396, Cambridge MA, National Bureau of Economic Research, 2017).

Insomma, spendere soldi per il 5G, l’intelligenza artificiale e le biotecnologie non significa necessariamente promuovere l’innovazione nel nostro paese. Tantomeno garantisce che 5G, intelligenza artificiale e biotecnologie si traducano in un vantaggio effettivo per la società. E questo ci porta al secondo errore, il quale ha a che fare con il rapporto fra innovazione e tecnologia.

Secondo errore: l’innovazione come tecnicità

Nelle intenzioni – invero alquanto generiche e vaporose – che il presidente Conte ha esposto nelle scorse settimane, buona parte delle risorse del Recovery Fund dovrebbe essere spesa per il potenziamento tecnologico del nostro Paese. Il 20% della dotazione concordata con l’Unione Europea, ha dichiarato il premier, sarà investito nel digitale, con incentivi per «nuove tecnologie 4.0 nei processi produttivi e nella pubblica amministrazione e nella cittadinanza nel suo complesso». Non è affatto chiaro che cosa designi l’espressione «tecnologie 4.0». Per quanto mi riguarda, ho cominciato a innervosirmi nel 2005, quando si prese a retoricheggiare a proposito del Web 2.0. È facile immaginare il fastidio provocato in me da tutto ciò che presenta il sapore inconsistente del 3.0 e del 4.0. Quando poi si parla di digitale, le cose vanno anche peggio. In genere le possibilità sono due: o si allude al digitale come palingenesi, e dunque si invoca un costrutto meramente ideologico, oppure si tende a confinare il digitale entro i termini di una dotazione principalmente tecnologica, costituita di due elementi: infrastruttura (intesa come connettività e sistemi per l’accesso a Internet) e apparati individuali (computer, tablet, smartphone ecc.). In entrambi i casi, scambiare tutto ciò per innovazione denota un atteggiamento ingenuo.

L’innovazione non va confusa con il gadget tecnologico o con la ‘tecnicità’, per evocare un’espressione cara a Martin Heidegger, il quale la usava in contrapposizione all’essenza della tecnica. Per Heidegger l’artefatto tecnologico è un mezzo che risponde a un fine pratico e particolare (La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976). Affermare che oggi il motore della crescita sociale ed economica è spesso rappresentato dall’innovazione tecnologica non ci autorizza a confondere la circostanza tecnica con l’innovazione. Per certo, equipaggiarsi con artefatti tecnologici non significa fare innovazione. Semmai si fa innovazione quando gli artefatti tecnologici – nuovi, ma anche vecchi – sono implementati per introdurre «atti innovativi», ossia capaci di portare disequilibro nell’ordine preesistente (Joseph A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Milano, ETAS, 2002). Il valore innovativo di tali atti non si misura in base all’originalità e all’appariscenza degli artefatti, ma in base al suo potere trasformativo. Dal punto di vista sociale ed economico l’invenzione tecnologica è irrilevante, fino a quando non dimostra la sua capacità di produrre innovazione.

Nelle chiacchiere della politica italiana sull’innovazione vi sono molti artefatti tecnologici e poca innovazione. Circostanza, questa, che tradisce un certo provincialismo del nostro Paese, spesso in ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie e quasi sempre convinto che all’assenza di visione strategica si possa supplire limitandosi appunto a colmare questo gap di dotazione tecnologica, meglio ancora se con i soldi dell’Unione Europea. L’impianto del Piano Nazionale Innovazione 2025, presentato alla fine dello scorso anno dalla ministra Paola Pisano, sembrava segnare in questo senso di vista un piccolo passo avanti. Tuttavia continuano a prevalere gli atteggiamenti retrivi, anche nel dibattito sul ruolo dell’innovazione nello scenario post-covid. Il fatto mi sembra confermato dalla discussione, in queste settimane, su due grandi temi: la didattica a distanza e il lavoro agile.

Per quanto riguarda la scuola, anche fra gli esponenti del Governo ci troviamo stretti fra chi esprime una sfiducia totale nei nuovi mezzi e paventa dunque il tracollo del sistema educativo a causa del passaggio all’online, imposto da esigenze di profilassi sanitaria, e chi al contrario la fa fin troppo facile, riducendo il tutto alla necessità di familiarizzare con Zoom, Teams, Meet e altre piattaforme. A furia di banalizzare e generalizzare, si assimilano situazioni fra loro molto diverse, in nome di un determinismo tecnologico insensato: la formazione a distanza ‘fa male’, oppure ‘fa bene’. Quasi sempre manca una seria riflessione sul rapporto fra tecnologia e apprendimento, sulla differenza fra setting individuali, scaffolding e formazione collettiva, fra lezione frontale e flipped classroom, sulle abilità partecipative e le competenze digitali che possono rendere proficua l’esperienza della formazione a distanza. Così, dopo esserci riempiti di inutili quanto costose LIM nella fase 1 della digitalizzazione della scuola, e dopo avere successivamente trascorso la breve stagione di innamoramento per il tablet, celebrato da quella sorta di poema al nulla che era la Buona Scuola (30 pagine in cui la parola ‘libro’ non compare una sola volta), ci domandiamo ora quale sia il gadget giusto per far funzionare la scuola durante la pandemia.


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Il dibattito sul cosiddetto smart working è a sua volta pieno di equivoci. Si confonde lo smart working con il telelavoro e lo si riduce all’esperienza del lavoro a casa. Dunque che cosa serve per farlo funzionare? Ma è chiaro: più connettività. Una volta realizzati, il 5G e la nuova rete unica nazionale rimuoveranno qualunque ostacolo alla pratica del lavoro agile. Il quale altro non è, nella testa di molti nostri governanti, che l’esecuzione delle medesime attività svolte in ufficio, secondo gli stessi orari e dalle stesse persone. Dove stia l’innovazione, non è chiaro. A meno che per innovazione non si intenda l’aumento di disponibilità di banda nelle utenze domestiche degli italiani. Intendiamoci, non sottovaluto la necessità di rafforzare l’infrastruttura delle telecomunicazioni nel nostro paese e tifo perché presto anche in Italia si possa fruire degli stessi standard del resto d’Europa. Tuttavia non posso non rilevare, anche in questo caso, l’esistenza di un grave equivoco.

Terzo errore: l’innovazione prêt-à-porter

Vi è infine l’idea che l’innovazione sia un abito pronto da indossare, a patto che si sappia individuare la taglia giusta per sé. Addirittura l’innovazione appare, agli occhi di molti, come una commodity. Qualcosa che si acquista e di cui si fa scorta, per non correre il rischio di rimanere a secco. In questo senso, va bene che l’innovazione sia prodotta altrove: nella Silicon Valley, appunto; ma anche in Germania, Israele, Giappone, Corea e Cina. Si tratta di importarla, installarla a casa nostra e farla funzionare. Dal quel momento, anche noi risultiamo innovativi. Anche questa è ovviamente una grave ingenuità. Ecco perché, quando parliamo di innovazione, dovremmo innanzi tutto preoccuparci di realizzare le condizioni perché questa si sviluppi nel nostro paese, come attitudine e come pratica organizzativa. L’innovazione andrebbe insegnata alle nuove generazioni, agevolata dal sistema burocratico e legislativo, premiata sul piano fiscale, sostenuta con le giuste risorse finanziarie (il che significa, per intenderci, non tanto mettere soldi pubblici dappertutto, quanto rendere conveniente per il capitale privato investire in imprese innovative anziché in immobili).

Insomma, ben venga il piano Next Generation EU. E ben vengano gli aiuti di Bruxelles per il rilancio dell’innovazione nel nostro Paese. Tuttavia, se immaginiamo di colmare le lacune dell’Italia – che sono prima di tutto lacune culturali e di visione strategica, grazie ai contributi dell’Europa – rischiamo di ritrovarci vittime di una drammatica illusione. L’innovazione è sempre al servizio di un disegno. E il disegno prefigura un mondo diverso da quello che è. Da qui deve cominciare la nostra riflessione. Sapendo che gli ambiti nei quali innestare il cambiamento sono tanti. La scuola e il lavoro, certo. Ma anche la logistica, lo spazio urbano e l’ambiente. Parafrasando Karl Marx potremmo affermare: non abbiamo nulla a perdere, all’infuori delle nostre catene; abbiamo tutto un mondo da innovare.

(28 ottobre 2020)






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