Recovery fund, per l’Italia la strada è tutta in salita

Matteo Bonelli

La mia prima domanda sul Recovery Fund parte dal nome. Cosa si dovrebbe ‘recuperare’ del nostro passato inglorioso? Molti sostengono che il Covid non abbia fatto altro che accelerare cambiamenti già in atto. Quindi sarebbe assurdo recuperare ciò che era già morente. Qualcuno potrebbe obiettare che la traduzione corretta di “recovery” è “ripresa”. Questa parola sembra tratteggiare una linea che, dopo il collasso di quest’anno, riprenderà a salire. Si discute molto se avrà la forma di V, U, W o L. Poco della sua fisionomia.

Le linee guida del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – parola, quest’ultima, ormai entrata in mantra che rimbombano assordanti in teste vuote – delineano l’immagine di un paese digitale, con infrastrutture sicure ed efficienti, più verde e sostenibile, con un tessuto economico più competitivo e (non sia mai) resiliente, con una maggiore solidità delle filiere produttive, con una burocrazia efficiente e solidale, con un sistema di educazione e formazione all’avanguardia, più equo e inclusivo e con un sistema di regole più certe ed efficienti. Manca solo che ci sia tre volte il Natale e festa tutto l’anno. Intanto noi usciamo poco la sera, compreso quando è festa, e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra. In questa situazione è difficile che l’immagine del paese dei balocchi descritto dal PNRR risulti così verosimile da attivare la nostra sospensione dell’incredulità. Però è anche giusto sognare ad occhi aperti, purché li si tenga anche sulla strada da percorrere. Che è molto in salita.

Nell’interessante discussione , quest’ultimo sostiene che occorre recuperare uno spirito roosveltiano, che imprima non solo una visione del futuro, ma anche un’equità sociale. che si sono addensati sul concetto di innovazione, che non dipende da fantomatici innovatori, ma non si può neanche decidere a tavolino e fondare solo sulla tecnica. A me pare che Pellizzetti e Costa trovino un punto d’incontro nel problema delle scelte. Se è vero che l’innovazione è un fenomeno complesso, è pur vero che è anche il frutto di scelte più o meno consapevoli. Alcune dipendono dal superamento del famoso “punto critico” (tipping point), da cui dipende l’affermazione di innovazioni che non sono necessariamente quelle migliori, ma quelle vincenti. Altre dipendono dalle scelte delle autorità pubbliche, come la nascita di Airbus o dell’alta velocità ferroviaria. Altre ancora dalle scelte dei cosiddetti “incumbent”, come quelle di Ebay e Wechat nei pagamenti digitali.

E qui veniamo a uno snodo cruciale. Non si può certo dissentire dalle linee guida del PNRR: per quanto ‘da sogno’, si ispirano ai pilastri di Next Generation EU, sono in linea con quelle dei piani degli altri paesi europei e rispondono a criteri di buon senso. Né sono credibili i siparietti di chi brandisce ebbramente i piani di altri paesi, a rimarcare quanto essi siano più ‘seri’, poiché più ‘lunghi’ e ‘dettagliati’. Semmai verrebbe da pensare il contrario: prima o poi si dovrà stabilire quali progetti scegliere e quali scartare, perché per quanto le risorse del Recovery Fund siano immense, occorrerà governarne l’allocazione. Ciò che fa tremare i polsi non è tanto la concisione delle linee guida del PNRR – che potrebbe pure essere un pregio – ma il fatto che oltre duecento miliardi di euro debbano essere allocati con la governance della nostra burocrazia.

Ritorniamo dunque ai tre tipi di scelta a cui abbiamo accennato.

Quelle che dipendono dal superamento del “punto critico” si fondano su criteri di selezione ex post che presuppongono l’offerta di una pluralità di alternative da parte di soggetti che competono tra loro. Questa è la governance tipica dei sistemi produttivi delle economie liberali, che si è rivelata vincente rispetto a quella delle economie socialiste. È noto che occorra apportarvi correttivi di vario genere, che vanno dalle regole antitrust a quelle sulla tutela dell’ambiente, del lavoro, e così via. È tuttavia imbattibile nella produzione di beni e servizi di consumo, tanto da essere stata adottata da tutti i paesi che la avevano inizialmente osteggiata. Il buon funzionamento di questo modello dipende da un mercato dei capitali liquido ed efficiente, del tutto incompatibile con i criteri di allocazione dei capitali del settore pubblico. Oggi non è dunque molto verosimile che gli smartphone o le automobili del futuro possano dipendere dal Recovery Fund, a meno che non si riesca in qualche modo a innestarvi meccanismi di scelta analoghi a quelli dei mercati.

Diverso è il caso delle scelte di altri settori produttivi e, ovviamente, anche di buona parte dei settori non produttivi. Nelle grandi infrastrutture, nei sistemi di istruzione, di assistenza sanitaria e di previdenza sociale la governance di mercato ha spesso rivelato la sua fragilità, quando non si è rivelata impraticabile. Anche l’architettura di queste scelte può ispirarsi a meccanismi di selezione e distruzione creatrice analoghi a quelli dei mercati, ma non può prescindere da una visione di lungo termine, incompatibile con le logiche dei privati e con l’assunzione di rischi che i mercati non riescono a prezzare. Però è importante riconoscere che queste scelte implicano la dissociazione fra chi le detta (le autorità) e chi ne subisce le conseguenze (i destinatari). La storia è testimone di decisioni delle autorità che si sono rivelate positive, ma anche di quelle che si sono rivelate infauste, se non tragiche. Anche in questo caso è difficile che la loro fortuna dipenda solo dalle fantomatiche capacità di chi è chiamato a decidere. Per questo è opportuno adottare meccanismi di “ingaggio” (engagement) dei destinatari che non si limitino alla nomina dei loro (sedicenti) rappresentanti, che spesso non fanno altro che perseguire interessi personali. Al tempo stesso anche l’opinione dei destinatari – spesso condizionata da infatuazioni emotive o giovanilistiche – non dovrebbe essere interpretata con miopia, ma con responsabilità e lungimiranza.

Un altro caso di scelte dettate da soggetti diversi da chi ne sopporta le conseguenze è quello di chi sfrutta una posizione dominante per orientare le scelte dei propri utenti. Così Atlantia è diventata leader nei sistemi di telepedaggio e General Electric è cresciuta nel settore del credito. Ma questo fenomeno ha assunto proporzioni decisamente più vaste e pervasive nell’economia digitale, i cui incumbent hanno una capacità di controllo dei propri utenti che non ha precedenti nella storia. Che può essere, tra l’altro, ben più efficace di quella delle autorità. La crisi del Covid ci ha rivelato, per esempio, come i governi occidentali non riescano a svolgere il tracciamento dei contagi, che potrebbe invece essere svolto facilmente dagli incumbent digitali. Come in effetti è avvenuto in Cina, e pure in altri paesi dell’estremo oriente. Ciò pone gli incumbent digit
ali su un piano simile, se non superiore, a quello dei governi. Tant’è vero che nel dibattito europeo l’obiettivo della sovranità digitale è sempre più importante. Però non dovrebbe limitarsi alla conquista di una leadership capace di far fronte all’egemonia di Stati Uniti e Cina, ma estendersi anche a una governance degli incumbent che tenga conto della loro particolare fisionomia, che ha una natura non solo economica ma anche sociale, e quindi diversa da quella delle altre imprese. Oggi sembra preferibile che questo potere resti per ora nelle mani del cosiddetto “capitalismo di sorveglianza”, piuttosto che di autorità sempre più ‘confuse e infelici’ e ormai del tutto screditate da una gestione dei problemi recenti a dir poco imbarazzante. Ma il potere enorme degli incumbent digitali senza i “checks and balances” delle democrazie (e pure di molte autocrazie) non può non destare qualche preoccupazione.

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A prescindere dagli obiettivi finali del PNRR, che ragionevolmente saranno per lo più condivisibili (come lo sono già le sue linee guida) ci sarebbe dunque da chiedersi come realizzarli senza sprechi e nell’interesse generale. Per questo le ‘missioni’ del PNRR meriterebbero di essere accompagnate da altrettanti ‘breviari’ per le scelte. Per tener conto delle mie considerazioni basterebbe ispirarsi a tre ‘dogmi’.

– Le risorse dovrebbero essere allocate con criteri coerenti rispetto ai loro obiettivi. Per l’innovazione dei prodotti e dei servizi è preferibile promuovere un mercato dei capitali adeguato a questo scopo, piuttosto che allocare fondi pubblici ai progetti di sedicenti innovatori. Nei progetti incompatibili con la governance di mercato è invece opportuno ingaggiare anche i destinatari, non fosse altro che per condividerne con loro la responsabilità dei loro eventuali (e inevitabili) fallimenti.


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– L’accesso al capitale economico è solo uno dei requisisti dello sviluppo. Ci vuole anche il capitale umano. Un tempo l’economia tendeva a non distinguerli e descriveva il capitale (rectius, il valore) come “lavoro comandato”. Oggi non è più così: il lavoro è ‘comandato’ non solo dal capitale, ma anche dagli interessi, dai valori, dalla vanità, dal desiderio di condividere (o anche solo di giocare) insieme. Lo testimoniano l’estensione dei bilanci di sostenibilità delle imprese, i lasciti dei magnati, la crescita del terzo settore e il lavoro (perlopiù gratuito) degli utenti degli incumbent digitali. Quando ci si pone obiettivi di riduzione della disoccupazione occorre dunque tener presente che la cinghia di trasmissione del lavoro non è più solo il reddito e che in un’economia sempre più automatizzata occorrerà pure trovare il modo per renderli sempre più decorrelati.

– L’innovazione è il risultato di tanti fattori: intraprendenza, cultura, capitali, risorse umane, ‘ecosistemi’ produttivi. Ma dipende anche dall’affermazione di standard, che a loro volta dipendono sia da convergenze spontanee – che però devono superare il famoso “punto critico” (tipping point) – sia da scelte delle autorità o degli incumbent. Gli standard svolgono un ruolo fondamentale nell’innovazione, perché attivano processi di sviluppo coordinati. Le autorità non dovrebbero quindi limitarsi a gestire (meglio) le risorse per lo sviluppo, ma dovrebbero anche sostenere la diffusione di standard funzionali all’innovazione, che possono rivelarsi molto più potenti dei capitali. Un ruolo analogo potrebbe essere svolto dagli incumbent, come d’altronde aveva già aveva intuito Schumpeter, uno dei pochi economisti ad aver colto la correlazione fra struttura dell’economia, posizioni dominanti e innovazione. Per questa ragione il ruolo degli incumbent meriterebbe di non essere svolto in totale autonomia, ma coordinato con gli obiettivi di sviluppo della società, soprattutto nel settore digitale, da cui dipende non solo lo sviluppo economico, ma anche quello sociale.
(3 novembre 2020)
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