Remo Bodei presenta l’‘Etica’ di Baruch Spinoza

Remo Bodei

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Dio, ossia la Natura, è per Spinoza ovunque, in noi e nell’universo che ci circonda. Il mondo non è creato da un Dio personale e non esiste nessuna Provvidenza. Il suo dio non è un surrogato più sofisticato delle divinità adorate dalle religioni positive: a causa della sua essenza impersonale, risulta privo di qualsiasi progetto di governo intelligente del mondo. Ma questa assenza non si traduce affatto in disperazione: la solidarietà con la natura che vive in ogni cosa, il sapersi inseriti in una fitta rete di legami causali necessari, la presa di congedo dal finalismo provvidenzialistico offrono al contrario serenità e gioia. Per questo l’Etica di Spinoza è oggi più che mai testo di riferimento di ogni pensiero materialista, scientifico e laico.

1. L’Etica di Spinoza, con il suo procedere per assiomi, proposizioni, corollari (secondo il modello della geometria di Euclide) può apparire qualcosa di scheletrico, algido, formato da una sequenza, certo coerente, di concetti essiccati, quasi fosse un erbario, dove ciò che è stato vivo viene catalogato con ordine. Così quest’opera è stata vista, ad esempio, da Borges, che – dopo aver dedicato al suo autore due sonetti – lo ha definito «una figura patetica», riprendendo le idee di Unamuno, che aveva parlato della formidable tragedia dell’Etica e definito Spinoza, pobre judio desesperado de Amsterdam, un povero disperato ebreo di Amsterdam, e terrible intellectualista, aggiungendo che il suo amore è un concetto, la sua eternità un inganno e che «niente è più triste, niente più desolato, niente più antivitale di questa felicità, di questa beatitudo spinoziana, che consiste nell’amore intellettuale di Dio».

In realtà, tutta l’Etica è rivolta alla laetitia, che deriva dall’aver combattuto e sconfitto la tristitia, la quale invece deriva dall’idea di caducità. Sentimus experimurque nos aeternos esse, avvertiamo, invece, in noi e nel mondo, pur senza poterla dimostrare, la presenza di una pienezza di vita fuori del tempo, l’eternità, appunto. La solidarietà con la natura che vive in ogni cosa, il sapersi inseriti in una fitta rete di legami causali necessari, la presa di congedo dal finalismo provvidenzialistico offrono serenità e gioia. Ci rendiamo conto del fatto che l’uomo non è un autonomo «impero in un impero», ma partecipa, in maniera inseparabile, con la mente e con il corpo, alle vicissitudini del Tutto (per Spinoza ha, quindi, torto Cartesio a sostenere l’esistenza di due sostanze separate, la res cogitans e la res extensa). L’uomo deve rendersi conto di non essere il centro dell’universo, ma deve, insieme, sforzarsi di trasformare il mondo nella sua casa e non in un albergo, per non essere, con le parole che Pascal trae dalla Bibbia, il ricordo fugace dell’ospite di un solo giorno (unius diei hospitis memoria praetereuntis).

2. Quando si parla di Spinoza e del suo concetto di natura, viene subito in mente, come se fosse uno slogan, il motto Deus sive natura. Ma cosa si intende e quali implicazioni ha questa frase che contiene il concetto, a lungo considerato scandaloso, dell’equivalenza di Dio e Natura?

Dio, ossia la Natura, è per Spinoza ovunque, in noi e nell’universo che ci circonda: nello sguardo di un falco, nella vita di un topo o di un leone, nel ghiaccio delle cime o nella polvere di una stanza. Il mondo non è creato da un Dio personale e non esiste nessuna Provvidenza. Il suo dio non è quello che i tedeschi chiamano un Ersatz-Gott, un surrogato più sofisticato delle divinità adorate dalle religioni positive: a causa della sua essenza impersonale, risulta privo di qualsiasi progetto di governo intelligente del mondo.

Finisce con Spinoza il modello rinascimentale di uomo «microcosmo», essere armonicamente incastonato nel tutto e capace, malgrado la propria piccolezza, di abbracciarlo. Egli considera il genere umano e ogni singolo individuo soltanto una parte dell’universo, inseparabile dai suoi processi, ma priva della facoltà di rispecchiarlo per intero. Dobbiamo perciò adeguarci sia al ruolo marginale attribuito dall’astronomia moderna al pianeta in cui viviamo, sia all’idea della necessità ineluttabile e anonima che regola tutti gli eventi. Le illusioni di una libertà essenzialmente incondizionata e di una provvidenza che vigila con benignità sul mondo vengono in tal modo incrinate.

La scelta di Spinoza consiste nel decentrare ulteriormente l’uomo e la sua coscienza rispetto alla totalità di questo mondo, svuotato di un Dio personale che lo sovrasta e dirige, per recuperare (tramite il pensiero) il senso della natura come tutto. A tale scopo rifiuta, simultaneamente, sia l’antropocentrismo che il teocentrismo, denunciando quanti ignorano o occultano la relatività del proprio punto di vista e si affidano a entità superiori come garanti di un assoluto ordine fisico e morale.

Non esiste per Spinoza alcun ordine fisso e irrelato, né alcuna gerarchia indiscutibile e intoccabile, la cui sacralità verrebbe sconvolta dagli appetiti e dai desideri umani. Ordine e disordine, bene e male, giustizia e ingiustizia sono concetti privi di valore, se non si considerano dalla prospettiva di chi li giudica e dal momento in cui questo avviene. Ciò che è bene per il lupo, è male per l’agnello; quel che è ordine per alcuni è disordine per altri; ciò che è giustizia per chi opprime è potere irragionevole per chi viene oppresso.

L’obbedienza ai comandamenti di Dio cessa così di rappresentare la base dell’etica. A essi si sostituisce la realizzazione di se stessi secondo il grado della cupiditas di ciascuno. Spinoza non sostiene, dunque, «diventa quel che Dio vuole», quanto piuttosto una versione potenziata del paradosso aristotelico «diventa quel che sei». La sua posizione si potrebbe formulare in questo modo: «Diventa tutto ciò che necessariamente puoi diventare elaborando le tue passioni e la tua ragione».

3. L’idea spinoziana di natura contiene un altro elemento scandaloso, quello di considerare gli uomini soggetti alla necessità (da qui l’accusa di fatalismo che gli è stata rivolta e che rende incomprensibile la sua Etica: se, infatti, tutto è già stabilito, perché deve esserci un’etica a dirmi come mi devo comportare?).

Anche in Hobbes, ma in modo diverso, la libertà coincide con la necessità, per quanto soggettivamente la nostra scelta avrebbe potuto essere stata diversa da quella che effettivamente abbiamo compiuto. Come dice nel Leviatano: «Libertà e necessità sono concordanti, com’è il caso dell’acqua che non soltanto ha la libertà, ma anche la necessità di discendere per un canale. Similmente accade per le azioni che gli uomini compiono volontariamente, perché queste, derivando dalla loro volontà, derivano dalla libertà, e tuttavia, dato che ogni atto della volontà, ogni desiderio e ogni tendenza umana scaturisce da qualche causa e questa da una causa precedente, in una continua successione il cui primo anello è nelle mani di Dio, che è Causa Prima, quelle azioni derivano dalla necessità, in modo che a chi fosse in grado di scorgere la connessione interna di tutte quelle cause, apparirebbe chiara la necessit&
agrave; che sta alla base di tutte le azioni volontarie dell’uomo».

Oltre che dalle note pagine dell’Etica, questo punto è ben illustrato dalla più trascurata lettera LXVIII di Spinoza a Schuller. In essa viene formulata l’ipotesi che una pietra, come tutte le cose finite e soggette a cause esterne, riceva una determinata quantità di moto da un altro corpo o forza. Supponiamo inoltre, aggiunge, che – mentre continua il suo movimento, anche quando l’impulso della causa esterna è cessato – essa pensi «e sappia di sforzarsi per quanto può di persistere nel movimento». Una simile pietra, per il solo fatto di essere «consapevole del suo sforzo», sarà persuasa della propria assoluta libertà e crederà di continuare a muoversi unicamente perché lo vuole. In questa presunzione gli uomini non differiscono per nulla da tale ipotetica pietra: la coscienza del loro appetire e del loro agire è accompagnata dall’ignoranza delle cause che li spingono a comportarsi nel modo in cui effettivamente si comportano.

Spinoza presenta poi alcuni esempi che, assieme ad altri, ricompaiono, quasi alla lettera, nell’Etica: «Così, il bambino crede di desiderare liberamente il latte; il fanciullo rissoso la vendetta, e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che poi da sobrio preferirebbe aver taciuto. Così il delirante, il chiacchierone e molti altri di simile risma credono di agire di propria libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in ogni uomo, è difficile liberarsene. Infatti, benché l’esperienza insegni a sazietà che gli uomini in nulla riescono meno che nella moderazione dei propri istinti, e che spesso quando si trovano alle prese con due affetti contrari, vedono il meglio, ma si attengono al peggio, credono tuttavia di essere liberi; e ciò perché l’appetito di certe cose è meno forte e può venir smorzato dal ricordo di qualche altra che abbiamo più di frequente in mente».

4. Che le passioni, ossia la pressione delle forze naturali dentro e fuori di noi, siano ineliminabili, Spinoza lo sa anche per mezzo del mestiere che gli permette di vivere, la lavorazione delle lenti. Questa attività lo appassiona ed è utile non solo per permettere a miopi o a presbiti di vedere meglio o di penetrare con i microscopi nell’infinitamente piccolo, in ciò che si sottrae alla nostra limitata vista, ma anche perché dalla molatura delle lenti ha imparato che vi sono aberrazioni cromatiche ineliminabili che formano ai loro margini una specie di arcobaleno. Per analogia, ciò gli ha fatto pensare all’inutilità e alla dannosità degli sforzi per eliminare le passioni dall’animo umano in modo da raggiungere una perfetta e incolore trasparenza della mente.

Le passioni, non si possono estirpare, ma si possono, comunque, elaborare, giocandole le une contro le altre. L’importante è non contrapporle frontalmente alla ragione, in una lotta in cui essa è per lo più destinata a soccombere. Una ragione difensiva che cerchi di esorcizzarle – dicendo loro Vade retro! – è, infatti, votata all’impotenza. Gli uomini riescono in parte a frenarle solo quando vivono nella sicurezza economica e politica, che assopisce la paura, lenisce l’odio, stempera l’invidia, sottrae frecce all’ira. Non sono le parole, ma il cambiamento delle reali condizioni di vita che permettono un certo controllo delle passioni tristi.

Più che essere un animale razionale, l’uomo è un animale desiderante, mosso da quella che Spinoza chiama cupiditas (usando il termine conatus, tratto dalla fisica galileiana per indicare il grado di intensità del desiderio, che è continuamente variabile, in crescita o in diminuzione). Le passioni tristi – quali la paura, l’odio, l’invidia, l’ira – debilitano la nostra energia vitale, e ci deprimono, abbassando la curva del nostro conatus. Al contrario, le passioni gioiose innalzano il tono vitale e favoriscono non solo la razionalità, ma anche qualcosa di più alto, che definisce amor Dei intellectualis, ossia amore intellettuale della natura, di tutto ciò che è in noi e fuori di noi. Esso è una facoltà conoscitivamente e affettivamente più efficace della ragione, in quanto non si limita a combattere e a reprimere le passioni, ma le elabora, servendosi dell’amore e della gioia per rafforzare l’intelligenza e intrecciarsi con essa.

Quanto più conosciamo e amiamo ogni singola cosa, tanto più conosciamo ed amiamo Dio, ossia la Natura, e concepiamo le cose sub specie aeternitatis. Nel vedere ciascuna di esse quale nodo di infiniti rapporti che ci vincolano alla realtà nel suo complesso, ci liberiamo dall’illusione di essere assolutamente liberi, un miraggio che deriva dall’ignoranza delle cause che ci spingono ad agire in un determinato modo. Non ci rendiamo conto che la libertà non è altro che coscienza della necessità e che vi sono, peraltro, dei margini abbastanza ampi nella nostra stessa «libertà». Un bambino che cammina carponi è soggetto alla stessa ineliminabile forza di gravità dei ballerini o degli acrobati, ma questi hanno un grado ben maggiore di «libertà».

Il pensare continuamente alla morte come distruzione completa di noi stessi o come preludio a un’altra vita di tormenti o di felicità senza fine ci intristisce e ci fa oscillare tra due passioni ugualmente debilitanti, la paura e la speranza. Pensare alla vita, al nostro essere partecipi delle vicende dell’intero universo, ci solleva invece dalle miserie e dalle tristezze. Allora, la nostra forza di esistere si espande e si integra con il Tutto, con la natura divina: Philosophia non mortis, sed vitae meditatio est.

(8 novembre 2019)



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