Ricreando la plebe. Un saggio di Nadia Urbinati

Marco d’Eramo

Perché il conflitto è scomparso dal vocabolario politico? È questa la domanda che assilla, e a cui cerca di rispondere, il breve, stimolante saggio di Nadia Urbinati “Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo” (Laterza, pp. 108, 12,00 euro). Il conflitto non va confuso con l’antagonismo o con la contrapposizione. Il conflitto è portato avanti da forze organizzate con l’obiettivo di riconfigurare il futuro (delle relazioni di lavoro, dei rapporti di potere, della struttura sociale, delle diseguaglianze economiche…), mentre le dimostrazioni anche di massa, anche violente, “per i bisogni insoddisfatti e la fatica quotidiana del vivere” hanno come dimensione il presente, non il futuro. “La precarietà delle condizioni di vita, il non poter contare su un futuro certo: questo stato di puro presente è ciò che annichila l’azione politica generale.”

La tesi del libro è che la ragione per cui il conflitto è scomparso va cercata in due processi simultanei e sinergici. Il primo è quello che Urbinati chiama “l’affermarsi di una concezione minimalista della democrazia”. Le recenti elezioni Usa ci ricordano che repubblica rappresentativa non è sinonimo di democrazia: può esserne forse una condizione necessaria, ma di sicuro non sufficiente. I padri fondatori degli Stati uniti vollero creare una repubblica, non certo una democrazia. Urbinati sembra muoversi, senza citarlo esplicitamente, nella scia di Aristotele che nel libro IV della Politica, oltre ai classici tre tipi di regime analizzati in precedenza (monarchia, aristocrazia, democrazia), ne introduce un quarto, la politia, “una mistione di oligarchia e democrazia”. (IV, 1293b). Noi abbiamo vissuto e viviamo in una politia che per un periodo, quello del secondo dopoguerra, ha pencolato più verso la democrazia, con la dialettica dei partiti politici, con le rappresentanze sindacali, con la redistribuzione sociale. Da tempo ormai la politia pende invece verso l’oligarchia.

Urbinati fa risalire questa svolta al famoso rapporto su La crisi della democrazia consegnato alla Commissione Trilaterale nel 1975 in cui scova una straordinaria citazione: lamentandosi per l’eccessiva copertura mediatica della guerra del Vietnam, il rapporto sostiene che i democratici “sono inclini a schierarsi con l’umanità invece che con l’autorità e le istituzioni”. Secondo i tre autori (Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki), le democrazie occidentali erano andate in crisi perché avevano travalicato il loro compito, secondo una visione minimalista della democrazia già enunciata da Joseph Alois Schumpeter nel 1941: la democrazia deve essere solo un metodo di selezione della classe politica, fondato sul suffragio universale individuale e segreto, per mezzo di una competizione elettorale ciclica.

In questa lettura minimalista, “ai ‘molti’ spetterebbe essenzialmente di recarsi ai seggi, ai ‘pochi’ di mettere in essere la gara elettorale. Il legame tra gli uni e gli altri è il consenso in cambio di promesse e, a fine mandato, di rendiconto. I ‘pochi’ e i ‘molti’ godono degli stessi diritti di libertà, civili e politici, ma le procedure e le istituzioni sono preordinate allo scopo di tener fuori i ‘molti’ dall’esercizio del potere, ‘usandoli’ come tribunale giudicante e autorizzante”. Riportare la democrazia nei suoi binari minimalisti, questo lo scopo che è stato perseguito (e raggiunto) dagli anni ’70 del secolo scorso a oggi.

In questa concezione della democrazia, il popolo esemplare deve essere “apatico” e silenzioso ed esprimersi ogni tot anni solo attraverso le schede elettorali. Se nel frattempo si pronuncia in altre forme e con altri mezzi, viene scoraggiato in ogni modo (anche con l’uso della forza, aggiungo io). Già a questo stadio la scissione del popolo in due, da un lato i pochi che “si annusano e si scelgono” (C. Writght Mills), che si isolano in quartieri esclusivi o addirittura in enclave barricate, accampano “natura divina” (Gianbattista Vico); dall’altro i molti, sempre più sbarrati nelle possibilità di ascesa sociale, sempre più privati dei diritti fondamentali, in particolare l’istruzione e la salute, e perciò sempre più marcati anche fisicamente (da obesità, dall’essere sdentatati). Se posso introdurre un episodio autobiografico: quando più di 50 anni fa arrivai per la prima volta in Africa nera, ero talmente ottuso che non vedendo quasi mai occhiali sui visi della popolazione locale, mi dissi che gli africani dovevano avere una vista da lince, non che non avevano abbastanza soldi per comprarsi lenti correttive!

Per descrivere il secondo processo che ha provocato la scomparsa del conflitto dal nostro vocabolario politico bisogna ricorrere a una parola che serpeggia sottotraccia in tutto il testo di Urbinati, ma compare solo una volta di sfuggita, verso la fine. È la parola “plebe”. Perché quello che è successo negli ultimi quarant’anni è stato un lungo processo di ricostruzione della “plebe”: come già sapeva Rousseau, la plebe non è altro che il popolo senza istruzione universale. I due popoli di cui qui si parla nel saggio, i pochi e i molti, sono in realtà i patrizi e i plebei: e la democrazia minimalista è quella che consente ai pochi, all’oligarchia, di governare i molti, la plebe. Non a caso, discutendo di uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale, Urbinati può citare solo due tribuni della plebe, i Gracchi: il problema oggi è che, se si è fatto di tutto per ricostituire la plebe, a quest’ultima non è stato consentito di conquistarsi il tribunato. Oggi nessun tribuno difende gli interessi della plebe. Se esiste la parola “governo dei pochi” (oligarchia), osserva Urbinati, non è mai stato coniato il termine pollocrazia, “governo dei molti”.

Tre brevi critiche. La prima è che per rivalutare i conflitti, Urbinati si riferisce direttamente a Machiavelli, quando osserva che “i buoni ordini” “sono l’esito di un potere strappato alle oligarchie”. Nel passo dei Discorsi che qui è parafrasato, Machiavelli si sbilancia molto di più: dice che i “buoni ordini” possono essere ottenuti solo attraverso i “tumulti”, cioè i sollevamenti, non i semplici conflitti: “Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono la causa prima nel tenere libera Roma…” (libro primo, cap. IV). Il tumulto contraddice l’idea gradualista del conflitto riformatore e riformista. Il tumulto introduce l’elemento della violenza in politica, fattore singolarmente assente dal saggio.

Questo ci porta alla seconda critica: nel volume si sente una sorta di nostalgia per la socialdemocrazia d’un tempo, per il compromesso tra lavoro e capitale che aveva consentito la creazione e il mantenimento dello stato sociale. Ma non possiamo ignorare che quel compromesso era reso necessario dalla presenza dell’Unione sovietica nello scacchiere mondiale (paradossi della storia: una dittatura che angariava i propri sudditi, contribuiva indirettamente al benessere dei sudditi altrui): appena l’Urss è scomparsa, que
l compromesso è diventato superfluo e infatti il crollo sovietico ha segnato non solo la scomparsa dei partiti comunisti occidentali, ma anche la fine dei partiti socialdemocratici (hanno resistito solo là dove hanno rinunciato alla propria socialdemocrazia, come nel New Labour di Tony Blair). Forse, da questo punto di vista, i conflitti non sono solo scomparsi, ma sono anche stati spazzati via.


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L’ultima critica riguarda la categoria del populismo. Urbinati usa questo termine nel suo senso di destra (Salvini, Orbán, Erdoğan, Bolsonaro…) trascurando che questo epiteto è stato affibbiato a Podemos, Siriza, Bernie Sanders, persino al sociologo Pierre Bourdieu e a Papa Francesco.
Quest’uso è l’unica traccia di concessione al conformismo in un testo che invece fornisce moltissimi spunti di riflessione e che sembra andare in una direzione opposta al “benpensantismo” che taccia di populismo qualunque discorso che si rivolga alla plebe. Il libro va nella direzione dentro (dei pochi)/fuori (dei molti).
Ma questa è proprio la direzione per cui all’opposizione destra/sinistra si sostituisce l’antitesi discorso legittimo/discorso illegittimo, come scrive bene Pierre Manent: “La polarità destra/sinistra attribuisce una legittimità uguale ai due poli… Invece il nuovo dispositivo si caratterizza per l’ineguale legittimità: il populismo in quanto tale è tendenzialmente illegittimo, mentre la politica rispettabile è tendenzialmente la sola legittima … tendiamo a passare da un ordine che riposa sul confronto tra opinioni ugualmente legittime a un ordine basato sul confronto tra opinioni legittime e opinioni illegittime, tra ortodossia ed eresia politiche.”

(14 novembre 2020)




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