Riletture incrociate dell’eretico Keynes

ManfreAlberti

, il manifesto, 8 marzo 2011

Sembra che nel 1971, di fronte al vacillare dell’equilibrio che aveva retto la cosiddetta «età dell’oro», il presidente americano Richard Nixon abbia affermato: «siamo tutti keynesiani». Da allora sono trascorsi quarant’anni, buona parte dei quali ampiamente influenzati dal neoliberismo, e ancora oggi, di fronte all’evidenza di una profonda crisi del capitalismo globale, sono molti gli studiosi pronti a ricordarci i motivi per cui, parafrasando una famosa frase di Benedetto Croce, «non possiamo non dirci keynesiani».

Non vi è dubbio che un confronto con il lascito teorico di Keynes sia oggi imprescindibile. E a dire il vero, in risposta a questa necessità, di recente sono apparsi in libreria diversi saggi su Keynes, oltre ad alcuni dei suoi scritti. Ma l’apparenza non deve trarre in inganno: quello che può sembrare un revival keynesiano è, nella maggior parte dei casi, più un’operazione di rito che di sostanza, in grado di restituire solo un’immagine distorta o superficiale dell’economista di Cambridge, talvolta assunto come un simulacro dietro cui celare la propria incapacità di analisi del presente.

A differenziare le recenti riletture di Keynes non è solo la valutazione del suo contributo teorico, ma anche il giudizio sul carattere più o meno autenticamente keynesiano delle politiche economiche messe in atto dai governi per fronteggiare l’attuale crisi economica. Per chi oggi voglia costruire un’alternativa reale alle politiche dominanti è importante non solo ripartire da Keynes, ma anche mostrare come dietro l’apparente adesione alle sue indicazioni si nasconda una sostanziale incapacità di rompere con la pluridecennale egemonia del neoliberismo.

L’economista americano Hunter Lewis, autore di Tutti gli errori di Keynes. Perché gli Stati continuano a creare inflazione, bolle speculative e crisi finanziarie (Istituto Bruno Leoni 2010, prefazione di Francesco Forte, pp. 444, euro 24), non ha dubbi: a suo avviso la crisi economica del 2008 (al pari del crollo del ’29) è stata generata da quello che egli ritiene il piatto forte del menu keynesiano, ovvero il «denaro facile» garantito dai bassi tassi d’interesse. Secondo Lewis non solo le idee di Keynes hanno causato la crisi, ma hanno contribuito a impedirne il superamento, dato che la gran parte dei governi si è preoccupata di garantire tutta la liquidità necessaria al sistema bancario attraverso i salvataggi, e ha interferito con altri mezzi per sottrarre alla mano invisibile del mercato il compito di ripristinare l’equilibrio perduto. Nel tentativo di sottoporre a critica le idee-chiave di Keynes (essenzialmente il principio della domanda effettiva), il volume di Lewis finisce per essere una caricatura del suo pensiero e una lettura capziosa dei suoi scritti, questi ultimi considerati financo sciatti nello stile e superficiali nell’argomentazione. Per Lewis, nonostante il difetto centrale della teoria keynesiana sia il fatto di essere contraria al buon senso, tutti quanti, perfino Milton Friedman, ne sarebbero stati «infettati» (verrebbe da dire che una simile ossessione non trova eguali se non nella paura berlusconiana nei confronti del comunismo).

In direzione simile, ma con argomenti diversi e uno sguardo concentrato sul caso italiano, Franco Reviglio, in Goodbye Keynes? Le riforme per tornare a crescere (Guerini e Associati 2010, pp. 140, euro 15,50) tenta di dimostrare l’impossibilità di applicare oggi i suggerimenti di Keynes. E come molti individua erroneamente nell’elevato debito pubblico italiano un chiaro indice del pregresso e perdurante abuso di ricette keynesiane. Anche alcune letture maggiormente consentanee rispetto alle idee keynesiane ne riscontrano comunque l’influsso sui provvedimenti presi da molti governi per arginare la crisi. Per Luca Fantacci, curatore dell’antologia di scritti di Keynes intitolata Risparmio e investimento (Donzelli 2010, pp. 106, euro 9,50), la presenza di elevati debiti pubblici in molti Stati dimostra che siamo tutti sin troppo keynesiani. E anche Giorgio La Malfa, nella prefazione a un’altra raccolta di scritti keynesiani (Sono un liberale?, Adelphi 2010, pp. 320, euro 22), pur riconoscendo che l’attuale crisi economica è il frutto dell’allontanamento avvenuto negli ultimi trent’anni dagli insegnamenti di Keynes, considera coerenti con questi ultimi le politiche sin qui portate avanti per evitare l’aggravarsi della recessione.

In realtà c’è da dubitare che le politiche economiche correnti siano davvero riconducibili a Keynes, e che rappresentino pertanto una discontinuità con il recente passato. L’intervento dello Stato, finora diretto per lo più a proteggere il capitale, ha lasciato che il lavoro salariato continuasse ad assorbire tutte le contraddizioni del sistema, perpetuando, a conti fatti, un regime improntato al laissez-faire. La socializzazione degli investimenti auspicata da Keynes nella Teoria generale è lontana dall’essersi realizzata, così come un sistema finanziario internazionale in cui la libera circolazione dei capitali sia limitata, e gli squilibri nei conti con l’estero siano governati da un’autorità centrale capace di impedire che i paesi debitori siano i soli a dover subire i costi di un aggiustamento (cos’altro dimostrano le persistenti tensioni interne all’Europa?).

Se è vero che c’è ben poco di keynesiano nelle politiche degli stati europei e anche degli Stati Uniti, ugualmente lontani da una vera ripresa, si può considerare un caso il fatto che sia la Cina comunista uno dei paesi in forte espansione? Probabilmente no, perché la crescita cinese si deve proprio all’idea, molto keynesiana, di sottrarre al mercato l’intera responsabilità delle decisioni di investimento, e di assegnare allo Stato un rigido controllo sui grandi aggregati macroeconomici. Questa conclusione può stupire solo chi abbia un’idea edulcorata del keynesismo, che prescinda dai suoi rapporti con il marxismo e con il comunismo.

Questi nessi sono ben evidenziati da Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro nella prefazione a Laissez-faire e comunismo, lo scritto di Keynes proposto nel ’26 al pubblico progressista americano e disponibile finalmente in traduzione italiana (Derive Approdi 2010, pp. 81, euro 10). Non si comprende a fondo il liberalismo sui generis di Keynes se non si considera il fascino che su di lui esercitarono l’esperimento sovietico e il leninismo. Anche in virtù di questo influsso le (vere) idee di Keynes, attraverso la capacità di rovesciare le certezze del senso comune, ieri come oggi appaiono eretiche. In questo sta la loro forza e la loro attitudine a guidare una possibile trasformazione della società. D’altra parte non è forse vero, come sosteneva Lenin in Che fare?, che «senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario»?

(8 marzo 2011)

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