Sostiene Schifani: condannate Tabucchi

MicroMega

di Gianni Barbacetto

Antonio Tabucchi va condannato, sostiene Schifani. Sì, Renato Schifani, il presidente del Senato, che ha intentato allo scrittore una causa civile con la richiesta di un risarcimento record: 1 milione e 300 mila euro. Perché Tabucchi, in un suo articolo pubblicato il 20 maggio 2008 sull’Unità diretta da Antonio Padellaro, lo ha gravemente diffamato, sostiene Schifani.

Nell’articolo, dal titolo “I fatti e i veleni”, lo scrittore prende lo spunto dalle dichiarazioni di Marco Travaglio, duramente attaccato dopo che nella trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa” aveva raccontato i trascorsi di Schifani in Sicilia. Travaglio aveva riferito fatti veri, scrive Tabucchi: il futuro presidente del Senato aveva avuto «accertate frequentazioni di personaggi condannati poi per mafia».

Le vicende a cui Tabucchi si riferisce sono quelle che erano già state raccontata da Marco Lillo sull’Espresso, da Roberto Bellavia sulle pagine palermitane di Repubblica e da Lirio Abbate e Peter Gomez nel libro I complici (mai querelati). Nel 1979, Schifani è tra i fondatori della Sicula Brokers, che ha tra i suoi soci l’amico Enrico La Loggia, ma anche altri personaggi: Giuseppe Lombardo (amministratore delle società dei cugini Nino e Ignazio Salvo, che Giovanni Falcone nel 1984 arresta per mafia), Benny D’Agostino (poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione, peculato e truffa aggravata), Nino Mandalà (futuro boss di Cosa nostra a Villabate, fedelissimo di Bernardo Provenzano, arrestato nel 1989 e poi condannato per associazione mafiosa).

Non solo. Proprio a Villabate, non lontano da Palermo, il giovane Schifani, già entrato in politica, era diventato consulente urbanistico del Comune. E secondo quanto testimonia il pentito di mafia Francesco Campanella (anch’egli querelato da Schifani), si era dato da fare per favorire gli affari di Mandalà: «Le quattro varianti al piano regolatore furono tutte concordate con Schifani, che interloquiva anche con Mandalà», dichiara Campanella. «L’accordo, che Mandalà aveva definito con i suoi amici Schifani e La Loggia, era quello di manipolare il piano regolatore» facendo varianti dove Mandalà aveva affari in corso e «penalizzando gli affari della famiglia mafiosa avversaria».

Il piano regolatore di Villabate, dunque, almeno secondo quanto sostiene Campanella, fu deciso dall’ultimo braccio destro di Provenzano, Mandalà, in stretto collegamento con Schifani: «Mandalà mi disse che aveva fatto una riunione con Schifani e La Loggia e aveva trovato un accordo: i due segnalavano il progettista del piano regolatore, incassando anche una parcella di un certo rilievo». In relazione a queste vicende, il Comune di Villabate nel 1999 fu sciolto per mafia.

Nel 1992, intanto, Schifani aveva costituito una società di recupero crediti, la Gms, di cui è socio accomandante insieme ad Antonino Garofalo, che nel 1997 è arrestato per usura ed estorsione. Garofalo è ritenuto dalla procura di Palermo il capo di un’organizzazione che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi del 240 per cento. È stato rinviato a giudizio e poi processato, ma poi assolto in dibattimento. Le visure camerali dimostrano che Schifani era socio della Gms almeno fino alla primavera scorsa (aprile 2009).

Schifani nella sua attività professionale ha anche fatto da consulente, con un ruolo simile a quello dell’avvocato d’affari, a Giovanni Costa, imprenditore di Villabate che poi ha portato al crac a Bologna il gruppo Urafin ed è stato per questo condannato in primo grado per bancarotta fraudolenta. Ha assistito anche il costruttore Pietro Lo Sicco, che poi sarà condannato per mafia e corruzione.

La capacità di un politico in Sicilia dovrebbe essere quella di capire prima degli altri chi sono gli imprenditori compromessi con la mafia. Dopo gli arresti e le condanne, sono capaci tutti di prendere le distanze da personaggi ambigui. Il politico accorto dovrebbe invece farsi vanto di individuare prima gli inquinamenti mafiosi e quell’area grigia di affari e rapporti che rende la mafia davvero potente. Schifani evidentemente non ha questa capacità e questa accortezza.

Nulla di penalmente rilevante per lui, mai messo sotto processo: e su questo Tabucchi può aver scritto un’imprecisione (dove parla di «processi dal quale egli fu in seguito assolto»). Resta però la sostanza: Schifani ha avuto frequentazioni e rapporti con personaggi poco raccomandabili, alcuni indagati e arrestati, altri poi perfino condannati per mafia.

Frequentazioni di questo tipo, anche in buona fede, in qualunque altro paese dell’occidente determinerebbero la fine di una carriera politica. Non in Italia, dove comunque quei rapporti «sono fatti che appartengono», proprio come ha scritto Tabucchi, «alla biografia di un uomo politico nominato alla seconda carica dello Stato». Ed è proprio questa la tesi centrale che Tabucchi sviluppa nel suo articolo: le frequentazioni e i rapporti d’affari di un personaggio pubblico sono interessanti per il pubblico dei lettori, per i cittadini italiani che hanno il diritto di conoscere chi sono i loro politici e le loro autorità istituzionali.

Non la pensano così il presidente del Senato e i suoi avvocati, che intentano causa civile a Tabucchi, definito “giornalista”: evidentemente non sospettano neppure l’esistenza di uno scrittore omonimo, già candidato al Nobel per la letteratura. Chiamano in causa solo lui, non il giornale che ha pubblicato il suo articolo: così resta tutto sulle sue spalle il peso delle spese di difesa e il rischio dell’eventuale risarcimento, con un pesante effetto intimidatorio. D’altra parte il presidente del Senato ha fatto causa anche ad altri che hanno scritto e raccontato fatti veri del suo passato, da Marco Travaglio a Gianni Barbacetto. Tutti diffamatori, sostiene Schifani.

(20 novembre 2009)

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