Spegni il maschilismo

Maria Mantello



Il nesso tra maschilismo e violenza contro le donne è centrale per ogni analisi sul “femmicidio”. Dove l’omicidio rappresenta il culmine da delirio di possesso che nel dare la morte ne decreta il potere più assoluto.

Si tratta di un omicidio di genere, come lo definì la criminologa Diana Russell, che nel 1974 aveva avuto un ruolo fondamentale per l’istituzione di un Tribunale internazionale sui Crimini contro le Donne a Bruxelles nel palazzo del Congresso. E qui, due anni dopo, davanti a oltre duecento donne dei più diversi paesi del mondo, questa grande esponente del femminismo mondiale affermava: «femmicidio («femicide») è l’omicidio di femmine in quanto femmine operato da maschi».

La Russell evidenziava la fenomenologia sociale di questo crimine, conseguenza del modello simbolico di donna frutto di sessismo e misoginia.

Nel 1992 nel libro-antologia Femicide. The Politics of Woman Killing, ricostruendo anche le esperienze delle lotte degli anni Settanta, Diana Russel nella introduzione scrive: «Il termine femicide va ben oltre la definizione giuridica di assassinio, in quanto deve includere le situazioni in cui la morte della donna configura il risultato/la conseguenza di comportamenti o pratiche sociali misogine».

Su questa strada, per una più strutturale e ampia definizione dei comportamenti da considerare nella categoria sociologica di femminicidio, restano fondamentali le osservazioni dell’antropologa e politica messicana Marcela Lagarde, che nei suoi scritti e conferenze, denuncia le responsabilità socio-istituzionali che, tra silenzi e connivenze, alimentano la subcultura della trama di violenze verso le donne:

Eccone un esempio, in occasione della sua conferenza del 12 gennaio 2006 all’università di Oviedo: «Nella società si accetta che ci sia violenza sulla donna. Una violenza che la società ignora, zittisce, oscura, sminuisce, normalizzando la violenza contro le donne. E a loro volta le comunità (famiglia, quartiere e le diverse forme di organizzazione sociale) minimizzano questa violenza, adottando e promuovendo meccanismi violenti di relazione comportamentale con le donne. L’organizzazione sociale è tale che la violenza è parte delle relazioni parentali, di lavoro, educative, in generale delle relazioni sociali […]. Siamo di fronte al paradosso di una violenza illegale ma legittimata. Questo è uno dei punti chiave del femminicidio».

Liquidato come cacofonico neologismo, il termine femminicidio è escluso dai dizionari (ipocrisia?).

In Italia solo nel 2009 compare per la prima volta nell’edizione del 2009 del Devoto-Oli che a alla voce femminicidio spiega: «È qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte».

L’ufficializzazione da vocabolario è fondamentale, perché finalmente erode la zona d’ombra del maschilismo; ne smuove il magma profondo nella creazione dello stereotipo di donna; ne svela la prepotenza di un patriarcato che si reitera facendo leva sul più retrivo arcaico simbolico misogino.

Come ai tempi della mattanza istituzionalizzata che fu la caccia alle streghe, quella costruzione simbolica arbitraria tenta oggi di risorgere nella riproposizione di moduli gerarchici di genere.

Le “nuove streghe” sono le donne colpevoli di non voler obbedire agli schemi di arcaici modelli che non le vedono come individui autonomi.

Finché non si assume consapevolezza chiara e distinta, che l’incasellamento di genere si sia accanito particolarmente sulle donne è difficile comprendere come la violenza ginocida si manifesti prevalentemente nel “sacro focolare domestico”, dove piccoli uomini non riescono a capacitarsi che il loro ruolo di pater familias è finito, e che devono fare i conti con una nuova antropologia di donna, frutto di quell’emancipazione femminile che ha permeato la società, ma che senza il femminismo e le conquiste giuridiche ottenute non ci sarebbe mai stata.

Ecco allora che al maschilismo non si deve dare tregua. Ed è importante smascherarlo nella sua strategia di abuso, invasività che nulla ha a che fare con l’affettività. Anche quando s’insinua per circuire con parvenze di protezione, che calibra tra «tenerezza amorosa» e «ricatto affettivo» per ottenere meglio la subordinazione dell’«altra da sé», che resta sempre e comunque l’oggetto dell’egoità narcisistico-maschilista, che nella mistificazione misogino-sessista rispolvera la favola dell’«eterno femminino», in esercizi di stile sulle “connaturate” doti delle donne: dolcezza, sentimento, amabilità, grazia. Che disvelati significano: soggezione, sopportazione, obbedienza, rassegnazione su cui tanti maschi continuano ad accomodarsi pensando di aver diritto a quel ruolo stereotipato di servizio sacrificale delle donne.

Attenzione però, perché mentre il maschilismo violento si smaschera facilmente e le sue azioni sono reato anche grazie alle recenti leggi contro il femminicidio e lo stalking, quello più difficile da scardinare è proprio il maschilismo che veicola introiettato dall’oggetto dominato.

Come scrive Pierre Bourdieu in Il dominio maschile: «La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarsi o, meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, dispone soltanto di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questo come naturale».

Una “normalità” supposta che dilegua solo con l’avanzare della democrazia e del concetto di uguaglianza che essa impone tra gli individui.

La democrazia infatti erode ogni ancoraggio di legittimità alla disuguaglianza. E nella relazione uomo-donna, il motore del cambiamento dalla parte delle donne è stato il femminismo. Che negli anni Settanta produceva la rivoluzione copernicana delle donne, che con le sue conquiste ha segnato un punto di non ritorno per il libera tutti dai moduli gerarchici di genere.


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Ma gli stereotipi resistono. E in particolare rispetto al problema della violenza sulla donne il più recente rapporto – inchiesta ISTAT evidenzia che il 7,4% delle persone ritiene accettabile sempre o in alcune circostanze che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata; il 6,2% che in una coppia ci scappi uno schiaffo del maschio… ogni tanto però, mentre c’è un 17,7% a considerare “normale” che un uomo controlli abitualmente il cellulare e/o l’attività sui social network della propria moglie/compagna.

Inquietanti la resistenza a minimizzare lo stupro. Addirittura il 39,3% della popolazione è convita che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Il 23,9% pensa che siano le donne a poter indurre la violenza sessuale con il loro modo di vestire, e un 15,1%, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile.

Per il 10,3% della popolazione (12,7% uomini, 7,9% donne) spesso le accuse di violenza sessuale sono false. Inoltre un 7,2% afferma che di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì, e per il 6,2% le donne serie non vengono violentate. C’è poi uno zoccolo duro dell’1,9% che persiste nel ritenere che non è violenza se un uomo obbliga la moglie o compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

Che dire? Il virus maschilista è certo indebolito, ma non scomparso. La lotta per la sua estirpazione deve quindi continuare sul piano giuridico e culturale fino alla sua completa decapitazione.

(25 novembre 2020)




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