Contro il ‘68 l’ira funesta di Piergiorgio Bellocchio

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di Augusto Vegezzi

«Per noi il ‘68 fu l’epilogo della creatività». Con questo assioma apodittico si apre un’intemerata furiosa di… Tarchi, Veneziani, La Russa, Alberoni, Fiori? No. Sbagliato. Con questo titolo virgolettato si apre sul Corriere della Sera del 2 aprile l’intervista che Piergiorgio Bellocchio concede a Paolo di Stefano. Il noi, significa i «QP» [Quaderni Piacentini]? No. Questo pluralis majestatis rivela un sintomatico EGO iperbolico. Col ditino alzato di tutti gli antichi comunisti, di cui parla Kundera, l’oracolo piacentino snocciola una serie di paradossi assiomatici, evitando dimostrazioni, e storicizzazioni ispirate a una ricerca critica di comprendere, per contro, mirando invece a raggiungere direttamente la valutazione negativa più tranchant.
Sempre verde rimane quel vecchio vizio della censura irrefutabile e a prescindere che portò alla fortunata e assurda rubrica «Libri da leggere e da non leggere», dove il tabù contro questi ultimi era così assoluto che venivano condannati, dio guardi, assolutamente senza essere letti.
Liquidato così disinvoltamente il ‘68 per quello che non fu, lo stesso stile oracolare stermina tutti i suoi leader come decerebrati e rimarca due aspetti fondamentali dell’annus horribilis: 1. «Per me rappresenta una tassa… che mi tocca pagare anche sotto forma di intervista.» Eppure bastava un no per evitare la noia, ma l’EGO ha i suoi diritti; 2. il‘68 per «molti … » è stato «un trampolino per ottime carriere in ogni settore». In una precedente sortita l’oracolo piacentino parlò gentilmente di «animali da soma» al servizio del potere. Comunque black out completo sulle altre centinaia di migliaia di sessantottini che, per il bene e il male, hanno trasformato la società e cambiato la vita in Italia, tanto che nulla fu più come prima. Come testimoniano i ricorrenti lamenti, arringhe e scomuniche dei capi della destra, da Sarkozy e Berlusconi ai vari Pera, Sacconi, Cicchitto, Gasparri etc. con i quali il Bellocchio mostra di condividere alcune idiosincrasie. Tanto è vero che sarebbero concordi sull’inaudito successivo assioma bellocchiano: «L’unica ‘immaginazione’ che si è sviluppata [dal ‘68] è quella criminale».
Un’assurdità di peso, che potrebbe valere non un laticlavio dai nuovi fans di destra, ma un buffetto dall’inossidabile Bondi.
Tutta l’intervista rispecchia un paradigma storico infondato, rozzo e irrazionale al quale si ispira l’ex intellettuale organico del‘68 per il suo pessimismo cosmico della non intelligenza. L’ultimo mezzo secolo, per lui, inizia trionfalmente con il decennio ‘57-’67 «ricco, fertile… la modernizzazione del Paese, l’avvento del neocapitalismo»; ma si verifica nella società e nella cultura una «progressiva regressione, dal ‘68 in poi».(Corsivo mio.) Dopo la generazione, continua l’oracolo, dei Pasolini, Zanzotto, Fortini, Volponi, Cases: «non me ne viene in mente nessuno». Viste le assurdità già ricordate come meravigliarsene?
Le sferzate stroncatorie infieriscono poi sul Teatro e e sul Cinema, salvando pochi tra cui il fratello Marco.
«Le testimonianze più originali del nostro post ‘68 [sarebbero] … venute dal fumetto», dagli umoristi della cerchia de Il Male: «Qualcuno s’è venduto, ma molti hanno difeso…la loro indipendenza. …Finendo non pochi per autodistruggersi». Questi creativi, omette l’oracolo, erano sessantottini: come il grande Andrea Pazienza, che morì di overdose, e altri ben vivi, indipendenti e in lotta ora e sempre da Vauro a Serra. Nel deserto di creatività, rimarrebbero solo artisti e letterati, alcuni venduti, tutti dediti ad «affliggerci con insulsaggini.» Vorrei ricordardare che anche l’arci-critico a lungo parteggiò per il ‘68, poi emarginò dai «QP» Fortini, troppo alta cultura, e infine partecipò al suo parricidio intellettuale perpetrato da Berardinelli. Quanto ad insulsaggini, i volumetti firmati Bellocchio, raccolte di «cacatine di mosche», non ammettono rivali.
Poco prima l’oracolo piacentino aveva sentenziato: «la politica non ha fatto che degradarsi in progressione» – forza con gli ossimori!- dal ‘70 ad oggi, tanto che «il punto in cui siamo sprofondati e dal quale ripartire, è l’Italia fedelmente ritratta da Gomorra».
I limiti e le responsabilità del ‘68 sono enormi, ma qui siamo alla caricatura della storia e alla mistificazione del presente. Il Bellocchio ignora disinvoltamente che la Contestazione innovatrice fu incanalata, soffocata e stravolta dalla coalizione dei poteri forti con ogni mezzo,- dalle armi alle spie, agli infiltrati, alla disinformazione etc. Quei poteri stavano gettando le basi della società postindustriale e post-fordiana, consumistica, narcisistica, massmediatica anche attraverso mistificazioni, manipolazioni e controlli televisivi delle masse e si preparavano a succedere al regime democristiano di Andreotti e Craxi sul modello del regime autoritario della P2, anticipato da Cefis, perfezionato da Gelli e oggi in via di installazione da parte di Berlusconi. Qui le metastasi sono già in rapida diffusione. Altro che Gomorra.
Quel blocco di potere fu particolarmente abile nel trasformare l’organizzazione del capitale e del lavoro e nel realizzare un nuovo monopolio dell’industria culturale, soprattutto televisiva. Il ciclone mass-mediatico investì irresistibilmente e integrò la sotto-classe intellettuale con la tenaglia ricattatoria di alti emolumenti o emarginazione e miseria. Peraltro anche certi letterati indipendenti e dotati di pingue rendita non hanno saputo né guardare né esprimere «il male dell’epoca». Criterio bellocchiano invero angusto, stitico, indice di autolesionismo e dell’incapacità di capire che compito della ricerca critica e letteraria è di indagare ed esprimere lo spirito dell’epoca (Zeitgeist), male e bene compresi.
L’immaginazione, sconfitta, ingenua, ideale, solidaristica, egualitaria, libertaria del ‘68, non era criminale; criminale e criminogena era quella, vincente, dei già richiamati poteri forti, in sostanziale rapporto con la criminalità organizzata, ai quali risposero assurdamente micro-gruppi politici sostanzialmente estranei al ‘68, usati in vari modi dal potere.
Gomorra, infine, non è il fedele ritratto dell’Italia. E’ una metafora terribile e tragica di una estrema localizzata degenerazione criminale e della possibilità di una metastasi generale. Da Gomorra non «riparte» niente e nessuno, se non per il cimitero.
Senza dubbio si deve rinascere da e con uno come Saviano, che in questi nuovi anni di piombo non si è ritirato nel suo eremo borghese con vista sui platani del Fàcsal piacentino per creare i suoi pensierini balzani e le sue censure oracolari.
Un fedele ritratto dell’Italia è quello che non omette né l’involuzione verso il regime autoritario plebiscitario né la grande parte degli italiani che credono, vivono, lottano secondo i principi della Costituzione, della democrazia, della libertà, della buona e vera vita. Si risorgerà certamente e solo grazie a questa Italia già reale, in azione, operativa, seppure confusa, mistificata, disinformata dall’industria televisiva e culturale, ma ancora presente, l’Italia di Saviano, Englaro, Ciotti, Mazzi, Scarpinato,
Caselli, Welbi, Gallo e di tanti altri conosciuti e sconosciuti, tra i quali quasi tutti i sessantottini che non hanno rinnegato niente e non si uniscono al coro della mistificazione storica, del revisionismo di centro-destra, della manipolazione del passato funzionali al controllo sociale autoritario.

Infine, una breve puntualizzazione storica. Le trasformazioni del ‘68.
Negli anni ’60 inizia in Italia il tramonto, oggi non ancora completato, dell’egemonia patriarcale, autoritaria, gerarchica sulla società, una società della diseguaglianza tra nobili, borghesi, proletari, del padre-padrone, del padrone delle ferriere, del burocrate despota, del matrimonio indissolubile con annesso libertinaggio maschile, dell’inferiorità femminile, dell’autorità come arbitrio, delle convenzioni e dei galatei come norme, dell’aborto clandestino, del divorzio via uxoricidio etc. Il movimento del ’68, fondamentalmente anti-autoritario, funziona come catalizzatore di quei svariati processi, assai più ampi, di libertà ed eguaglianza che hanno riconosciuto la centralità dell’essere umano e della sua responsabilità personale e i suoi diritti fondamentali di cittadinanza, misconosciuti nella società pre-sessantottina. Tali processi hanno portato:
1. sul piano sociale a una sostanziale eguaglianza di dignità e diritti tra tutti i cittadini, al diritto di divorzio, di famiglia, dell’interruzione di gravidanza, allo Statuto dei lavoratori che garantisce ai lavoratori sindacati, assemblee, consigli, corsi di studio, ai diritti dei giovani all’autodeterminazione e allo studio, all’emancipazione sessuale, alla parità delle donne, alla liberalizzazione degli accessi universitari, all’abolizione dei manicomi-carceri, al diritto alla salute attraverso il Sistema sanitario nazionale;
2. sul piano culturale all’obsolescenza del principio di autorità nelle molte varianti patriarcali, paternaliste e dogmatiche etc., all’elaborazione di un sapere critico partecipato dalla comunità, ad una revisione delle tecniche e delle logiche dell’Educazione in senso scientifico, democratico e partecipato, a una consapevolezza dei condizionamenti sociali ed economici della cultura e della scienza;
3. sul piano politico al superamento del regime post-fascista con quell’attuazione della Costituzione che avvia il riconoscimento dei diritti di cittadinanza di tutti, corrodendo il monopolio del potere nelle mani di oligarchie, gerarchie, massonerie e mafie.



«Ma per noi il Sessantotto fu l’epilogo della creatività»
L’intervista di Paolo Di Stefano a Piergiorgio Bellocchio pubblicata dal Corriere della Sera il 2 aprile 2009

Chi ricorda la «rivoluzione di car­ta » dei Quaderni piacentini, la rivista che dal ’62 ha cavalcato le lot­te della nuova sinistra, non può non associare a quel foglio di batta­glia il nome di Piergiorgio Belloc­chio, che ne fu il direttore fino al­l’ 84, anno della chiusura. «A molti — dice oggi Bellocchio — il ’68 ha reso bene: un trampolino per otti­me carriere in ogni settore, dalla po­litica ai giornali, dall’editoria alla pubblicità, dalla Tv all’industria. Per me invece rappresenta una tas­sa, vita natural durante, che periodi­camente mi tocca pagare anche sot­to forma di intervista». E infatti ec­colo qua, Bellocchio, a tracciare una sorta di sconfortato bilancio del mo­vimento che auspicava l’immagina­zione al potere. «Uno slogan clamo­rosamente smentito dalla storia — dice — la politica non ha fatto che degradarsi in progressione: gli anni ’80 peggio dei ’70, i ’90 peggio degli ’80, e via fino a oggi. La crisi econo­mica non sarà un’occasione di rin­novamento e di riscatto. I momenti di forte agitazione, mobilitazione e lotta esprimono inevitabilmente dei leader, non necessariamente del­le teste. Le migliori teste teorico-po­litiche del ’68 sono stati i tedeschi Dutschke e Krahl, entrambi morti tragicamente troppo presto. In casa nostra, gli eccellenti contributi di Viale, Donolo, Ciafaloni, Rieser ecce­tera non hanno avuto seguito dopo il ’68-’69».

Dunque, l’anno in cui il quasi no­vantenne Picasso esplodeva di furo­re creativo finì per essere una tom­ba per la fantasia? «Penso che il ’68 non sia stato un ini­zio, un ‘début’, come volevano i francesi, ma piuttosto la con­clusione, fiammeg­giante, di una fase sto­rica. L’unica ‘immagi­nazione’ che s’è svi­luppata è stata quella criminale. Se si vuole risalire, bisogna aver chiaro il punto in cui siamo sprofondati, e dal quale occorre ripartire: è l’Italia fedelmente ritratta da Gomorra».

L’anno magico della «Suite 347» va dunque archiviato come il punto di caduta a picco delle speranze e dello slancio fantastico? «Sul fronte culturale, della mentalità, del costu­me e del gusto c’è stata una progres­siva regressione, dal ’68 in poi. An­che nello stile di vita: incanaglia­mento dei rapporti umani, non solo in Italia». E sul piano artistico-lette­rario? «Assai più ricco e fertile è sta­to il decennio precedente, che ave­va visto il traumatico processo di modernizzazione del Paese, l’avven­to del neocapitalismo. Che è il tema esplicito o implicito con cui si sono misurati poeti come Pasolini, Giudi­ci, Zanzotto, saggisti come Fortini, Cases, Garboli, narratori come Vol­poni, per dire i primi nomi che mi vengono in mente. Dopo il ’68 non me ne viene in mente nessuno». E uscendo dal campo letterario? «Non ho gran competenza in materia mu­sicale e di arti visive. Teatro, non ne abbiamo mai avuto. Siamo vissuti di importazioni: Beckett, Pinter, Ber­nhard, il Living, Peter Brook… Ma c’è ancora qualcosa che valga la pe­na di importare? Molto meglio il ci­nema: Ferreri, Bellocchio, Bertoluc­ci, preceduti dal Free cinema ingle­se e dalla Nouvelle vague. E il cine­ma americano. E vecchi maestri co­me Bresson e Kubrick, che non han­no smesso di sfornare capolavori fi­no alle soglie del 2000».

Tutto qui? Un po’ pochino quel che resta, nel patrimonio artistico, di quell’entusiasmo politico… «Ho il sospetto che le testimonianze più vive e originali del nostro post-’68, più che dalla letteratura o dal cine­ma, siano venute dal fumetto, da quella scuola di disegnatori e vignet­tisti concentrati, mi sembra, soprat­tutto a Bologna. Qualcuno s’è ven­duto, ma molti hanno difeso a ol­tranza la loro indipendenza: autoge­stione sentita come un dovere e un onore. Finendo, non pochi, per au­todistruggersi. Il loro suicidio diret­to o indiretto, tra droga e Aids, testi­monia quanto meno della loro au­tenticità, del loro aver guardato il male dell’epoca più a fondo di tanti altri artisti e letterati che non hanno smesso di affliggerci con le loro in­sulsaggini ». Insomma, vuoi vedere che il vero erede italiano del Picasso della «Suite 347» sarebbe Andrea Pa­zienza? L’entusiasmo senile del ge­nio spagnolo ha passato il testimo­ne all’angoscia allucinata e masochi­sta del giovane Zanardi? Quando si dice i paradossi della storia…

(8 aprile 2009)



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