Terremoti e profitto non discriminano tra italiani e migranti

Annamaria Rivera



Il terremoto non discrimina tra italiani ed “extracomunitari”, come li chiamano i razzisti inconsapevoli o comunque travestiti. Non distingue tra cittadini e meteci, tra chi ha la nazionalità italiana e chi è reputato così inferiore che la sua nazionalità è detta “etnia” (anche da giornalisti di grandi quotidiani). Il terremoto è indifferente al fenotipo, al colore della pelle, alla provenienza, alla religione, alla lingua materna. Non controlla i permessi di soggiorno. Se ne infischia dei sacri confini padani inventati dalle menti malate di malfattori in camicia verde. Le catastrofi sono cieche sicché al massimo distinguono tra borghesi e proletari. Colpiscono più spesso i secondi, soprattutto se sono operai costretti dal padrone a lavorare mentre la terra trema e con essa i capannoni mal costruiti.

La catastrofi sono come Tiresia: non vedono ma rivelano, additano verità. Smascherano le retoriche razziste dell’invasione degli alieni praticate da tribuni di ogni risma, compresi quelli a cinque stelle. Smentiscono la leggenda dell’estraneità irriducibile degli “islamici” propalata da un certo preteso campione del pensiero liberale, tal Giovanni Sartori. Mostrano che, quantunque esclusi dalla nazionalità italiana, loro e la loro progenie, i migranti appartengono al nostro stesso paese. Si spaccano la schiena nei capannoni industriali, fanno i turni di notte, lavorano in condizioni estreme nei cantieri edili e nelle campagne del Sud e del Nord, garantiscono la sopravvivenza di molte attività produttive. In definitiva contribuiscono all’economia italiana con un apporto ben superiore alla loro incidenza demografica. E non solo: i meteci cercano di riunire le loro famiglie, mandano i figli a scuola, dunque affidano all’Italia il futuro loro e della loro prole.

Fra le vittime delle due ondate sismiche in Emilia, quelle accertate finora, in maggioranza operai (e non per caso), tre erano immigrati. Tarik Naouch, cittadino marocchino, morto la notte del 20 maggio nel crollo del capannone di una fabbrica di polistirolo, la Ursa di Ponte Rodoni di Bondeno, aveva 29 anni e da ben sei lavorava in quella fabbrica. Lavorava duro, anche di notte, per poter accogliere degnamente la giovane moglie ancora in Marocco. Era bambino quando approdò in Italia con i genitori da Beni Mellal, una delle regioni più povere del paese, fucina di emigrazione a ciclo continuo fin dagli anni settanta. Nel Belpaese aveva trascorso quasi tutta la sua vita, Tarik, ma non era cittadino italiano. Eppure si sentiva così responsabile che, fuggito dal capannone alle prime scosse, aveva subito avuto un ripensamento: era rientrato in fabbrica per azionare i sistemi di sicurezza, raccontano i suoi compagni, ed è stato allora che un pilone ha ceduto e gli è crollato addosso.

Anche Mohamed Azzar, vittima della seconda ondata sismica, era un cittadino marocchino, anch’egli operaio, anch’egli morto durante il turno di notte per il crollo del capannone della fabbrica: la Meta, una ditta di meccanica di precisione, una trentina di dipendenti, nel polo industriale di San Felice sul Panaro, nel Modenese. Mohamed aveva 46 anni ed era molto conosciuto a San Felice perché era il responsabile del centro islamico. Qualcuno lo riferisca a Sartori. Coloro che incarnano “l’estraneità radicale non integrabile” sono gli stessi che lavorano duramente nei capannoni malandati dell’ex miracolo italiano. Gli dica che perfino uno così credente da dirigere un centro islamico può essere un buon lavoratore, un onestuomo rispettato e “integrato”. Gli riveli che gli “islamici” sono fatti della nostra stessa sostanza umana.

La seconda vittima del crollo della Meta è Pavan Kumar, indiano del Punjab, di minoranza sikh. Aveva solo 27 anni e due figli piccoli: una bambina di due anni e un neonato di otto mesi. Era un “ragazzo” – volendo usare il termine ridicolo con cui i media definiscono gli italiani fino ai quarant’anni – eppure in quella fabbrica lavorava da cinque anni. Da quel che raccontano compagni di lavoro e familiari, Pavan, come Mohamed, temeva di tornare in quel vecchio capannone insicuro. Ma il padrone aveva preteso che riprendessero a lavorare, malgrado il rischio enorme che si era palesato con il primo terremoto. Probabilmente Mohamed e Pavan si erano infine piegati a quell’ingiunzione assurda per timore di perdere il lavoro. Se si è immigrati, il licenziamento significa perdere non solo occupazione e reddito, ma anche il permesso di soggiorno e quell’avanzamento minimo di status che esso comporta.

Oggi i mezzi d’informazione per lo più esprimono compassione per la sorte di tutte le vittime del sisma. Alcuni arrivano perfino a chiamare con nome e cognome le vittime “straniere”, a corredare le notizie con qualche cenno alle loro biografie, sottraendole così al magma dell’alterità indistinta in cui di solito è annegata l’individualità dei migranti. Ma quanto durerà? Eppure speriamo che non siano pochi ad accogliere la lezione che la catastrofe ci consegna: della classe operaia, così negletta eppure così indispensabile e valorosa, sono parte integrante i lavoratori meteci, cioè inclusi economicamente, ma esclusi da diritti civili e politici, perfino da alcuni diritti sociali. Per ricompattare la classe, come si diceva un tempo, per renderla capace di resistere agli assalti della crisi, delle politiche di “austerità”, dei loro dissennati gestori, occorre battersi non solo contro il progetto di seppellire l’articolo 18 e altri diritti fondamentali, ma anche perché i meteci possano diventare cittadini a pieno titolo: almeno sulla carta, per cominciare.

(30 maggio 2012)



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