Tunisia: il Nobel per la pace come auspicio di pace sociale?

Annamaria Rivera



L’edizione online del quotidiano Huffington Post-Maghreb del 12 ottobre scorso si apriva con queste tre notizie dalla Tunisia: due soldati sono uccisi e quattro feriti in scontri con jihadisti sul Monte Sammama; a ‘El Ouardia, nella banlieue di Tunisi, un uomo, fermato per presunto consumo di stupefacenti, muore in seguito al feroce pestaggio di una squadra di poliziotti; nell’ospedale di Sfax, soccombe alle ustioni un giovane diseredato che tre giorni prima si era fatto torcia umana dopo il sequestro della sua mercanzia da parte di agenti municipali. Un gesto assai simile a quello di Mohammed Bouazizi, “la scintilla della rivoluzione”.

Queste tre notizie, niente affatto eccezionali, sono la rappresentazione sintetica di una delle facce della Tunisia post-rivoluzione. La quale, com’è ben noto, recentemente è stata gratificata dal Nobel per la pace conferito al famoso Quartetto per il Dialogo: cioè l’Ugtt (Unione generale dei lavoratori tunisini), la centrale sindacale più importante; la Ltdh (Lega tunisina dei diritti dell’Uomo); il sindacato padronale Utica (Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato) e l’Ordine degli avvocati.

Il Nobel ha premiato il Quartetto in sostanza per aver contribuito all’uscita pacifica dalla grave crisi che si era aperta dopo gli dei due illustri dirigenti di sinistra, Chokri Belaid e Mohammed Brahmi.
Col bel risultato d’aver insediato come Primo ministro Habib Essid, ex funzionario di spicco del ministero dell’Interno nell’era di Ben Ali. Non per caso, di recente è stato presentato un progetto di legge per la « riconciliazione nazionale », che permetterebbe l’aperto ritorno ai loro affari dei vecchi arnesi della dittatura benalista: inutile dire che il progetto è vivamente contestato dalla “società civile”, quella più autenticamente tale. D’altronde, com’è evidente, l’ex partito unico del vecchio regime, l’Rcd, ha continuato a restare ben insediato negli apparati di sicurezza e in gangli del ministero dell’Interno, nonché in sistemi finanziari e reti mediatiche.

Come si dice in sintesi nel sito ufficiale del Premio Nobel, il Quartetto è stato premiato, in definitiva, “per il suo contributo decisivo all’edificazione di una democrazia pluralistica in Tunisia sulla scia della Rivoluzione del Gelsomino del 2011”. Già la motivazione, che ho tradotto alla lettera, fa trapelare una certa ignoranza in materia di Tunisia, se non altro per la stolta convenzionalità della formula Rivoluzione del Gelsomino (sic).

Certo, per tanti versi la Tunisia è un paese ammirevole, soprattutto per reattività democratica, senso della partecipazione civile, attivismo sociale e politico, vivacità e innovazione culturali: in definitiva, perché non conosce pace sociale. Ed è l’unico, tra i paesi coinvolti nelle cosiddette primavere arabe, che, sebbene assediato dal terrorismo jihadista, perseveri sulla strada, pur assai accidentata, della transizione democratica, per merito anzitutto della sua “società civile”. Ma quest’ultima non è rappresentata solo o principalmente dal Quartetto, il quale, nonostante i meriti dell’Ugtt e della Ltdh in particolare, ne rappresenta la componente più istituzionalizzata; ma anche e soprattutto dalla miriade di associazioni, attiviste/i, movimenti, anche spontanei, che in questi anni hanno cercato di mantenere vivo lo spirito della rivoluzione.     

Questo è lo stesso paese ove in carcere e nelle caserme di polizia spesso si pratica la tortura, anche esiziale, a dispetto dei nuovi strumenti legislativi adottati per contrastarla: nel solo mese di settembre se ne sarebbero registrati 23 casi, la cifra più elevata nel periodo post-rivoluzione, secondo l’Octt, l’Organizzazione contro la tortura in Tunisia. E’ il paese in cui le lotte spontanee per il lavoro e la dignità, spesso aventi per protagonisti gli stessi giovani che con la loro sollevazione spontanea determinarono la caduta del regime di Ben Ali, sono sovente soffocate con la repressione più brutale. E’ il paese che continua a registrare il fenomeno dei suicidi di protesta per fuoco, compiuti soprattutto da giovani diseredati: indizio di disillusione e disperazione, fino alla sindrome autodistruttiva che induce a togliersi la vita nel modo più pubblico e più atroce, o a cercare rifugio nelle file dell’.

E’ la stessa Tunisia in cui il terrorismo, che imperversa con cadenza quotidiana, è pretesto per la violazione di diritti umani basilari, autorizzata dalla nuova legge antiterrorismo, a dir poco illiberale, che tra l’altro ri-legittima la pena di morte. Quanto alla libertà di espressione, non poche volte è conculcata, soprattutto se praticata da blogger, rapper, attivisti di radio libere e altri stravaganti. Sono loro, in realtà, che avrebbero meritato il Nobel per la “democrazia pluralistica” insieme con i comitati di base dei laureati disoccupati, le associazioni antirazziste e quelle che difendono i diritti delle donne, delle minoranze, delle persone Lgbt.

Questo Nobel, in definitiva, rischia di favorire solo le classi dirigenti, legittimandone l’operato qualunque esso sia. Non certo le classi subalterne cui la rivoluzione è stata confiscata e che oggi, in un contesto ove si acuiscono le differenze di classe, patiscono una condizione sociale assai penosa. Questa, a sua volta, è aggravata da numerosi fattori: dalla crescita della disoccupazione, soprattutto tra i giovani laureati, al perdurante abbandono delle regioni non costiere; dalle politiche di austerità fino al crollo vertiginoso del settore strategico del turismo, con la fuga d’investitori e imprenditori stranieri, a causa degli attentati.

Questi problemi non saranno certo risolti se il FMI dovesse accetta la richiesta della Tunisia di un nuovo piano di aiuti, ovviamente in cambio di altre “riforme” di stampo neoliberista. Che il neoliberismo sia la direzione di marcia è confermato anche dal negoziato con l’UE per l’Aleca (Accordo di libero scambio completo e approfondito), lanciato ufficialmente il 13 ottobre scorso.

Proprio nel periodo in cui il comitato del Nobel per la pace si riuniva per le ultime risoluzioni, uno studente di Sousse, già in carcere, veniva condannato, il 22 settembre, a un anno di prigione per sodomia, dopo aver subito un umiliante e doloroso test anale. La pena gli era comminata in base all’articolo 230 del codice penale, un retaggio del Protettorato francese, mai abrogato nonostante la pressione delle associazioni che oggi si battono per i diritti delle persone Lgbt, e assai coraggiosamente. Infatti, l’omofobia (al pari del razzismo anti-neri) è radicata perfino nelle espressioni più avanzate della società tunisina: una delle componenti più progressiste del Quartetto, la già citata Ltdh, incalzata ripetutamente, ha esitato per sei giorni prima di prendere posizione su questo caso scandaloso.

Immaginiamo che un giorno lo studente di Sousse, esasperato per le discriminazioni e le angherie ch
e subisce, decida di partire “clandestinamente” per l’Italia e, ammesso che ci arrivi vivo, presenti domanda per ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Quasi sicuramente otterrebbe un diniego. Assurdo, penserebbero i membri della commissione: osa chiedere d’essere protetto il cittadino di un paese premiato col Nobel per la pace (e per la democrazia pluralistica)?

Non credo sia troppo infondato ipotizzare che a giovarsi del conferimento del Nobel al Quartetto sarà anche chi ha interesse a proclamare che la Tunisia è un paese che più sicuro non si può. Certo, non è da ora che esso è considerato un partner affidabile: dalla Nato, dagli Stati Uniti, dall’UE. Ancor più dall’Italia, avendo sempre sottoscritto, qualunque vento politico soffiasse, accordi bilaterali per il controllo delle frontiere e la riammissione dei migranti rimpatriati. Ma oggi la Tunisia risulterebbe utile più che mai anche per contribuire a risolvere la “crisi dei rifugiati”: collaborando più fermamente al controllo delle nostre frontiere; proseguendo più intensamente sulla strada del Processo di Khartoum per bloccare gli esodi diretti in Italia; ospitando campi per rifugiati, sebbene conservi una legge sull’immigrazione-emigrazione tra le più dure e illiberali, e mai abbia sottoscritto la Convenzione di Ginevra. 

(15 ottobre 2015)



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