Tunisia, il tappo del regime è saltato
Annamaria Rivera
La Tunisia è in assemblea permanente. L’effervescenza partecipativa e la rivendicazione continua non riguardano solo la capitale: in ogni località ci si imbatte in presidii e cortei spontanei. I giovani discutono sulle sorti della rivolta e sui tentativi di normalizzarla.
, da il manifesto, 4 maggio 2011
Basta passeggiare in avenue Bourghiba, a Tunisi, per rendersi conto dell’euforica passione per la libertà che ha preso i tunisini e le tunisine. A ogni ora della giornata, i tavolini all’aperto dei caffè sono affollati d’ogni genere di avventori: giovani abbigliati nei modi più diversi, ragazze «velate» accanto ad altre che ostentano piercing e capelli cortissimi, coppie con bambini, gruppetti di donne mature, da sole, il capo coperto da un hijab nero. Vi sono anche, soprattutto, militanti e dirigenti dei numerosi partiti di sinistra, che discutono di politica e delle sorti della rivoluzione del 14 gennaio, come viene detta ufficialmente. Se li si vuole incontrare basta sedersi, a partire dal primo pomeriggio, davanti al caffè L’Univers che sta a metà dell’avenue.
Nei pressi del caffè, lo slargo sul marciapiede di fronte è divenuto una sorta di Speakers’ Corner: malgrado la lunga barriera di filo spinato e i carri armati dell’esercito a protezione permanente del Ministero dell’Interno, capannelli densi e numerosi si formano incessantemente, dal mattino alla sera e tutti i giorni, non solo la domenica come a Hyde Park. Anche lì si discute di politica, più che altro a partire da fatti quotidiani: un’ingiustizia subita, un sopruso poliziesco, lo scandalo di certe assunzioni pubbliche in cambio di cospicue tangenti, l’ennesima prova della permanenza o dell’infiltrazione del Rcd, il partito di Ben Ali, in istituzioni locali, amministrazioni pubbliche, imprese private bastano ad agglutinare le piccole folle contigue. Poco lontano, la scalinata del Teatro Municipale è occupata ogni giorno da manifestazioni spontanee, soprattutto di giovani che hanno partecipato alla rivoluzione e che protestano contro i tentativi di confiscarla al popolo. Può succedere perfino, come abbiamo constatato, che da un sit-in si stacchi un corteo non autorizzato che si dirige temerariamente verso il Ministero dell’Interno.
L’effervescenza partecipativa e la rivendicazione permanente non riguardano solo la capitale: in qualsiasi località si arrivi, ci si può imbattere in presidii o cortei spontanei.
Per dirne una, a Grombalia, lungo la strada da Tunisi a Nabeul, abbiamo visto un gruppo di giovani, donne e uomini, che esibendo cartelli scritti a mano, protestavano davanti al Municipio contro la chiusura di un ipermercato e il licenziamento in tronco di ottanta dipendenti.
È come se, saltato il tappo del regime, l’ebollizione della società, contenuta a forza di repressione feroce, dominio del terrore, spionaggio e delazione capillari, fosse scoppiata in forma di geiser caldi, potenti, continui. Per farsi un’idea di quel che fosse il regime cleptomane e poliziesco di Ben Ali e della sua banda, basta parlare con qualche dirigente o semplice militante di uno dei numerosi partiti di sinistra, a quel tempo fuori legge. Essi raccontano dell’attività politica clandestina durante il regime svolta sotto falso nome e in località lontane centinaia di chilometri dal luogo di residenza: perfino tra compagni di partito i veri nomi erano reciprocamente ignorati, anche i parenti più stretti erano tenuti all’oscuro del loro impegno.
L’esperienza della clandestinità è la forza – determinazione e spirito militante non mancano – ma anche la debolezza, ci sembra, dei partiti e movimenti di sinistra, che ancora esitano a mettere al primo posto il lavoro sociale. Ed è questa una delle tante ragioni del successo di Ennahda, il partito islamista, che invece, anche grazie alle ingenti risorse materiali di cui dispone, riesce a essere presente ovunque, soprattutto nelle regioni più povere, fra le classi popolari e i diseredati. E non solo: in uno dei tanti villaggi della frontiera fra la Tunisia e la Libia, che ha accolto ben tremila rifugiati, Ennahda, insieme ad altri gruppi islamisti venuti dalla Francia, svolge un’attività molto efficiente, ci hanno riferito, degna delle massime organizzazioni umanitarie.
La frantumazione del panorama politico tunisino (finora sono almeno 65 i partiti legalizzati) e soprattutto della sinistra, condurrebbe di sicuro alla vittoria degli islamisti nelle prossime elezioni di luglio dell’Assemblea costituente se l’«Istanza superiore per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione» non avesse adottato il sistema proporzionale con i resti, che favorirà la rappresentatività di buona parte dei partiti che presenteranno liste elettorali. L’Istanza superiore ha anche deciso che le liste debbano essere costituite per la metà da donne.
L’asimmetria di mezzi e di consenso popolare, forse anche una certa vaghezza, finora, dei loro programmi politici, spinge i partiti di sinistra a definirsi spesso per opposizione a Ennahda, che talvolta è oggetto di una sorta di demonizzazione, più di quanto meriti: certo, tende alla doppiezza politica, è talvolta compiacente verso il Rcd, ma in fondo può essere considerata anche un argine contro il rischio dell’estremismo islamista violento. Ma la definizione di sé per opposizione a un avversario concepito quasi come un nemico assoluto non va fino al rifiuto di conservare nella nuova costituzione l’articolo che definisce la Tunisia come un paese arabo-musulmano. Su questo punto alcuni militanti di sinistra con i quali abbiamo parlato sono molto cauti. Sostengono, infatti, che «le masse» non comprenderebbero il loro rifiuto, che in fondo conservare quell’articolo è solo fotografare la società tunisina. E quando obiettiamo che della società tunisina sono parte integrante le minoranze linguistiche, culturali, religiose e non-religiose – berberofoni, francofoni, italofoni, ebrei, cristiani, agnostici, atei… – replicano che queste saranno oggetto di protezione e che la libertà di culto sarà garantita. Fra l’altro sottovalutano, ci sembra, lo spirito laico e pluralista, se non cosmopolita, che cova fra tanti giovani che hanno acceso le rivolte e partecipato alla rivoluzione.
Ben più legato «alle masse» sembra l’Ugtt (Unione generale tunisina del lavoro), la principale e storica centrale sindacale. Da aver avuto leadership asservite al regime, perfino corrotte, ha finito, grazie alla pressione della base, per sostenere e partecipare al movimento di rivolta contribuendo decisamente al suo successo. Sempre per pressione della base, la sua dirigenza, dopo aver accettato di partecipare al governo di unità nazionale di Mohamed Ghannouchi, è stata costretta subito a dimettersene. Oggi il l’Ugtt è trasformato nella forza propulsiva della rivoluzione più diffusa e organizzata. Lo scorso 23 aprile, all’incontro promosso dal sindacato locale a Ben Arous, cittadina a sud della capitale, della sessantina di partecipanti un buon terzo è costituito da donne; a presiederlo ci sono tre donne, una delle quali nera, tre uomini e due giovani maschi. L’incontro si è concluso col concerto di un gruppo ugualmente misto, che ha eseguito canzoni rivoluzionarie su musica tradizionale. Come da manuale, l’ultimo pezzo proposto è stato L’Internazionale, cantata in più lingue insieme al pubblico, che si è levato in piedi entusiasta e commosso.
Nessuna donna, al contrario, al tavolo della presidenza del Comitato per la salvaguardia della rivoluzione di Medina El Jedida, un altro sobborgo di Tunisi, riunito quello stesso giorno. Per la verità i sette uomini che presiedevano l’incontro, dedicato a r
iferire (lo fa un giurista accademico) e a discutere le decisioni dell’Istanza superiore, di tutto hanno l’aria tranne che di rivoluzionari: formali, impettiti, vestiti col tipico gessato scuro, sembrano piuttosto dei funzionari del vecchio regime. Ma, si sa, lo stile non è tutto: può darsi che la rigidità apparente nasconda cuori ribelli…
Densa di cuori palesemente ribelli è invece la grande assemblea – circa tremila partecipanti- che il 24 aprile, nel Palazzo dei Congressi di Tunisi, ha sancito l’unificazione fra due formazioni che si definiscono marxiste-leniniste: l’Mpd (Movimento dei patrioti democratici) e il Ptpdt (Partito del lavoro, patriottico e democratico). Nella dichiarazione finale denunciano «le manovre orchestrate da ambienti imperialisti » per confiscare al popolo e far fallire la rivoluzione tunisina e le altre del mondo arabo. Il pubblico – tanto folto da straripare nella hall, nei corridoi, nelle altre sale del Palazzo – non potrebbe essere più eterogeneo: donne e uomini, proletari e piccolo-borghesi, giovani e anziani, numerose coppie con figli. Per i quali sono stati organizzati giochi di animazione nel piazzale davanti al Palazzo. Mentre all’interno si discute delle manovre imperialiste, fuori un dj e due clown (una ragazza e un ragazzo) fanno ballare i bambini a suon di rap. L’atmosfera è calda, euforica, amichevole. Qui, come in qualsiasi incontro cui abbiamo partecipato, siamo accolti a braccia aperte come compagni.
Uno dei segni della potenza della rivoluzione ma anche dei tentativi di normalizzarla è che essa sia divenuta una sorta di logo. I suoi slogan, i suoi elementi iconografici principali – la bandiera nazionale, i ritratti di Mohamed Bouazizi e di Che Guevara – campeggiano ovunque, anche dove meno te lo aspetti. Perfino La Gazelle, la rivista patinata della Tunis Air distribuita gratuitamente sugli aerei, dedica il titolo e la foto di copertina del numero del primo trimestre 2011 alla «révolution du jasmin» (detta così a uso dei turisti). All’interno un articolo esalta la rivoluzione come fosse una delle tante attrattive turistiche del Paese.
La migliore libreria di Tunisi, in Avenue Bourghiba, ha una vetrina dedicata solo a libri e poster sulle malefatte del regime e sulla rivoluzione. In bella mostra c’è la riedizione di un libro pubblicato nel 1999 da La Découverte, Notre ami Ben Ali: l’envers du miracle tunisien, dei giornalisti Nicolas Beau et Jean-Pierre Tuquoi. All’epoca il volume scomparve dal mercato dei paesi francofoni in pochi giorni: i servizi consolari tunisini avevano ricevuto l’ordine di comprarne il maggior numero possibile di copie. All’interno della libreria campeggiano due ritratti del Che e una caricatura di Ben Ali con svastica, baffetti e postura alla Hitler.
Fotocopie sbiadite di caricature di Gheddafi, Mubarak e Ben Ali sono in vendita per un dinaro anche su un modesto banchetto ambulante che vende i quotidiani tunisini mainstream: un tempo asserviti al regime, oggi, cambiata la casacca, hanno conservato un certo conformismo e la tendenza a censurare tutto quel che sa di «disordine» e di sinistra. Ed è questa, finora, un’altra delle debolezze della rivoluzione: non disporre di organi d’informazione che la rappresentino e la raccontino degnamente e fedelmente.
Finora la rivoluzione ha appena scalfito – ma non potrebbe essere diversamente – tratti strutturali del regime come il sistema di corruzione, capillare e diffuso, e la tendenza a usare il potere, grande o minimo che sia, in modo arrogante o violento contro coloro che stanno più in basso.
Seduti con amici tunisini a prendere un caffè nella grande sala dell’hotel El Hana International ci è capitato di assistere a una scena esemplare. D’un tratto due agenti privati al servizio dell’albergo, alti e corpulenti, fanno irruzione nella hall trascinando un omino dall’aria dimessa che si agita disperato. Lo strattonano e lo schiaffeggiano senza vergogna davanti alla cinquantina di avventori, in gran parte tunisois di classe media, mentre lui protesta e cerca di liberarsi. I due bruti lo afferrano ancor più strettamente per le ascelle e quasi sollevandolo lo trascinano per la sala verso il corridoio di servizio che conduce all’aperto. Eccetto tre di noi – cerchiamo d’intervenire finché le guardie non ficcano lo sventurato in un gabbiotto esterno -, nessuno nella sala reagisce, anzi quasi tutti fingono di non vedere.
Le stesse gerarchie sociali, di classe e di potere, sembrano scarsamente intaccate dal processo rivoluzionario, anche a causa della crisi economica, aggravata dal crollo del settore turistico e del suo vasto indotto informale. Certo, la solidarietà popolare diffusa, la tendenza a soccorrere chi ha bisogno, la socialità densa, le relazioni faccia a faccia valgono a compensare le spietate disuguaglianze sociali.
Sono proprio questi tratti che hanno contribuito a far sì che atti individuali – il suicidio col fuoco di Mohamed Bouazizi e di altri – suscitassero, nelle regioni più povere del Paese, l’indignazione collettiva, che questa si trasformasse in rivolta, che la rivolta dilagasse ovunque diventando rivoluzione. E che questa determinasse l’incredibile accelerazione della storia alla quale la sorte ci permette oggi di assistere. Speriamo che il destino ma soprattutto l’opera degli umani siano generosi nei riguardi della rivoluzione del 14 gennaio e la conducano verso il traguardo che merita.
(5 maggio 2011)
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