Ungheria, l’opposizione unita contro il veto del governo al Recovery Fund

Massimo Congiu



Per il primo ministro ungherese Viktor Orbán il veto posto al bilancio Ue di 1.800 miliardi per il periodo 2021-2027, contenente i 750 miliardi di Recovery Fund, è una presa di posizione contro il principio di condizionalità. In questo caso il vincolo per ricevere i fondi è il rispetto dello Stato di diritto, cosa tutt’altro che garantita in Ungheria dove il governo concepisce e fa approvare ormai da tempo leggi ben lontane dagli standard democratici auspicati dall’Ue.

In generale c’è, da parte del premier, il rifiuto di qualsiasi regola fissata da Bruxelles quale condizione per ottenere fondi o continuare a far parte dell’Unione. Un altro esempio recente, sempre relativo all’elargizione dei fondi, è il no pronunciato da Orbán, in consonanza con gli altri leader del Gruppo di Visegrád (V4), all’accoglienza dovuta a profughi e migranti sul territorio dei paesi membri senza sentire preventivamente il parere dei parlamenti nazionali e delle popolazioni interessate.

Lo strappo operato dai paesi del V4 rispetto a Bruxelles ha i connotati della rivalsa della periferia dell’Ue, vista come tale in termini geografici e di influenza, nei confronti del suo centro che dai primi viene accusato di ingerenze negli affari interni degli stati membri. In quest’ultimo caso Orbán sostiene di non riconoscere, ai vertici comunitari, l’autorità di stabilire se in un paese sia rispettato lo Stato di diritto. Per il leader danubiano tale facoltà spetta unicamente ai cittadini del paese interessato; a suo avviso in Ungheria non esiste alcun problema da quel punto di vista. Orbán fa inoltre una distinzione fra Europa occidentale ed Europa orientale: nel confronto fra queste due componenti del Vecchio Continente vede una differenza in termini di valori di riferimento e di visione delle cose. A suo avviso questa differenza va compresa e rispettata, dal suo punto di vista i conflitti fra le parti si attenueranno solo quando l’Europa occidentale metterà da parte la pretesa di imporre i suoi riferimenti ai paesi dell’Europa orientale, quei valori liberali che Orbán e i suoi avversano e considerano funzionali a forme di colonialismo economico ma ormai in declino.

Il primo ministro ungherese aveva da subito contestato la cifra del Recovery Fund destinata all’Ungheria e in generale il meccanismo di calcolo dei fondi da versare ai vari paesi membri colpiti dal nuovo Coronavirus. L’aveva definito profondamente iniquo e addirittura “perverso”, teso a far pagare ai paesi meno poveri i debiti di quelli più ricchi. C’è in questa presa di posizione la denuncia di disparità di trattamento fra gli stati membri occidentali e quelli dell’Europa centro-orientale. Tali critiche sembrano voler dire che Ungheria, Polonia e vicini non sono entrati a far parte dell’Ue per essere sfruttati dagli stati più ricchi e diventare vere e proprie colonie. Delle colonie un po’ sui generis considerando anche il fatto che in genere, in termini economici, Budapest ottiene più della misura del suo contributo al bilancio comune.

Comunque, le affermazioni cui prima si è dato spazio fanno parte della propaganda del governo ungherese che si fregia del merito di riuscire a tener testa a Bruxelles e di aver in questo modo riscattato l’orgoglio nazionale.

Un orgoglio male interpretato, secondo l’opposizione ungherese politica e sociale. Per loro non c’è da essere orgogliosi di essere governati da un sistema che sta erodendo progressivamente sempre più spazi di libertà. Gli ambienti progressisti cercano di mettere in guardia l’opinione pubblica dalle sirene di una propaganda intenta a offrire visioni distorte in termini di rapporti con il resto dell’Ue e da una politica che porta il paese verso una deriva sempre più antidemocratica ed antieuropea. Ed ecco circolare in rete una petizione supportata da un documento firmato dai leader dei principali partiti dell’opposizione, compreso Jobbik. Documento che, rivolgendosi alle istituzioni comunitarie e agli altri paesi membri raccomanda di non identificare il governo Orbán con tutta l’Ungheria e sottolinea il danno economico che il veto arreca ai cittadini ungheresi e del resto dell’Ue. Il testo chiede quindi ai soggetti prima citati di impegnarsi a trovare una soluzione che impedisca a Orbán di continuare ad ostacolare la messa in funzione di strumenti con i quali superare la crisi economica dovuta al Covid-19 e si appella a tutti gli ungheresi esortandoli ad aderire alla petizione.

Ungheria e Polonia sono sotto la minaccia dell’Articolo 7, i loro governi vorrebbero l’arresto del meccanismo che potrebbe portare all’imposizione di sanzioni severe nei confronti dei due paesi. Un meccanismo ingiusto e ricattatorio, a loro avviso, che rischia di minare l’unità europea. Vi è però da considerare che questi leader non si stanno adoperando per questa unità e la vicenda del veto contribuisce a fornire materia di riflessione sui problemi di coesione e condivisione all’interno di questa difficile costruzione europea.

(24 novembre 2020)




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